timone Il Mercante in Rete
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Marketing nei new media e nelle tecnologie elettroniche


di Giancarlo Livraghi

gian@gandalf.it

 

Numero 28 - 1 novembre 1998

  1. Editoriale: La marca e la rete
  2. I danni del trionfalismo
  3. Il disagio del dialogo
  4. Il disagio del contenuto
  5. Il disagio del prezzo
  6. Due opinioni sui "banner"

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loghino.gif (1071 byte) 1. Editoriale: La marca e la rete
Una domanda che circola spesso è: "nelle attività d’impresa in rete è importante la marca?" La risposta, ovviamente, è si; ma mi sembra che il tema meriti qualche approfondimento.

Nel mondo tradizionale del marketing e della comunicazione il concetto di "marca" ha subito uno strano deterioramento. Viene spesso confuso con un’idea vaga di notorietà e di "presenza"; come se la marca, cioè l’identità di un’impresa (o di un prodotto), si potesse ridurre al solo fatto che un nome sia conosciuto; e come se qualche labile trucchetto cosmetico – o addirittura la riduzione di una marca ad accessorio di qualche fanciulla di più o meno gradevole aspetto, o di qualche attore più o meno comico – potesse sostituire una strategia di marketing e di comunicazione. Sembra che molte imprese si vergognino dei loro prodotti e non abbiano il coraggio di presentarli senza qualche maschera o travestimento.

Da molti anni vedo cose come queste nella pubblicità tradizionale; e continuo a chiedermi perché tante imprese (fra cui alcune molto importanti) buttino via i soldi o corrano il rischio di farsi del male. È perfettamente possibile essere interessanti, attraenti e non noiosi senza svilire la marca e il prodotto con lazzi e frizzi da avanspettacolo. Ma sembra che quest’arte (non facile; ma concretamente praticabile se si applicano con intelligenza i princìpi della strategia di comunicazione) sia in gran parte dimenticata.

Trasferire quel concetto superficiale di "immagine" in un mondo interattivo (dove ciò che conta è il dialogo e dove non ha senso seguire le logiche della comunicazione "a senso unico") mi sembra un tentativo di suicidio. Eppure sembra che molti pensino a dabbenaggini di questa specie quando dicono che occorre "costruire marche" in rete.

Credo che sia meglio affrontare il tema da tutt’altro punto di vista; e per far questo mi sembra opportuno risalire al concetto fondamentale di "marca". Che è qualcosa di molto più importante e rilevante di una vaga e inconsistente "immagine".

Chiunque abbia studiato un sillabario del marketing (o della cultura d’impresa) sa che la marca è un bene importante, "immateriale" ma molto concreto. È un’identità, una relazione e un rapporto di fiducia. Si sceglie un prodotto di marca perché ci si aspetta che offra maggiori garanzie di qualità e servizio – e che abbia le specifiche caratteristiche che identifichiamo con quella marca e che la rendono diversa dalle altre. Il valore-marca non è costruito solo dalla comunicazione (per esempio dalla pubblicità) ma da tutte le relazioni fra chi vende un prodotto o un servizio e i suoi clienti; cominciando dalla qualità del bene offerto e del servizio che lo accompagna. La marca, in sé, è un servizio: un "valore aggiunto" in quanto offre a chi acquista un punto di riferimento preciso, con caratteristiche inconfondibili (il più possibile diverse da ogni altra marca, e in particolare da quelle dei concorrenti). Ovvio? Certo. Ma ciò che non è facile capire è perché tante marche, oggi, abbiano identità generiche e fumose; e perché così spesso il comportamento di un’impresa non corrisponda all’identità della marca e quindi logori e indebolisca la relazione.

Tutto questo diventa più importante, e più immediatamente significativo, in un sistema di relazioni dirette e immediate come la rete. Ne deriva una conseguenza ovvia quanto trascurata: prima di pensare all’immagine che si vuol dare di una marca in rete occorre sapere se, quanto e come saremo in grado di mantenere ciò che promettiamo. E qui, spesso, casca l’asino.

Mi scuso per l’ovvietà di questi ragionamenti. Ma è quotidiana, purtroppo, la constatazione di quanto poco se ne tenga conto.

Ciò premesso... credo che nel caso specifico di una marca che si presenta in rete si debba, prima di tutto, fare una distinzione fondamentale. Si tratta di una marca già nota o di una marca che "nasce" con la rete, nel senso che fuori dalla rete non esisteva o era poco conosciuta?

Nel primo caso, è assai improbabile che l’internet sia uno strumento utile per aumentare e sostenere la notorietà. Per questo scopo sono molto più adatti i mezzi tradizionali. L’importante, in questo caso, è usare la rete per mantenere la promessa, per consolidare l’identità. E ciò che si fa (il servizio che si offre, il modo in cui si gestisce la relazione) è enormemente più importante di ciò che di dice. Credo sinceramente che se una marca non è in grado di mantenere, con la sua presenza in rete, ciò che promette (e ciò che i suoi interlocutori, "consumatori" o non, si aspettano) è molto meglio che ne stia fuori; o che cominci, con piccole sperimentazioni non troppo visibili, a verificare come può muoversi in rete senza tradire le aspettative. Ci sono esempi concreti di imprese che sono entrate in rete con attività per loro "minori" o secondarie, per fare esperienza ed esplorare il terreno prima di mettere in gioco identità più importanti.

Nel secondo caso, occorre farsi conoscere (e, cosa ancora più importante, costruire rapporti di fiducia che diano valore alla marca). La domanda fondamentale è: da chi vogliamo essere conosciuti? Se la risposta fosse "da tutti o da chiunque", vorrebbe dire che la strategia è sbagliata. Credo che nella maggior parte dei casi una conoscenza molto diffusa fin dall’inizio non sia possibile, né desiderabile. Il grande vantaggio della rete è la possibilità di gestire efficacemente piccoli gruppi, sperimentare costantemente, crescere in modo graduale, investire e strutturare servizi su scala estesa (quindi costosa) solo dopo averne sperimentato l’efficacia e aver imparato in pratica come si fa.

E poi... contrariamente a ciò che molti dicono, la prima cosa cui pensare non è l’uso della rete per farsi conoscere, ma l’uso di tutti gli altri strumenti di cui l’impresa già dispone. Dalla carta da lettere ai biglietti da visita, dal centralino telefonico ai cataloghi o alle relazioni di bilancio... e a tutte le forme di pubblicità, comprese le ricerche di personale. Per non parlare di una conoscenza dell’attività in rete da parte del mondo interno dell’impresa e dei suoi interlocutori abituali. È quotidiana, quanto desolante, la constatazione di quanto poco siano capiti i valori reali dei sistemi informatici e telematici (anche in imprese che hanno fatto forti investimenti in questo settore) non solo da parte dei dipendenti e collaboratori di ogni livello ma anche di molti dirigenti e dagli stessi "vertici" aziendali.

Credo che questa prima fase, che secondo le situazioni può durare pochi mesi o più di un anno, sia indispensabile. Solo dopo aver verificato bene il territorio e l’identità diventerà ragionevole allargare la conoscenza della marca; che nel frattempo, se il lavoro di esplorazione e verifica è ben fatto, avrà assunto un’identità precisa, uno stile e un comportamento inconfondibile. A quel punto non sarà difficile sapere come diffonderne la conoscenza. E non sarà neppure molto costoso, perché un sistema di relazioni in rete ben gestito permette di verificare passo per passo e di allargare l’investimento man mano che se ne verifica il "ritorno". È un processo lento? Non necessariamente; se la natura del progetto è tale da poter avere una crescita veloce, saranno i fatti a imprimere un ritmo vivace alla crescita. Se no... da una crescita "forzata" potrebbe nascere qualcosa di simile a quelle piante che il fiorista ha drogato per farle sembrare più belle e che in poco tempo avvizziscono e muoiono. Non è un caso che il motto di Aldo Manuzio   (pioniere in un mondo allora nuovo quanto è oggi la rete) fosse festina lente: affrettati adagio.

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loghino.gif (1071 byte) 2. I danni del "trionfalismo"
Nonostante le continue evidenze contrarie, sembra che non si esaurisca mai il filone del "trionfalismo" quando si tratta di sviluppo della rete e del cosiddetto "commercio elettronico".

Per fare un solo esempio fra tanti, anche recenti: in occasione dello Smau (22-26 ottobre) due grandi imprese, la Telecom e Il Sole 24 Ore, si sono unite per fare un’offerta promozionale di accesso alla rete, rivolta alle imprese. Hanno dato larga diffusione a un volantino in cui promettono "un miliardo di clienti" a chi fa commercio online. Qualcuno può pensare che ti tratti soltanto di una "enfasi pubblicitaria" un po’ grossolana, ma non è così; perché cifre non meno enfatiche e assurde vengono ripetute, ancora oggi, in convegni, congressi, articoli e documenti di ogni sorta; rinnovando ostinatamente ad infinitum quelle proiezioni  la cui infondatezza è stata ampiamente dimostrata dai fatti.

I lettori di questa rubrica, come ogni persona che abbia approfondito un po’ il problema, sanno che quel numero è tre volte falso. Perché il totale delle persone collegate nel mondo può essere arrivato a 100 milioni, ma non a dieci volte tanto; perché la stragrande maggioranza delle persone connesse non fa un’esplorazione "generica" e diffusa, ma si limita ad alcuni specifici usi della rete; e perché nessuna attività online raggiunge la totalità, o anche una percentuale elevata, delle persone che possono "accedere". Si continuano a riproporre quelle prospettive "marziane" di cui parlava in febbraio Jerry McGovern nel suo ironico commento sul Mito dei milioni e che avevo descritto in aprile, in una prospettiva un po’ diversa, nell’articolo Un treno per Marte.

È sempre più ovvio (ma olimpicamente ignorato dai profeti del trionfalismo) che c’è un abisso fra queste stonate fanfare e la realtà. Fra gli "addetti ai lavori" (o comunque le persone che hanno pratica concreta della rete) aumenta il fastidio. Ecco il testo di un messaggio di particolare franchezza, fra tanti che corrono in forum e liste di discussione, che l’autore mi ha gentilmente autorizzato a pubblicare. Diceva Renato Lazzati nella lista IMLI  il 29 ottobre:

Mi trovo perfettamente d’accordo con chi ha rotto il ghiaccio su un argomento che non lascia molto spazio alle filosofie pseudo-informatico-commerciali spesso utilizzate da presunti cervelloni dell’E-commerce, i cui pensieri sporcano le pagine di molti giornali, o ci riempiono i monitor coi vari "bisognerebbe fare", "se fosse come negli USA" o "questo è il futuro". Balle. Nient’altro che balle.

Qui siamo in Italia. Qui le aziende medie spendono qualche decina di milioni l’anno per la pubblicità sui quotidiani locali, sui cartelloni stradali, e chi più ne ha più ne metta. Poi si accorgono dell’internet, allora investono tre milioni per un sito + hosting + dominio + abbonamento tutto incluso. E aspettano. E aspettano ancora. Alla fine ci sentiamo dire: "ma come, il sito ce l’ho, l’ho pagato un sacco di soldi, ma non funziona".

Per non parlare di quello che pensano di noi nel resto del mondo. Io già li vedo, gli americani: anziché guardarsi un film comico se ne stanno attaccati ai siti .it, sai le risate che si fanno...

Ho esempi di aziende a cui ho telefonato per chiedere quale fosse il loro indirizzo internet, e la signorina -gentilissima-: mah, si... mi sembra che l’abbiamo.. non so.. dovrei chiedere al responsabile... casomai la faccio richiamare.

E allora non stiamo a chiederci perché qui non funziona. Lo sappiamo tutti. E per i più siamo anche pedofili (altrimenti perché useremmo l’internet?)

(A proposito di "internet e pedofili", vedi i numeri 26  e 27 di questa rubrica e altri testi su disinformazione e repressione).

Mi sembra importante capire che Renato Lazzati, come tanti altri (me compreso) che dicono le stesse cose, non è un "pessimista". Al contrario, è una persona concretamente impegnata a far crescere il business in rete. Infatti conclude così: Bah, forse il mio è solo lo sfogo di uno dei tanti, che vorrebbe fare chissà cosa e si mangia il fegato. Intanto io (come molti altri) con l’E-commerce ci campo. Alla faccia di chi non ci crede, di chi ne ha paura, di chi il computer non l’ha mai comprato perché non serve a niente.

Se non scendiamo dalle nuvole per calarci nella realtà, se non ci rendiamo conto della crescente frustrazione di chi cerca di lavorare sul serio, e del crescente disorientamento delle imprese, sarà difficile far "decollare" concretamente il business in rete.

Molti, come me, sono infastiditi dai sogni trionfalistici e li considerano pericolosi. Altri sono più benevoli. "È vero – dicono – che sono montagne di sciocchezze, ma intanto se ne parla e l’interesse cresce; a forza di sbagliare, presto o tardi si imparerà". Questa tesi è comprensibile, e non del tutto sbagliata; ma continuo a pensare che sarebbe meglio evitare un percorso così tortuoso e pieno di rischi. Per mettere i piedi per terra non è necessario indossare le ali di Icaro; e se il volo è troppo alto c’è il rischio di farsi male nella ricaduta.

È vero che siamo agli inizi, tutto è ancora in fase infantile, se si sbaglia c’è il tempo per recuperare. Ma non so se ci sia così tanto tempo. Il mondo si muove; in altri paesi, più avanzati di noi, le voci della critica e della concretezza cominciano a farsi sentire; se continuiamo a gingillarci con le fantasie e le ipotesi irrealizzabili corriamo seriamente il rischio di non riacchiappare più l’autobus che abbiamo perso.

Una doccia fredda può servire a rischiarare le idee. Guardiamo, per esempio, il mondo della pubblicità tradizionale e dei prodotti di largo consumo. Fino a qualche anno fa prevaleva il trionfalismo. In Italia tutto va bene, tutto cresce, siamo i migliori, da noi le marche sono inattaccabili. Mentre quella era la tesi diffusa, i prodotti di marca erano in declino. Nel 1996 ci fu una svolta. Un’autocritica. "Poveri noi, siamo l’ultima ruota del carro, l’Italia è arretrata rispetto all’Europa, le marche sono indebolite". Quella constatazione rifletteva una (tardiva) presa di coscienza, la necessità di un cambiamento nelle strategie d’impresa. Solo quando fu abbandonata l’euforia trionfalistica i prodotti di marca cominciarono a riguadagnare, almeno in parte, il terreno perduto.

Insomma non credo che il trionfalismo sia una buona medicina; e comunque ce n’è ancora troppo, perciò occorre un dosaggio energico di antidoti. Credo che sia importante avere coraggio, entusiasmo, fantasia e voglia di innovare; ma se tutto questo parte dalla constatazione reale dei problemi e delle possibilità, e non da false promesse o enfasi prive di fondamento, avremo molte più probabilità di ottenere risultati concreti e durevoli.

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3. Il disagio del dialogo
Si è parlato varie volte in questa rubrica del disagio   che si genera nelle imprese quando devono affrontare a comunicazione interattiva. L’argomento è stato ripreso anche in un interessante articolo  su Web Marketing Tools. In questo capitolo, e nei due seguenti, cerco di approfondire un po’ tre aspetti di questo disagio.

Il primo riguarda l’interattività; cioè il dialogo. È diffusa la constatazione che spesso, quando qualcuno mette un sito online, evita di offrire una mailbox ai lettori; o, se lo fa, poi non risponde.

Il motivo è semplice. Nella maggior parte delle imprese manca una capacità di dialogo con i "consumatori" o comunque con un pubblico esteso. Come dimostra l’esperienza dei "numeri verdi" o dei "servizi clienti" di ogni specie, che solo in qualche raro caso sanno offrire risposte o assistenza in modo soddisfacente.

Credo che sia necessario farsi una domanda severa. È obbligatorio, è necessario, è possibile avere un dialogo sempre e con tutti? La risposta, in molti casi, è no. Se un’impresa ha milioni di consumatori, come può organizzarsi in modo da poter rispondere efficacemente a "tutti"? Un’operazione del genere potrebbe essere insopportabilmente costosa, di dubbia efficacia e forse indesiderabile.

La soluzione, secondo me, sta nella strategia del progetto. Ci si dovrebbe chiedere, prima di andare online, se e con chi si vuole instaurare un dialogo. Se la risposta fosse "con nessuno, mai" ne dovrebbe seguire un’analisi dura e crudele. Stiamo andando sull’internet solo perché è di moda? Sappiamo che cosa ci andiamo a fare? Come pensiamo di usare uno strumento che è, per sua natura, interattivo? Se non si è capito perché si vuole andare in rete, non è meglio bloccare tutto e ripensare il progetto dalle radici?

Da un’analisi approfondita (che non è necessariamente complessa) è molto probabile che emerga una constatazione: le aree di dialogo ci sono, e sono (almeno all’inizio) quelle che l’impresa è già in grado di gestire. Alcune di queste (non tutte) possono funzionare meglio in rete che con i mezzi usati in precedenza (telefono, visite personali, eccetera). In questi casi (se il progetto è ben gestito) si crea quasi sempre un "circolo virtuoso": miglioramento della qualità e riduzione dei costi.

Giova ripetere una cosa ovvia ma un po’ offuscata dal polverone delle chiacchiere. Non è un dogma che il servizio (o le informazioni) debbano andare sempre e solo al "consumatore finale"; specialmente quando il numero dei "consumatori" è così alto da rendere il dialogo ingestibile. Molti risultati importanti si possono ottenere gestendo bene altre relazioni: con intermediari, con fornitori, eccetera. Specialmente nelle attività business to business   – ma non solo.

Si può constatare anche che quando si tratta semplicemente di dare informazioni è possibile soddisfare (in parte) le esigenze con risposte automatiche. Queste soluzioni non sono così facili come sembrano, hanno sempre bisogno di verifica e sperimentazione, non possono mai essere lasciate totalmente agli automatismi; ma se i contenuti e i metodi d’accesso sono gestiti bene possono soddisfare una parte delle esigenze senza coinvolgere più del necessario risorse umane.

È anche possibile fare lead generation. Cioè dare la massima possibile ricchezza di informazioni e possibilità di verifica, e da lì poi trasferire il dialogo alle organizzazioni "sul campo" di cui già si dispone: filiali, concessionari, installatori, rivenditori, eccetera, secondo il caso. Questo evidentemente richiede una gestione forte e ben motivata della comunità che deve interagire, un impegno serio di addestramento e verifica, un sistema efficace di supporto. Ma operare in rete senza aver organizzato queste risorse e predisposto un metodo per gestirle sarebbe come andare in mezzo all’oceano su una zattera senza bussola, senza cibo e senza acqua.

La chiave di tutto è sempre la stessa: la sperimentazione. Partire da ciò che si conosce meglio e si può gestire più efficacemente; sviluppare altre iniziative in modo graduale; verificare passo per passo; valutare concretamente costi e benefici prima di avventurarsi in terreni inesplorati. In sostanza non dire "metto un sito in rete e poi si vedrà" ma chiedersi, prima di cominciare, perché lo si fa e con quali obiettivi. Elementare? Si. Ma basta guardarsi intorno per vedere quanto poco siano seguite queste norme di buon senso; e quanti venditori di tecnologie o servizi offrano cose molto più superficiali, promettendo miracoli che non ci saranno.

Certo: tutto questo è "normale" e prevedibile. Sono sintomi abbastanza abituali in un mercato informe e "neonato" (anzi sta appena tentando di uscire dall’incubatrice). Ma c’è chi ha la pretesa di portare a livello "universitario" una cultura che non ha ancora buoni asili infantili o scuole elementari; le conseguenze sarebbero comiche se non fossero preoccupanti.

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4. Il disagio del contenuto
Continuiamo a chiederci perché siano ancora così tanti i siti online che si affidano agli orpelli (immagini, giochini, apparenze) invece di fornire contenuti. O quelli che mancano di aggiornamento.

La risposta è semplice. Infarcire un sito di effetti decorativi è facile e poco costoso. Se tutto questo provoca inutili sovraccarichi e rallentamenti... non importa. Il problema è di chi tenta di leggere... ma ci sono "navigatori" fanatici che stanno tutto il giorno lì... devono essere un po’ masochisti, ma se a loro piace... Il problema è, in generale della rete; ma peggio funziona meglio è, così io (che non la so usare bene) sto tranquillo. Intanto, se sono un’impresa ho fatto il mio "atto di presenza" così non ci penso più. Se sono un fornitore, ho guadagnato abbastanza facilmente un po’ di soldi; quel cliente poi non sarà soddisfatto... ma ce ne sono tanti altri come lui, che vogliono soluzioni banali. So che non sono le migliori... ma devo pur campare e sono costretto a dare al mercato quello che mi chiede.

Si dice sempre più diffusamente che per fare un buon lavoro in rete occorre offrire contenuti. Ma non è facile. Produrre contenuti interessanti, tenerli aggiornati, arricchirli continuamente così che chi ha visto il sito abbia voglia di ritornare... organizzarli in modo che siano bene accessibili, secondo la logica del lettore... è complesso, impegnativo e costoso.

Ma è vero?

Se la funzione del sito è offrire informazioni, opinioni, commenti, cioè se per sua natura è "editoriale", il problema c’è ed è serio. Ma c’è anche nell’editoria tradizionale. Come può sperare di sopravvivere un’impresa editoriale che non si in grado di fornire e gestire contenuti?

Ma se è un sito "commerciale" o comunque al servizio di un’impresa, la situazione è molto diversa. Perché mai un’impresa, che offre uno specifico prodotto o servizio, dovrebbe diventare un editore? Perché dovrebbe impegnarsi a creare "traffico" generico?

Quando entriamo in un negozio di scarpe, ci aspettiamo informazioni sui fatti del giorno? Se andiamo dal droghiere, ci aspettiamo una mostra di quadri? Quando parliamo con un assicuratore, ci aspettiamo che canti canzoni o reciti poesie? Perché mai si dovrebbe trasferire in rete la sindrome di carosello, che è una brutta malattia anche nella comunicazione tradizionale?

Secondo me il problema, ancora una volta, sta nella strategia. Se l’attività in rete (che, giova ripeterlo, non significa necessariamente un "sito web") è basata su precise esigenze e intenzioni, specificamente concepite secondo le caratteristiche di quell’impresa e del suo sistema di relazioni, non c’è alcuna necessità di "inventare" contenuti nuovi. Ci sono già; si tratta di identificarli, organizzarli e gestirli. Se manca una cultura d’impresa, se mancano argomenti e temi di servizio, se mancano sistemi forti di relazione, se non ci sono informazioni rilevanti per un pubblico specifico di riferimento, il problema non è come quell’impresa possa andare online. È come possa sopravvivere, con o senza la rete.

Sembra che molti vogliano applicare alla rete quella logica perversa che determina la struttura di alcuni negozi: per esempio quelli accanto ai distributori di benzina sulle autostrade, dove per comprare un fazzolettino di carta (o fare pipì) occorre seguire un percorso obbligato passando davanti a montagne di salamini, giocattoli e cosmetici. Per quanto sgradevole, quel sistema è comprensibile quando si ha un pubblico "prigioniero" (la prossima stazione di servizio è a cinquanta chilometri di distanza e probabilmente è organizzata nello stesso modo). Ma in rete basta un "clic" per uscire dalla trappola. E se i tonni escono morti dalle tonnare (quindi non possono insegnare agli altri tonni come evitarle) i lettori dei siti ne escono vivi e spesso piuttosto incattiviti. Sono molti, si dirà, i "navigatori" nuovi e inesperti, che cascano in tutte le trappole e magari (all’inizio) si divertono. Può darsi. Ma una cosa è certa: dopo un po’ di tempo cambieranno. O se ne andranno, magari chiudendosi in pochi e molto specifici usi abituali della rete; o continueranno a esplorare, ma saranno meno inesperti. Non vorrei essere un torero alle prese con una generazione di tori che hanno capito i trucchi dell’arena.

C’è anche un altro problema. Un’impresa che cerca di offrire contenuti generici, o "intrattenere" i suoi visitatori con curiosità varie, non si trova a competere con i suoi concorrenti, ma con tutti i milioni di siti che esistono ed esisteranno; e in particolare con i professionisti dell’informazione o dell’entertainment, che hanno capacità, competenze e risorse enormemente più grandi. Come può un’impresa che fa viti e bulloni competere con Repubblica o CNN, o un produttore di biciclette mettersi in concorrenza con Walt Disney?

Credo che il problema dei "contenuti" cambi radicalmente se lo si affronta in un’ottica più precisa. Un’impresa si affaccia in rete in base alle sue specifiche esigenze e capacità. Offre contenuti direttamente attinenti alla sua identità e a ciò che intende proporre. Il contatore del suo sito, probabilmente, non produrrà statistiche con numeri mirabolanti; ma la qualità dei contatti sarà molto più elevata. La logica delle rete non è quella dei "grandi numeri"; è quella dei "pochi ma buoni". Una crescita "mirata" e selettiva può essere relativamente più lenta; ma anche questo è un bene. Una sperimentazione su scala relativamente piccola, con una crescita graduale, permette di controllare e perfezionare, correggere errori, migliorare la qualità; e di non impegnare risorse eccessive prima di averne verificato il "ritorno".

Insomma, più la strategia della comunicazione in rete è costruita secondo obiettivi precisi, più si scopre che non occorre "fabbricare" contenuti, perché ci sono già. Anche così, il lavoro non è facile; perché occorre identificare i contenuti, tradurli in un linguaggio efficace, organizzarli in modo efficiente, tenerli continuamente aggiornati. Ma è molto meno difficile, molto meno costoso – e straordinariamente più efficace (e meno pericoloso) che cercare di produrre contenuti "generici" o parlare di cose di cui non si ha una conoscenza approfondita.

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loghino.gif (1071 byte) 5. Il disagio del prezzo
Si parla molto della rete come strumento per vendere; troppo poco, invece, dell’aspetto contrario: cioè di come può essere usata per comprare.

Si narrano episodi interessanti. Come quello di una signora che, negli Stati Uniti, voleva comprare un’automobile e non era soddisfatta degli sconti che le offrivano i concessionari. Si mise, con pazienza, in giro per la rete finché trovò altre 49 persone che volevano la stessa macchina. Poi andò dai concessionari e disse: "Se ne compro 50 tutte insieme, che prezzo mi fai?".

Anche senza arrivare a un lavoro così impegnativo, è noto che molte persone, già oggi, si servono della rete per confrontare offerte e prezzi; e poi magari comprano in un negozio. È un fenomeno che molto probabilmente tenderà a crescere; e anche a organizzarsi. Dice Vint Cerf (uno dei "padri" dell’internet) in un’intervista che ho già citato:

Mi aspetto che il prossimo sviluppo del commercio online nell’area "consumer" sia la crescita degli "agenti intelligenti". (Cioè sistemi che analizzano e confrontano offerte diverse per lo stesso prodotto o servizio – n.d.t.). La web può essere ancora un territorio confuso e difficile, e la possibilità di confrontare offerte diverse può essere un passo importante nel rendere la rete utile ai consumatori.

Credo che ci siano progetti di studio nelle scuole di economia sugli effetti di lungo termine che gli "agenti intelligenti" potranno avere sui prezzi.

Insomma: uno "scenario probabile" è la crescita di servizi che offrono un confronto diretto di offerte e prezzi (sia che si tratti di beni o servizi acquistabili in rete, sia che in rete ci sia solo il servizio di verifica e l’acquisto poi avvenga per altri canali). C’è un diffuso timore che la rete, con l’uso di questi servizi o anche solo con un uso diretto delle fonti di informazione da parte dei compratori più attenti, contribuisca a scatenare una "guerra di prezzi" a scapito della qualità e dell’identità di marca; o che si creino nuovi "centri di potere" economici, capaci di condizionare il mercato come stanno già facendo i grandi sistemi di distribuzione nel caso dei prodotti di largo consumo.

È difficile prevedere se, come e quando si evolverà questa tendenza; ma il problema esiste e mi sembra probabile che, in un modo o nell’altro, risorse di questa specie tendano a svilupparsi. Vedremo che cosa diranno le business school che stanno studiando il problema. Ma mi sembra improbabile che (come pensano alcuni osservatori americani) il "commercio elettronico" si riduca a una guerra di prezzi e sconti; o che una disponibilità più diffusa di confronto diretto dei prezzi distrugga il peso di altri fattori, come valore, qualità e marca. Tuttavia limitarsi a "sperare che non succeda", tenersi lontani dalla rete o cercare di sabotarla un po’, in attesa di ridurla all’obbedienza... sono difese fragili e miopi.

Credo che sia molto meglio cominciare ad approfondire, fin da ora, quali strategie di servizio possono sostenere il valore e quindi evitare che un confronto brutale di prezzo diventi l’unico criterio di scelta. Un motivo di più per essere in rete, conoscerla e capirla, sviluppare relazioni, offrire servizio, dare motivi reali e consistenti ai clienti per restare fedeli al prodotto e alla marca.

Credo che sia, oggi più che mai, illusorio poter conservare un buon equilibrio qualità-prezzo solo attraverso una vaga presenza di "immagine"; e chi oggi controlla il mercato perché ha forti leve sulla distribuzione potrebbe scoprire domani che, proprio grazie alla rete, quei privilegi saranno più deboli. In un modo o nell’altro, è davvero probabile che alcune leve, finora controllate da chi vende, passino nelle mani di chi compra. Un rischio per chi vende a un prezzo che il suo prodotto o servizio non merita; e ancor più per quegli intermediari che non offrono un servizio reale ma hanno solo "rendite di posizione". Un’occasione per chi è in grado di offrire qualità e autentico valore – giova ripeterlo, non solo nelle caratteristiche tecniche di ciò che vende, ma anche nel servizio che precede e segue l’acquisto.

 

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loghino.gif (1071 byte) 6. Due opinioni sui "banner"
Ritornerò, presto o tardi, sul tema (confuso e fin troppo discusso) dei cosiddetti banner – e più in generale della "pubblicità" in rete. Come ho già detto in altre occasioni, non ho alcun preconcetto contro queste cose; ma ho molte perplessità sul modo in cui sono proposte e gestite. Due articoli, uno di quattro mesi fa e l’altro molto recente, possono aiutarci a capire alcuni dei problemi.

Parlare di "morte" dei banner in un paese come il nostro, dove un vero mercato della comunicazione in rete deve ancora nascere, non ha molto senso. Ma credo sia interessante notare che in situazioni un po’ più evolute, come quella americana, non mancano i dubbi. Ho scoperto in ritardo, grazie alla segnalazione di un amico, un articolo di David Strom, The death of banner ads,  uscito sul Chicago Tribune il 30 giugno; ma mi sembra più che mai di attualità. Dice:

Esclusi i proprietari di siti web, che raccolgono entrate con la pubblicità, non conosco molte persone cui piacciano i banner. Le informazioni più recenti danno l’incoraggiante segnale che la loro morte sia prossima. Per me non sarà mai troppo presto. Ecco alcuni motivi per cui non mi piacciono.

  • I banner sprecano banda

Molti di noi impostano i browser in modo da non caricare le immagini, per poter arrivare alla sostanza delle pagine senza sprecare tempo. Ci sono anche programmi come @guard della WRO specificamente progettati per eliminare i banner.

  • I banner non si ricordano

Una mia personale e informale ricerca sull’efficacia dei banner indica che il loro effetto è poco o nullo. Gli utilizzatori della web cambiano continuamente modo di esporare la rete. Può darsi che i banner si facciano notare dai nuovi utenti, perché tendono a esplorare nuovi siti e a spenderci tempo, per curiosità. Ma quando diventano più esperti tendono ad andare meno in giro e a essere più impazienti: vanno direttamente ai contenuti e non si soffermano a guardarsi in giro.

  • I banner ci portano spesso dove non vogliamo andare

Se "clicchiamo" su un banner ci lasciamo portare fuori dal sito dove eravamo e lontano dai suoi contenuti. Immaginate che disastro sarebbe per le emittenti televisive se gli spettatori dovessero cambiare canale per vedere la pubblicità. Alcuni risolvono il problema mettendo tutte le informazioni necessarie nel banner, così non c’è bisogno di cambiare sito. Ma il problema è che questi banner pesanti consumano ancora più banda e rallentano ancora di più il caricamento della pagina.

  • Le entrate prodotte dai banner dipendono da quanti utenti li usano

Studi recenti dimostrano una precipitosa caduta dei clickthrough; in alcuni casi, sono dimezzati rispetto a un anno fa. Una combinazione dell’uso del back button sui browser e di tecnologie come il cashing e i proxy server confonde ancora di più i log. Ma c’è un punto a favore dei banner che contengono già tutte le informazioni e sono predisposti per l’acquisto: hanno un fattore di clickthrough più favorevole.

  • I banner funzionano solo sulle pagine visitate

Molti siti hanno pagine poco frequentate, o sono percorsi in modo difficilmente prevedibile. Il situltato è che ci sono pagine prive di banner – "magazzino invenduto", come lo chiamano le imprese del settore. La collocazione dei banner richiederebbe una seria conoscenza delle strutture di "traffico"sui siti da parte di chi compra i mezzi; e questa è una vana speranza, perché molti media buyer sono inesperti e non hanno una preparazione adeguata. (Se questo è vero in America, figuriamoci da noi – n.d.t).

Prese insieme, queste varie tendenze sembrano indicare che il futuro sarà tempestoso per il mercato dei banner. La mia previsione è che fra un anno ne vedremo sempre meno nelle pagine web. Secondo l’Internet Advertising Bureau, negli Stati Uniti questo è un business da un miliardo di dollari (quasi l’uno per cento degli investimenti pubblicitari negli USA; in Italia siamo forse all’uno per mille, su un totale che è un ventesimo di quello americano – n.d.t.) ma è su una china scivolosa. Se calcoliamo un dollaro per ogni annuncio che la Micsosoft ha messo sul sito Netscape e un dollaro per ogni annuncio che la Netscape ha messo sul sito Microsoft, quanti soldi hanno davvero cambiato mano?

Se i banner moriranno, dove andranno a finire tutti quei soldi? Potremmo investirli nel sostenere siti di migliore qualità. Forse questa è una vana speranza, ma eviteremmo sovraccarichi di banda, miglioreremmo la qualità dei contenuti e gli sponsor potrebbero guadagnarsi la simpatia degli utenti.

 

La situazione è cambiata, da giugno a oggi? Sembra proprio di no; anzi, sta peggiorando. Alcune altre osservazioni sul tema sono state pubblicate proprio mentre questo numero del Mercante in rete sta andando online, da un autore che ho già citato molte volte. Il 2 novembre è uscito su NUA un articolo di Jerry McGovern Ad banners are signposts cioè, press’a poco, "Gli annunci banner sono segnali stradali". A differenza di David Strom, questo autore (proprietario di un sito che si finanzia con la pubblicità online) non prevede né auspica la "morte dei banner". Ma si fa domande, secondo me molto rilevanti, sul modo in cui sono usati. Dice:

Nell’internet, i banner funzionano come segnali stradali.

Il mondo della pubblicità sogna di poter continuare, anche in rete, a fare ciò che conosce bene. Quei fantastici fil televisivi di 30 secondi che raggiungono un gran numero di persone. Quei rapidi e veloci comunicati radio; quei grandiosi annunci a colori a pagina intera; quei manifesti stradali che strillano agli affaccendati automobilisti di passaggio.

Il mestiere della pubblicità è cercare di catturare l’attenzione. Ma, come ha detto Esther Dyson in un recente convegno, "Nella rete non si tratta di ottenere attenzione, ma di dare attenzione". Dare attenzione (cioè saper capire le esigenze dell’interlocutore e offrire dialogo e servizio – n.d.t.) è una cosa completamente diversa, che la pubblicità tradizionale non sa fare. Le imprese che usano la pubblicità conoscono mille modi per catturare l’attenzione; e quando ci riescono pensano che l’opera sia compiuta. Dominate dalla spinta a concentrare il messaggio in pochi segnali semplici, si sentono perdute e annoiate quando si tratta di occuparsi del cliente di cui hanno ottenuto l’attenzione.

Sentiamo dire continuamente che "i banner non funzionano". Prima di esaminare la validità di questa affermazione, vediamo quali sono i rimedi proposti. La soluzione, secondo chi fa pubblicità, significa quasi sempre aumentare il già eccessivo carico di banda, ricorrendo alle tattiche della vecchia scuola, per riempire gli occhi con immagini più o meno fantastiche e seducenti. Alcuni sostengono che se costringiamo qualcuno a vedere un annuncio che occupa l’intero schermo del monitor riusciamo a ottenere più attenzione.

Va bene, sono d’accordo. È come sputare in faccia a qualcuno. Otteniamo sicuramente la sua attenzione. Vi assicuro che se mi mettete un annuncio a pieno schermo prima che io visiti il vostro sito premerò immediatamente il back button e non ritornerò mai più. Avrete ottenuto la mia attenzione, perché mi ricorderò di dire ad altre persone di evitarvi come la peste.

Va bene, i banner sono piccoli e i clickthrough diminuiscono. Ma forse sono piccoli perché così devono essere nell’ambiente in cui si trovano. Si può anche affermare che con l’afflusso in rete di tante persone nuove e con l’allargamento demografico la caduta del fattore clickthrough sia inevitabile.

Un recente studio di NetRatings dice che i banner aumentano in modo significativo la conoscenza di un prodotto, indipendentemente dal fattore clickthrough. Altri studi e ricerche nel 1998 hanno dimostrato che il livello di clickthrough è sceso al di sotto del 2 per cento (nel caso della direct mail, spesso è meno dell’1 per cento). In aprile, AdKnowledge diceva che il "costo per mille" dei banner era sceso del 6 per cento rispetto alla media precedente di 36 dollari.

Ma, come dicevo all’inizio, un banner è un segnale stradale nell’internet, che indica la direzione a chi vuol venire sul vostro sito. Il vero lavoro di marketing in rete dev’essere fatto nel sito. Questo è il luogo in cui si ottiene l’attenzione del cliente. Dove si offrono informazioni rilevanti e aggiornate, dove si invita alla risposta e al dialogo. È il luogo dove non serve essere decorativi, bisogna essere utili.

Nel mondo del marketing e della pubblicità, così spesso drogato dalle apparenze, "sparare" banner è un tentativo di mascherare l’incapacità di capire una nuova realtà e le sue nuove regole.

I problemi mi sembrano chiari (anche se ne esistono parecchi altri, oltre a quelli esaminati in questi due articoli). Le soluzioni ci sono; ma non sono quelle offerte da chi promette miracoli o propone scappatoie apparentemente facili. Probabilmente sarà necessario, in uno dei prossimi numeri di questa rubrica, aggiungere qualche altra osservazione sull’argomento; anche se rimango convinto che non è questo l’aspetto più importante della comunicazione e del marketing in rete.

 

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