Il Mercante in Rete
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Numero 28 - 1 novembre 1998 |
Una domanda che circola spesso è: "nelle attività dimpresa in rete è
importante la marca?" La risposta, ovviamente, è si; ma mi sembra che il tema meriti
qualche approfondimento. Nel mondo tradizionale del marketing e della comunicazione il concetto di "marca" ha subito uno strano deterioramento. Viene spesso confuso con unidea vaga di notorietà e di "presenza"; come se la marca, cioè lidentità di unimpresa (o di un prodotto), si potesse ridurre al solo fatto che un nome sia conosciuto; e come se qualche labile trucchetto cosmetico o addirittura la riduzione di una marca ad accessorio di qualche fanciulla di più o meno gradevole aspetto, o di qualche attore più o meno comico potesse sostituire una strategia di marketing e di comunicazione. Sembra che molte imprese si vergognino dei loro prodotti e non abbiano il coraggio di presentarli senza qualche maschera o travestimento. Da molti anni vedo cose come queste nella pubblicità tradizionale; e continuo a chiedermi perché tante imprese (fra cui alcune molto importanti) buttino via i soldi o corrano il rischio di farsi del male. È perfettamente possibile essere interessanti, attraenti e non noiosi senza svilire la marca e il prodotto con lazzi e frizzi da avanspettacolo. Ma sembra che questarte (non facile; ma concretamente praticabile se si applicano con intelligenza i princìpi della strategia di comunicazione) sia in gran parte dimenticata. Trasferire quel concetto superficiale di "immagine" in un mondo interattivo (dove ciò che conta è il dialogo e dove non ha senso seguire le logiche della comunicazione "a senso unico") mi sembra un tentativo di suicidio. Eppure sembra che molti pensino a dabbenaggini di questa specie quando dicono che occorre "costruire marche" in rete. Credo che sia meglio affrontare il tema da tuttaltro punto di vista; e per far questo mi sembra opportuno risalire al concetto fondamentale di "marca". Che è qualcosa di molto più importante e rilevante di una vaga e inconsistente "immagine". Chiunque abbia studiato un sillabario del marketing (o della cultura dimpresa) sa che la marca è un bene importante, "immateriale" ma molto concreto. È unidentità, una relazione e un rapporto di fiducia. Si sceglie un prodotto di marca perché ci si aspetta che offra maggiori garanzie di qualità e servizio e che abbia le specifiche caratteristiche che identifichiamo con quella marca e che la rendono diversa dalle altre. Il valore-marca non è costruito solo dalla comunicazione (per esempio dalla pubblicità) ma da tutte le relazioni fra chi vende un prodotto o un servizio e i suoi clienti; cominciando dalla qualità del bene offerto e del servizio che lo accompagna. La marca, in sé, è un servizio: un "valore aggiunto" in quanto offre a chi acquista un punto di riferimento preciso, con caratteristiche inconfondibili (il più possibile diverse da ogni altra marca, e in particolare da quelle dei concorrenti). Ovvio? Certo. Ma ciò che non è facile capire è perché tante marche, oggi, abbiano identità generiche e fumose; e perché così spesso il comportamento di unimpresa non corrisponda allidentità della marca e quindi logori e indebolisca la relazione. Tutto questo diventa più importante, e più immediatamente significativo, in un sistema di relazioni dirette e immediate come la rete. Ne deriva una conseguenza ovvia quanto trascurata: prima di pensare allimmagine che si vuol dare di una marca in rete occorre sapere se, quanto e come saremo in grado di mantenere ciò che promettiamo. E qui, spesso, casca lasino. Mi scuso per lovvietà di questi ragionamenti. Ma è quotidiana, purtroppo, la constatazione di quanto poco se ne tenga conto. Ciò premesso... credo che nel caso specifico di una marca che si presenta in rete si debba, prima di tutto, fare una distinzione fondamentale. Si tratta di una marca già nota o di una marca che "nasce" con la rete, nel senso che fuori dalla rete non esisteva o era poco conosciuta? Nel primo caso, è assai improbabile che linternet sia uno strumento utile per aumentare e sostenere la notorietà. Per questo scopo sono molto più adatti i mezzi tradizionali. Limportante, in questo caso, è usare la rete per mantenere la promessa, per consolidare lidentità. E ciò che si fa (il servizio che si offre, il modo in cui si gestisce la relazione) è enormemente più importante di ciò che di dice. Credo sinceramente che se una marca non è in grado di mantenere, con la sua presenza in rete, ciò che promette (e ciò che i suoi interlocutori, "consumatori" o non, si aspettano) è molto meglio che ne stia fuori; o che cominci, con piccole sperimentazioni non troppo visibili, a verificare come può muoversi in rete senza tradire le aspettative. Ci sono esempi concreti di imprese che sono entrate in rete con attività per loro "minori" o secondarie, per fare esperienza ed esplorare il terreno prima di mettere in gioco identità più importanti. Nel secondo caso, occorre farsi conoscere (e, cosa ancora più importante, costruire rapporti di fiducia che diano valore alla marca). La domanda fondamentale è: da chi vogliamo essere conosciuti? Se la risposta fosse "da tutti o da chiunque", vorrebbe dire che la strategia è sbagliata. Credo che nella maggior parte dei casi una conoscenza molto diffusa fin dallinizio non sia possibile, né desiderabile. Il grande vantaggio della rete è la possibilità di gestire efficacemente piccoli gruppi, sperimentare costantemente, crescere in modo graduale, investire e strutturare servizi su scala estesa (quindi costosa) solo dopo averne sperimentato lefficacia e aver imparato in pratica come si fa. E poi... contrariamente a ciò che molti dicono, la prima cosa cui pensare non è luso della rete per farsi conoscere, ma luso di tutti gli altri strumenti di cui limpresa già dispone. Dalla carta da lettere ai biglietti da visita, dal centralino telefonico ai cataloghi o alle relazioni di bilancio... e a tutte le forme di pubblicità, comprese le ricerche di personale. Per non parlare di una conoscenza dellattività in rete da parte del mondo interno dellimpresa e dei suoi interlocutori abituali. È quotidiana, quanto desolante, la constatazione di quanto poco siano capiti i valori reali dei sistemi informatici e telematici (anche in imprese che hanno fatto forti investimenti in questo settore) non solo da parte dei dipendenti e collaboratori di ogni livello ma anche di molti dirigenti e dagli stessi "vertici" aziendali. Credo che questa prima fase, che secondo le situazioni può durare pochi mesi o più di un anno, sia indispensabile. Solo dopo aver verificato bene il territorio e lidentità diventerà ragionevole allargare la conoscenza della marca; che nel frattempo, se il lavoro di esplorazione e verifica è ben fatto, avrà assunto unidentità precisa, uno stile e un comportamento inconfondibile. A quel punto non sarà difficile sapere come diffonderne la conoscenza. E non sarà neppure molto costoso, perché un sistema di relazioni in rete ben gestito permette di verificare passo per passo e di allargare linvestimento man mano che se ne verifica il "ritorno". È un processo lento? Non necessariamente; se la natura del progetto è tale da poter avere una crescita veloce, saranno i fatti a imprimere un ritmo vivace alla crescita. Se no... da una crescita "forzata" potrebbe nascere qualcosa di simile a quelle piante che il fiorista ha drogato per farle sembrare più belle e che in poco tempo avvizziscono e muoiono. Non è un caso che il motto di Aldo Manuzio (pioniere in un mondo allora nuovo quanto è oggi la rete) fosse festina lente: affrettati adagio. |
Nonostante le continue evidenze contrarie, sembra che non si esaurisca mai il filone
del "trionfalismo" quando si tratta di sviluppo della rete e del cosiddetto
"commercio elettronico". Per fare un solo esempio fra tanti, anche recenti: in occasione dello Smau (22-26 ottobre) due grandi imprese, la Telecom e Il Sole 24 Ore, si sono unite per fare unofferta promozionale di accesso alla rete, rivolta alle imprese. Hanno dato larga diffusione a un volantino in cui promettono "un miliardo di clienti" a chi fa commercio online. Qualcuno può pensare che ti tratti soltanto di una "enfasi pubblicitaria" un po grossolana, ma non è così; perché cifre non meno enfatiche e assurde vengono ripetute, ancora oggi, in convegni, congressi, articoli e documenti di ogni sorta; rinnovando ostinatamente ad infinitum quelle proiezioni la cui infondatezza è stata ampiamente dimostrata dai fatti. I lettori di questa rubrica, come ogni persona che abbia approfondito un po il problema, sanno che quel numero è tre volte falso. Perché il totale delle persone collegate nel mondo può essere arrivato a 100 milioni, ma non a dieci volte tanto; perché la stragrande maggioranza delle persone connesse non fa unesplorazione "generica" e diffusa, ma si limita ad alcuni specifici usi della rete; e perché nessuna attività online raggiunge la totalità, o anche una percentuale elevata, delle persone che possono "accedere". Si continuano a riproporre quelle prospettive "marziane" di cui parlava in febbraio Jerry McGovern nel suo ironico commento sul Mito dei milioni e che avevo descritto in aprile, in una prospettiva un po diversa, nellarticolo Un treno per Marte. È sempre più ovvio (ma olimpicamente ignorato dai profeti del trionfalismo) che cè un abisso fra queste stonate fanfare e la realtà. Fra gli "addetti ai lavori" (o comunque le persone che hanno pratica concreta della rete) aumenta il fastidio. Ecco il testo di un messaggio di particolare franchezza, fra tanti che corrono in forum e liste di discussione, che lautore mi ha gentilmente autorizzato a pubblicare. Diceva Renato Lazzati nella lista IMLI il 29 ottobre:
Mi sembra importante capire che Renato Lazzati, come tanti altri (me compreso) che dicono le stesse cose, non è un "pessimista". Al contrario, è una persona concretamente impegnata a far crescere il business in rete. Infatti conclude così: Bah, forse il mio è solo lo sfogo di uno dei tanti, che vorrebbe fare chissà cosa e si mangia il fegato. Intanto io (come molti altri) con lE-commerce ci campo. Alla faccia di chi non ci crede, di chi ne ha paura, di chi il computer non lha mai comprato perché non serve a niente. Se non scendiamo dalle nuvole per calarci nella realtà, se non ci rendiamo conto della crescente frustrazione di chi cerca di lavorare sul serio, e del crescente disorientamento delle imprese, sarà difficile far "decollare" concretamente il business in rete. Molti, come me, sono infastiditi dai sogni trionfalistici e li considerano pericolosi. Altri sono più benevoli. "È vero dicono che sono montagne di sciocchezze, ma intanto se ne parla e linteresse cresce; a forza di sbagliare, presto o tardi si imparerà". Questa tesi è comprensibile, e non del tutto sbagliata; ma continuo a pensare che sarebbe meglio evitare un percorso così tortuoso e pieno di rischi. Per mettere i piedi per terra non è necessario indossare le ali di Icaro; e se il volo è troppo alto cè il rischio di farsi male nella ricaduta. È vero che siamo agli inizi, tutto è ancora in fase infantile, se si sbaglia cè il tempo per recuperare. Ma non so se ci sia così tanto tempo. Il mondo si muove; in altri paesi, più avanzati di noi, le voci della critica e della concretezza cominciano a farsi sentire; se continuiamo a gingillarci con le fantasie e le ipotesi irrealizzabili corriamo seriamente il rischio di non riacchiappare più lautobus che abbiamo perso. Una doccia fredda può servire a rischiarare le idee. Guardiamo, per esempio, il mondo della pubblicità tradizionale e dei prodotti di largo consumo. Fino a qualche anno fa prevaleva il trionfalismo. In Italia tutto va bene, tutto cresce, siamo i migliori, da noi le marche sono inattaccabili. Mentre quella era la tesi diffusa, i prodotti di marca erano in declino. Nel 1996 ci fu una svolta. Unautocritica. "Poveri noi, siamo lultima ruota del carro, lItalia è arretrata rispetto allEuropa, le marche sono indebolite". Quella constatazione rifletteva una (tardiva) presa di coscienza, la necessità di un cambiamento nelle strategie dimpresa. Solo quando fu abbandonata leuforia trionfalistica i prodotti di marca cominciarono a riguadagnare, almeno in parte, il terreno perduto. Insomma non credo che il trionfalismo sia una buona medicina; e comunque ce nè ancora troppo, perciò occorre un dosaggio energico di antidoti. Credo che sia importante avere coraggio, entusiasmo, fantasia e voglia di innovare; ma se tutto questo parte dalla constatazione reale dei problemi e delle possibilità, e non da false promesse o enfasi prive di fondamento, avremo molte più probabilità di ottenere risultati concreti e durevoli. |
Si è parlato varie volte in questa rubrica del disagio
che si genera nelle imprese quando devono affrontare a comunicazione interattiva.
Largomento è stato ripreso anche in un interessante articolo su Web Marketing Tools.
In questo capitolo, e nei due seguenti, cerco di approfondire un po tre aspetti di
questo disagio. Il primo riguarda linterattività; cioè il dialogo. È diffusa la constatazione che spesso, quando qualcuno mette un sito online, evita di offrire una mailbox ai lettori; o, se lo fa, poi non risponde. Il motivo è semplice. Nella maggior parte delle imprese manca una capacità di dialogo con i "consumatori" o comunque con un pubblico esteso. Come dimostra lesperienza dei "numeri verdi" o dei "servizi clienti" di ogni specie, che solo in qualche raro caso sanno offrire risposte o assistenza in modo soddisfacente. Credo che sia necessario farsi una domanda severa. È obbligatorio, è necessario, è possibile avere un dialogo sempre e con tutti? La risposta, in molti casi, è no. Se unimpresa ha milioni di consumatori, come può organizzarsi in modo da poter rispondere efficacemente a "tutti"? Unoperazione del genere potrebbe essere insopportabilmente costosa, di dubbia efficacia e forse indesiderabile. La soluzione, secondo me, sta nella strategia del progetto. Ci si dovrebbe chiedere, prima di andare online, se e con chi si vuole instaurare un dialogo. Se la risposta fosse "con nessuno, mai" ne dovrebbe seguire unanalisi dura e crudele. Stiamo andando sullinternet solo perché è di moda? Sappiamo che cosa ci andiamo a fare? Come pensiamo di usare uno strumento che è, per sua natura, interattivo? Se non si è capito perché si vuole andare in rete, non è meglio bloccare tutto e ripensare il progetto dalle radici? Da unanalisi approfondita (che non è necessariamente complessa) è molto probabile che emerga una constatazione: le aree di dialogo ci sono, e sono (almeno allinizio) quelle che limpresa è già in grado di gestire. Alcune di queste (non tutte) possono funzionare meglio in rete che con i mezzi usati in precedenza (telefono, visite personali, eccetera). In questi casi (se il progetto è ben gestito) si crea quasi sempre un "circolo virtuoso": miglioramento della qualità e riduzione dei costi. Giova ripetere una cosa ovvia ma un po offuscata dal polverone delle chiacchiere. Non è un dogma che il servizio (o le informazioni) debbano andare sempre e solo al "consumatore finale"; specialmente quando il numero dei "consumatori" è così alto da rendere il dialogo ingestibile. Molti risultati importanti si possono ottenere gestendo bene altre relazioni: con intermediari, con fornitori, eccetera. Specialmente nelle attività business to business ma non solo. Si può constatare anche che quando si tratta semplicemente di dare informazioni è possibile soddisfare (in parte) le esigenze con risposte automatiche. Queste soluzioni non sono così facili come sembrano, hanno sempre bisogno di verifica e sperimentazione, non possono mai essere lasciate totalmente agli automatismi; ma se i contenuti e i metodi daccesso sono gestiti bene possono soddisfare una parte delle esigenze senza coinvolgere più del necessario risorse umane. È anche possibile fare lead generation. Cioè dare la massima possibile ricchezza di informazioni e possibilità di verifica, e da lì poi trasferire il dialogo alle organizzazioni "sul campo" di cui già si dispone: filiali, concessionari, installatori, rivenditori, eccetera, secondo il caso. Questo evidentemente richiede una gestione forte e ben motivata della comunità che deve interagire, un impegno serio di addestramento e verifica, un sistema efficace di supporto. Ma operare in rete senza aver organizzato queste risorse e predisposto un metodo per gestirle sarebbe come andare in mezzo alloceano su una zattera senza bussola, senza cibo e senza acqua. La chiave di tutto è sempre la stessa: la sperimentazione. Partire da ciò che si conosce meglio e si può gestire più efficacemente; sviluppare altre iniziative in modo graduale; verificare passo per passo; valutare concretamente costi e benefici prima di avventurarsi in terreni inesplorati. In sostanza non dire "metto un sito in rete e poi si vedrà" ma chiedersi, prima di cominciare, perché lo si fa e con quali obiettivi. Elementare? Si. Ma basta guardarsi intorno per vedere quanto poco siano seguite queste norme di buon senso; e quanti venditori di tecnologie o servizi offrano cose molto più superficiali, promettendo miracoli che non ci saranno. Certo: tutto questo è "normale" e prevedibile. Sono sintomi abbastanza abituali in un mercato informe e "neonato" (anzi sta appena tentando di uscire dallincubatrice). Ma cè chi ha la pretesa di portare a livello "universitario" una cultura che non ha ancora buoni asili infantili o scuole elementari; le conseguenze sarebbero comiche se non fossero preoccupanti. |
Continuiamo a chiederci perché siano ancora così tanti i siti online che si affidano
agli orpelli (immagini, giochini, apparenze) invece di fornire contenuti. O quelli che
mancano di aggiornamento. La risposta è semplice. Infarcire un sito di effetti decorativi è facile e poco costoso. Se tutto questo provoca inutili sovraccarichi e rallentamenti... non importa. Il problema è di chi tenta di leggere... ma ci sono "navigatori" fanatici che stanno tutto il giorno lì... devono essere un po masochisti, ma se a loro piace... Il problema è, in generale della rete; ma peggio funziona meglio è, così io (che non la so usare bene) sto tranquillo. Intanto, se sono unimpresa ho fatto il mio "atto di presenza" così non ci penso più. Se sono un fornitore, ho guadagnato abbastanza facilmente un po di soldi; quel cliente poi non sarà soddisfatto... ma ce ne sono tanti altri come lui, che vogliono soluzioni banali. So che non sono le migliori... ma devo pur campare e sono costretto a dare al mercato quello che mi chiede. Si dice sempre più diffusamente che per fare un buon lavoro in rete occorre offrire contenuti. Ma non è facile. Produrre contenuti interessanti, tenerli aggiornati, arricchirli continuamente così che chi ha visto il sito abbia voglia di ritornare... organizzarli in modo che siano bene accessibili, secondo la logica del lettore... è complesso, impegnativo e costoso. Ma è vero? Se la funzione del sito è offrire informazioni, opinioni, commenti, cioè se per sua natura è "editoriale", il problema cè ed è serio. Ma cè anche nelleditoria tradizionale. Come può sperare di sopravvivere unimpresa editoriale che non si in grado di fornire e gestire contenuti? Ma se è un sito "commerciale" o comunque al servizio di unimpresa, la situazione è molto diversa. Perché mai unimpresa, che offre uno specifico prodotto o servizio, dovrebbe diventare un editore? Perché dovrebbe impegnarsi a creare "traffico" generico? Quando entriamo in un negozio di scarpe, ci aspettiamo informazioni sui fatti del giorno? Se andiamo dal droghiere, ci aspettiamo una mostra di quadri? Quando parliamo con un assicuratore, ci aspettiamo che canti canzoni o reciti poesie? Perché mai si dovrebbe trasferire in rete la sindrome di carosello, che è una brutta malattia anche nella comunicazione tradizionale? Secondo me il problema, ancora una volta, sta nella strategia. Se lattività in rete (che, giova ripeterlo, non significa necessariamente un "sito web") è basata su precise esigenze e intenzioni, specificamente concepite secondo le caratteristiche di quellimpresa e del suo sistema di relazioni, non cè alcuna necessità di "inventare" contenuti nuovi. Ci sono già; si tratta di identificarli, organizzarli e gestirli. Se manca una cultura dimpresa, se mancano argomenti e temi di servizio, se mancano sistemi forti di relazione, se non ci sono informazioni rilevanti per un pubblico specifico di riferimento, il problema non è come quellimpresa possa andare online. È come possa sopravvivere, con o senza la rete. Sembra che molti vogliano applicare alla rete quella logica perversa che determina la struttura di alcuni negozi: per esempio quelli accanto ai distributori di benzina sulle autostrade, dove per comprare un fazzolettino di carta (o fare pipì) occorre seguire un percorso obbligato passando davanti a montagne di salamini, giocattoli e cosmetici. Per quanto sgradevole, quel sistema è comprensibile quando si ha un pubblico "prigioniero" (la prossima stazione di servizio è a cinquanta chilometri di distanza e probabilmente è organizzata nello stesso modo). Ma in rete basta un "clic" per uscire dalla trappola. E se i tonni escono morti dalle tonnare (quindi non possono insegnare agli altri tonni come evitarle) i lettori dei siti ne escono vivi e spesso piuttosto incattiviti. Sono molti, si dirà, i "navigatori" nuovi e inesperti, che cascano in tutte le trappole e magari (allinizio) si divertono. Può darsi. Ma una cosa è certa: dopo un po di tempo cambieranno. O se ne andranno, magari chiudendosi in pochi e molto specifici usi abituali della rete; o continueranno a esplorare, ma saranno meno inesperti. Non vorrei essere un torero alle prese con una generazione di tori che hanno capito i trucchi dellarena. Cè anche un altro problema. Unimpresa che cerca di offrire contenuti generici, o "intrattenere" i suoi visitatori con curiosità varie, non si trova a competere con i suoi concorrenti, ma con tutti i milioni di siti che esistono ed esisteranno; e in particolare con i professionisti dellinformazione o dellentertainment, che hanno capacità, competenze e risorse enormemente più grandi. Come può unimpresa che fa viti e bulloni competere con Repubblica o CNN, o un produttore di biciclette mettersi in concorrenza con Walt Disney? Credo che il problema dei "contenuti" cambi radicalmente se lo si affronta in unottica più precisa. Unimpresa si affaccia in rete in base alle sue specifiche esigenze e capacità. Offre contenuti direttamente attinenti alla sua identità e a ciò che intende proporre. Il contatore del suo sito, probabilmente, non produrrà statistiche con numeri mirabolanti; ma la qualità dei contatti sarà molto più elevata. La logica delle rete non è quella dei "grandi numeri"; è quella dei "pochi ma buoni". Una crescita "mirata" e selettiva può essere relativamente più lenta; ma anche questo è un bene. Una sperimentazione su scala relativamente piccola, con una crescita graduale, permette di controllare e perfezionare, correggere errori, migliorare la qualità; e di non impegnare risorse eccessive prima di averne verificato il "ritorno". Insomma, più la strategia della comunicazione in rete è costruita secondo obiettivi precisi, più si scopre che non occorre "fabbricare" contenuti, perché ci sono già. Anche così, il lavoro non è facile; perché occorre identificare i contenuti, tradurli in un linguaggio efficace, organizzarli in modo efficiente, tenerli continuamente aggiornati. Ma è molto meno difficile, molto meno costoso e straordinariamente più efficace (e meno pericoloso) che cercare di produrre contenuti "generici" o parlare di cose di cui non si ha una conoscenza approfondita. |
Si parla molto della rete come strumento per vendere; troppo poco, invece,
dellaspetto contrario: cioè di come può essere usata per comprare. Si narrano episodi interessanti. Come quello di una signora che, negli Stati Uniti, voleva comprare unautomobile e non era soddisfatta degli sconti che le offrivano i concessionari. Si mise, con pazienza, in giro per la rete finché trovò altre 49 persone che volevano la stessa macchina. Poi andò dai concessionari e disse: "Se ne compro 50 tutte insieme, che prezzo mi fai?". Anche senza arrivare a un lavoro così impegnativo, è noto che molte persone, già oggi, si servono della rete per confrontare offerte e prezzi; e poi magari comprano in un negozio. È un fenomeno che molto probabilmente tenderà a crescere; e anche a organizzarsi. Dice Vint Cerf (uno dei "padri" dellinternet) in unintervista che ho già citato:
Insomma: uno "scenario probabile" è la crescita di servizi che offrono un confronto diretto di offerte e prezzi (sia che si tratti di beni o servizi acquistabili in rete, sia che in rete ci sia solo il servizio di verifica e lacquisto poi avvenga per altri canali). Cè un diffuso timore che la rete, con luso di questi servizi o anche solo con un uso diretto delle fonti di informazione da parte dei compratori più attenti, contribuisca a scatenare una "guerra di prezzi" a scapito della qualità e dellidentità di marca; o che si creino nuovi "centri di potere" economici, capaci di condizionare il mercato come stanno già facendo i grandi sistemi di distribuzione nel caso dei prodotti di largo consumo. È difficile prevedere se, come e quando si evolverà questa tendenza; ma il problema esiste e mi sembra probabile che, in un modo o nellaltro, risorse di questa specie tendano a svilupparsi. Vedremo che cosa diranno le business school che stanno studiando il problema. Ma mi sembra improbabile che (come pensano alcuni osservatori americani) il "commercio elettronico" si riduca a una guerra di prezzi e sconti; o che una disponibilità più diffusa di confronto diretto dei prezzi distrugga il peso di altri fattori, come valore, qualità e marca. Tuttavia limitarsi a "sperare che non succeda", tenersi lontani dalla rete o cercare di sabotarla un po, in attesa di ridurla allobbedienza... sono difese fragili e miopi. Credo che sia molto meglio cominciare ad approfondire, fin da ora, quali strategie di servizio possono sostenere il valore e quindi evitare che un confronto brutale di prezzo diventi lunico criterio di scelta. Un motivo di più per essere in rete, conoscerla e capirla, sviluppare relazioni, offrire servizio, dare motivi reali e consistenti ai clienti per restare fedeli al prodotto e alla marca. Credo che sia, oggi più che mai, illusorio poter conservare un buon equilibrio qualità-prezzo solo attraverso una vaga presenza di "immagine"; e chi oggi controlla il mercato perché ha forti leve sulla distribuzione potrebbe scoprire domani che, proprio grazie alla rete, quei privilegi saranno più deboli. In un modo o nellaltro, è davvero probabile che alcune leve, finora controllate da chi vende, passino nelle mani di chi compra. Un rischio per chi vende a un prezzo che il suo prodotto o servizio non merita; e ancor più per quegli intermediari che non offrono un servizio reale ma hanno solo "rendite di posizione". Unoccasione per chi è in grado di offrire qualità e autentico valore giova ripeterlo, non solo nelle caratteristiche tecniche di ciò che vende, ma anche nel servizio che precede e segue lacquisto. |
Ritornerò, presto o tardi, sul tema (confuso e fin troppo discusso) dei cosiddetti banner
e più in generale della "pubblicità" in rete. Come ho già detto in altre occasioni, non ho alcun preconcetto
contro queste cose; ma ho molte perplessità sul modo in cui sono proposte e gestite. Due
articoli, uno di quattro mesi fa e laltro molto recente, possono aiutarci a capire
alcuni dei problemi. Parlare di "morte" dei banner in un paese come il nostro, dove un vero mercato della comunicazione in rete deve ancora nascere, non ha molto senso. Ma credo sia interessante notare che in situazioni un po più evolute, come quella americana, non mancano i dubbi. Ho scoperto in ritardo, grazie alla segnalazione di un amico, un articolo di David Strom, The death of banner ads, uscito sul Chicago Tribune il 30 giugno; ma mi sembra più che mai di attualità. Dice:
La situazione è cambiata, da giugno a oggi? Sembra proprio di no; anzi, sta peggiorando. Alcune altre osservazioni sul tema sono state pubblicate proprio mentre questo numero del Mercante in rete sta andando online, da un autore che ho già citato molte volte. Il 2 novembre è uscito su NUA un articolo di Jerry McGovern Ad banners are signposts cioè, pressa poco, "Gli annunci banner sono segnali stradali". A differenza di David Strom, questo autore (proprietario di un sito che si finanzia con la pubblicità online) non prevede né auspica la "morte dei banner". Ma si fa domande, secondo me molto rilevanti, sul modo in cui sono usati. Dice:
I problemi mi sembrano chiari (anche se ne esistono parecchi altri, oltre a quelli esaminati in questi due articoli). Le soluzioni ci sono; ma non sono quelle offerte da chi promette miracoli o propone scappatoie apparentemente facili. Probabilmente sarà necessario, in uno dei prossimi numeri di questa rubrica, aggiungere qualche altra osservazione sullargomento; anche se rimango convinto che non è questo laspetto più importante della comunicazione e del marketing in rete. |