Mala tempora currunt

C’è una ricetta per guarire il “male oscuro”
che affligge il marketing e la pubblicità?

di Giancarlo Livraghi

 

 

Questo articolo uscì nel settembre 1995 su un numero speciale di Media Forum. Da allora alcune cose sono cambiate. I hard discount sono in declino, i prodotti di marca si stanno riaffermando anche nei settori di “largo consumo” (ma con strategie di prodotto e di mercato molto diverse da quelle degli anni precedenti), nuovi settori d’impresa si affacciano al marketing (e quindi alla pubblicità), gli investimenti pubblicitari in Italia sono in ripresa (anche se rimangono molto al di sotto dei livelli europei e di quelli degli altri paesi di “economia evoluta”) e si infittiscono gli appelli a un cambiamento: cioè a un uso più puntuale ed efficace della pubblicità – e in generale della comunicazione d’impresa.

Ma in gran parte i problemi rimangono.
(Luglio 1998).


1 – Chi si diverte?

2 – Il paradosso della creatività

3 – Che cosa vuol dire “creativo”?

4 – Ma perché?

5 – La crisi del “prodotto di marca”

6 – L’origine del problema

7 – Come si risolve?

 

Da molto tempo ormai, nel mondo della pubblicità (e del marketing) c’è un’aria un po’ depressa. Si lavora, si guadagna, si sopravvive ma con poco entusiasmo.

Spesso si parla di “crisi”. Ma anche quando non c’è una specifica difficoltà, il clima è mogio. “Eh, sai, di questi tempi”. Non ci si accorge che i “tempi” di cui ci si lagna durano, senza cambiamento, da parecchi anni.

Ogni tanto qualcuno dice “ehilà, c’è qualcosa di nuovo!”. Non si accorge che il “nuovo” è fatto di parole vuote; o è qualcosa che si sapeva da molto tempo, ma nel frattempo si era dimenticato.

O qualcosa, come i hard discount, che era facile prevedere.

Insomma: stagnazione.

Vogliamo provare a capire perché?


1. Chi si diverte?

Da un anno e mezzo sono uscito dal mondo in cui il mio lavoro si è svolto per quarant’anni. Credo di avere prospettiva sufficiente per vedere il quadro senza perdermi nei dettagli; sufficiente distanza per non essere travolto dalla quotidianità. Ciò che vedo, non mi piace.

Quando incontro qualcuno del “vecchio mondo” in cui vivevo prima, chiedo sempre: “ma tu, ti diverti?” Con rare eccezioni, la risposta varia fra “no” e “poco”.

Vi sembra un dettaglio? Non direi.

In quella splendida pagina di in cui David Ogilvy descriveva le tensioni quotidiane cui è sottoposto chi lavora in pubblicità, la frase centrale è:

Chi non si diverte, non produce buona pubblicità.

Naturalmente non è vero il contrario: non sempre chi si diverte produce buona pubblicità. C’è gente che sghignazza e produce pubblicità orrenda. Occorrono impegno, disciplina, fatica e talento: ma quando il mestiere è fatto bene, è divertente.

Oggi sembra che si divertano solo i falsari e gli sciocchi


2. Il paradosso della “creatività”

Sono molti anni, ormai, che quando si parla di pubblicità corre il termine “creativo”. A tal punto che sui giornali e nel parlar comune quelli che lavorano in pubblicità sono definiti “creativi”. Sembra il mercato dei guitti “vieni avanti, creativo, dammi un’idea”.

Come se le idee crescessero sui rami.

C’è una frase di Bill Bernbach, poco nota perché seppellita dai suoi finti seguaci (e da tutti i narcisi e i “divi” della pubblicità) sotto un gran mucchio di code di paglia:

Sono molto preoccupato di tutti questi discorsi sulla creatività. Ho paura dei crimini che commetteremo nel nome della “creatività”. Stiamo entrando nell’era dei fasulli.

“We are entering the age of the phonies”. Lo disse nel 1980, e poco dopo morì. Ma i fatti gli hanno dato ragione.

La creatività è come il sesso. Più se ne parla, meno se ne fa.


3. Che cosa vuol dire, “creativo”?

Ho sempre considerato un po’ comica questa definizione “creativo”. Se qualcuno chiedeva a Michelangelo, Mozart o Einstein “che cosa fai” si sentiva rispondere scultore, musicista o fisico. Non “creativo”.

Personalmente, ho sempre preferito dire copywriter. Mi piacerebbe meritarmi un più breve, ma più ambizioso, writer: scrittore.

Per ambiziosa che sia, la parola “scrittore” ha un suono onesto, artigianale, come “pittore”. Chiamarsi “creativo” non è un segno di creatività.

Guardiamoci intorno. Vediamo creatività? Ci sono immagini, statiche o in movimento, realizzate con maestria. Cura nei colori, nelle luci, nella musica. Ci sono testi che sembrano “brillanti” perché nascondono con vezzi barocchi la loro mancanza di contenuti. Il tutto è spaventosamente ripetitivo. Si copia, si imita, ad nauseam. Approfondimento? Vera innovazione? Suvvia ma chi vuole quelle cose? C’è fretta; e l’importante è creare una momentanea suggestione, senza perder tempo ad approfondire.

Insomma un gran vuoto, una girandola di immagini senza sugo né promessa. Ci sono le eccezioni, certo: ma sono poche, e troppo spesso appaiono nuove perché la più semplice delle formule tradizionali sembra una grande novità quando si colloca in mezzo a un mondo di orpelli senza costrutto.

Il concetto di “creatività” si è profondamente corrotto. Si è ridotto ad un esercizio cosmetico, privo di spessore e di contenuto.

Come si spiega? I “creativi” sono tutti superficiali, sciocchi, esibizionisti, incapaci di analisi, privi di immaginazione? No. Le radici del problema sono molto più profonde.


4. Ma perché?

Si sente dire spesso “le agenzie sono in crisi”. A me non sembra. Nonostante tutto, continuano a crescere e a prosperare, anche se nessuno pensa che stiano svolgendo con pienezza il loro ruolo.

Si sente spesso dire dai clienti che non riescono ad avere dalle agenzie ciò che vorrebbero. Ma sanno come chiederlo?

Nella girandola delle “gare”, delle improvvisazioni, dei continui cambiamenti di rotta che spesso derivano da motivi estranei alla comunicazione come ci si può aspettare continuità, approfondimento, entusiasmo?

Allora è facile è tutta colpa dei clienti. Sono diventati prepotenti, impazienti, invadenti. Non ascoltano, impongono; non vogliono dialogo, ma solo obbedienza a ogni loro capriccio.

Ma anche questa è una spiegazione inadeguata. Possibile che tutti i clienti siano così sciocchi da badare solo alla loro ambizione e autorità, da seguire un metodo che alla fine si ritorce contro di loro?

Quanto ai mezzi tutti dicono che non c’è criterio né ragione, che si commercia spazio come se fosse una “merce” indifferente. Gli stessi mezzi se ne lamentano; e ognuno accusa il suo concorrente.

E anche le ricerche si applicano abitualmente metodologie discutibili, si accettano come “misura” criteri grossolani

Se tutte le componenti di un sistema sono in difficoltà, se ognuna si lamenta dell’altra, l’unica spiegazione possibile è che l’origine del problema sia più generale. Ma qual è?


5. La “crisi del prodotto di marca”

La causa non è la “crisi economica”, su cui troppo spesso si scaricano tutte le colpe. L’economia ha alti e bassi, ma il problema rimane.

La causa è strutturale. Ha un effetto, che non accenna a finire, su tutto il marketing, su tutta la pubblicità, su tutti i metodi di comunicazione e promozione; ma la causa principale è una: la crisi di identità dei prodotti di marca.

Da molti anni sentiamo solenni, sofisticati, aulici discorsi sulla qualità. Convegni, congressi, seminari, corsi di formazione. Tante parole. Pochi fatti. È come per la creatività (e infatti sono sorelle). Se ne parla tanto perché che ce n’è poca.

La marca è in crisi, si dice. Aggredita dai hard discount e in generale dalla battaglia dei prezzi e degli sconti, delle promozioni di corto respiro, dallo strapotere della distribuzione.

Perché è in crisi? Perché è debole. Prodotti forti, con significative superiorità reali, con vere barriere tecnologiche, sono molto meno sensibili a questi problemi. Possono soffrire per un po’ di tempo, ma sulla distanza vincono.

Ma quante marche hanno creduto di poter vivere a colpi di “immagine”, di cosmesi, di opportunismo, invece di investire nella qualità e nell’innovazione? I peggiori nemici delle marche sono i falsi profeti che per tanti anni hanno predicato “i prodotti sono tutti uguali, la differenza sta nell’immagine”.

Come insegnava Sun Zu nella sua “Arte della Guerra”, la tattica senza strategia è il rumore che precede la sconfitta. Il trucco presto o tardi si scioglie, come il rimmel che cola dagli occhi di una donna che piange – ma senza passione e senza poesia.

I predatori della distribuzione, gli importatori disinvolti, i negozi a basso prezzo non sono gli assassini delle marche. Sono la nemesi, inevitabile, creata da strategie miopi, marketing superficiale e pubblicità senza contenuto.


6. L’origine del problema

Ma anche la debolezza delle marche (o meglio di quelle marche che hanno dimenticato il vero motivo della loro esistenza) è, a sua volta, una conseguenza di qualcosa di più profondo. La crisi di identità delle imprese.

Nessuno, che io sappia, ha ancora dato una spiegazione nitida dello stato confusionale in cui si trova l’intero sistema economico, politico e culturale del pianeta. Sarebbe troppo lungo tentare qui di approfondire il problema. Ma è chiaro che l’umanità non ha avuto il tempo di adattarsi a una situazione nuova e inesplorata.

Ci sono problemi smisurati, come la crescita della popolazione, le enormi aree di povertà e sofferenza, il dissesto ambientale, la totale inadeguatezza del sistema politico, i conflitti etnici e culturali, che nessuno sa come risolvere. Forse nessuno li vuole affrontare davvero.

Nello steso tempo, ironicamente, c’è una sovrabbondanza di denaro. Denaro che è diventato una convenzione astratta, non corrisponde più a cose “reali” come beni, risorse, prodotti o servizi. Non obbedisce ad alcun “padrone”. Segue regole proprie, logiche governate solo dalle alchimie della speculazione. Un’immensa muffa acefala, senza alcuna direzione od obiettivo, che nutre solo se stessa.

In una situazione come questa l’impresa perde di vista l’idea di avere una “missione” o un’identità. I suoi dirigenti guadagnano e fanno carriera in base a una sola misura: i profitti di breve periodo. Spesso gli incentivi personali, legati al risultato finanziario di un anno o di un trimestre, sono tali da trasformare in un opportunista anche il più geniale degli strateghi.

Per farsi un’idea di questo meccanismo basta leggere quel classico che è Barbarians at the Gate di Bryan Burrough e Jonh Heylar. E’ affascinante come un romanzo di avventure ma racconta con lucida crudeltà una storia vera, la battaglia finanziaria nel 1988 per il controllo della RJR-Nabisco (la più grossa operazione nel periodo più intenso della “finanza selvaggia”). Un libro che dovrebbe essere fra i testi base in tutte le scuole di economia, e invece è seminascosto perché dice troppe fastidiose verità.

Il risultato è che invece di pensare, investire, costruire, l’attività più importante è comprare e vendere imprese. E con le imprese, le marche – come se potessero sopravvivere in buona salute staccate dalle loro radici.

Insomma sono scomparse, in gran parte delle situazioni, le premesse di cui si nutre una marca forte, con autentici valori. Così è inevitabile che prevalgano le soluzioni superficiali, la ricerca di una “immagine” fine a se stessa, la tendenza a rifugiarsi nelle tattiche e nella cosmesi. Chi non ha più un’identità e una faccia, va in cerca di chi possa dargli una maschera, magari folle e bizzarra, per la prossima festa in costume. Tanto, si sa, è tutto un carnevale.

A tutto questo si aggiunge la crisi dei mezzi, quelli che Michael Crichton chiama i Medisauri. Non c’è lo spazio qui per approfondire il tema, ma è chiaro che l’intero sistema mondiale dei mezzi di informazione è moribondo, per crisi interna di struttura prima che per crescita delle nuove tecnologie. Perciò la crisi genetica, fondamentale, sta nella perdita di identità dei due grandi poli del sistema: i mezzi e le imprese.


7. Come si risolve?

Non credo nelle panacee e nelle soluzioni miracolistiche. Anche perché se la radice del problema, come credo, è fuori dal mondo del marketing e della comunicazione, non è possibile risolverlo da dentro.

La crisi del sistema economico, politico, informativo dovrebbe essere risolta da chi lo governa. Ma il problema è che nessuno lo governa. E se la diagnosi somiglia in qualche modo alle cose che ho scritto qui, nessuno sta affrontando il problema per quello che è.

Se ne uscirà, probabilmente, in modo conflittuale, con una crisi darwiniana in cui alla fine dovrà prevalere chi davvero saprà tornare ai “valori reali”, a quella “qualità” di cui tanto si parla, ma per cui poco si fa

Intanto, chi opera in una parte del sistema, e non può cambiarne la struttura, che cosa può fare?

“Tirare a campare”, come quasi tutti fanno oggi, cercando di sopravvivere e, per quanto possibile, di ingegnarsi a trarne vantaggio. Del doman non v’è certezza, apres nous le déluge.

Oppure concentrarsi su casi singoli, e ripartire dalle origini. Una singola impresa, una singola agenzia, un singolo professionista, possono decidere di andare contro corrente. Risalire alle radici e farsi le domande fondamentali: chi sono? che diritto ho di esistere? qual è la mia “missione”? che servizio offro, e a chi? come e in che cosa posso essere assolutamente e invincibilmente superiore a tutti gli altri? quali cose devo fare per esserlo?

Questo è possibile se l’impresa ha le risorse (umane e tecniche, prima che economiche) per farlo. Chi ci riesce ottiene il successo tanto più facilmente quanto più gli altri sono dispersi nelle tattiche, nelle politiche di carriera, nelle faide aziendali o nelle alchimie finanziarie. Ci vuole impegno, capacità di innovazione, autentica creatività – e ostinazione. Quando succede, finalmente si sente dire: “sto lavorando molto, ma mi diverto.

 

   
 


Giancarlo Livraghi – gian@gandalf.it
 
 


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