Il declino della violenza
È difficile chiarire, capire, approfondire. Ma è importante.
Che cosa sta cambiando? Che cosa occorre fare? Come?

Giancarlo Livraghi – gennaio 2014

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(migliore come testo stampabile)


C’è molta confusione sul problema della violenza. Non intendo accanirmi più del necessario sui danni dell’informazione deformata e deformante. Che ci piaccia o no, è comprensibile che la “cronaca nera” occupi parecchio spazio nei notiziari di tutti i giorni. E che storie di crudeltà, malvagità e violenza, reale o immaginaria, abbiano da secoli e millenni un ruolo molto ingombrante nella storia, nella letteratura, in ogni forma di spettacolo e di rappresentazione.

È meno accettabile che molte situazioni di grave violenza siano ignorate, trascurate, mal documentate e peggio interpretate. Addirittura, in troppi casi, lodate o giustificate in modo irragionevole o strumentale. Ma dobbiamo capire che conoscerle e spiegarle può essere difficile, anche pericoloso. Chi cerca di scoprire, raccontare, interpretare la violenza rischia di morire ammazzato.

Chi ne è testimone è spesso ridotto ferocemente al silenzio – o tace perché ha paura. Insomma di violenza si racconta e si immagina forse troppo, ma si sa e si capisce troppo poco. L’orrore ci sgomenta, la compassione ci sconvolge, la paura ci ossessiona.

È difficile, faticoso, quasi disumano, osservare la situazione con obiettiva freddezza. Ma è necessario per capire come il problema si sta evolvendo e perciò come può essere più efficacemente affrontato.

Sono addestrato da lunga esperienza a dubitare delle statistiche. Ma ciò non significa che siano sempre inutili o inaffidabili. Ci sono tendenze che, per quanto discutibili nei dettagli, sono chiare e fortemente credibili nel quadro complessivo.

Una di queste merita di essere capita, perché rovescia la nostra abituale percezione. Non solo la violenza non è in aumento, ma è diminuita. E ci sono seri motivi per credere che continuerà così.

Ovviamente sarebbe sciocca qualsiasi illusione “ottimistica”. C’è ancora troppa orribile violenza per poterci permettere qualsiasi forma di ipocrita rassegnazione o colpevole tolleranza. Ma se riusciamo a capire, con metodo e chiarezza, che non è “nella natura umana” alcuna inevitabile continuità o peggioramento, possiamo definire le premesse necessarie per estirpare, almeno in parte, le radici del male.

Fra i vari dati disponibili, due mi sembrano particolarmente rilevanti. Una di queste analisi è ristretta nello spazio e nel tempo. Riguarda solo l’Italia e pochi, recenti decenni.

Si tratta di omicidi volontari. Ovviamente non è la sola forma di grave violenza, ma è la più facilmente misurabile. Il 9 dicembre 2013 la Repubblica ha citato gli studi svolti dal sociologo Marzio Barbagli “che sta conducendo una ricerca sulla criminalità con dati finora inediti”.

L’esito di questa analisi è che «nel 2013 l’Italia registra il tasso di omicidi più basso degli ultimi 150 anni». «Nell’ultimo trentennio del Novecento – osserva Barbagli – il numero degli omicidi consumati e tentati è cresciuto, raggiungendo il picco nel 1991 (1.773 consumati e 1.959 tentati). Da allora però ha preso a diminuire».

Il calo degli omicidi è proseguito continuamente, anche negli “anni della crisi”. «Nel 2011 quelli consumati si sono fermati a 553 e i tentati sono stati 1.401. Nel 2012 la diminuzione è continuata: 528 omicidi effettivi e 1.327 tentati. Per il 2013 disponiamo dei dati dei primi nove mesi: 353 consumati e 939 tentati, meno di quelli commessi nello stesso periodo del 2012».

«Nel 2012, e ancora più nel 2013, l’Italia ha raggiunto un tasso di omicidi inferiore allo 0,9 per 100mila abitanti (più precisamente 0,85): il più basso della sua storia, non solo di quella post-unitaria, ma anche di quella assai più lunga dei precedenti quattro secoli, nei quali il tasso di omicidi raggiungeva valori 70 volte più elevati».

Barbagli osserva che «non esiste nel nostro Paese la minima consapevolezza di questa tendenza. Va ricordato che per oltre cinque secoli l’Italia ha avuto tassi di omicidi molto più alti degli altri Paesi europei».

«Nell’ultimo ventennio, e ancor più durante gli anni della crisi, l’Italia ha invece raggiunto gli altri Stati dell’Europa. Non solo: sorprende che il Paese abbia oggi un tasso di omicidi più basso di Belgio, Gran Bretagna, Danimarca, Francia e vicino a quello di Svezia e Germania».

Alla luce di questi dati, si manifesta in tutto il suo stupido squallore il ruolo perverso della pseudoinformazione dominante. Non si tratta, ovviamente, di nascondere le “brutte notizie” – né di sottovalutare la gravità della “crisi” e delle condizioni di disagio in cui troppi stanno soffrendo. Ma, a dispetto di tanti uccelli del malaugurio, non sembra che l’Italia stia precipitando nella barbarie. Sembra anzi che, fra tanti ostacoli e difficoltà, la solidarietà e la comprensione umana abbiano più spazio della violenza.

Naturalmente sarebbe demenziale “accontentarsi” di una diminuzione del numero di omicidi. Ma che ce ne siano sempre meno aumenta la possibilità di scoprirli, isolarli, prevenirli. Rinforzare quel contesto umano e sociale che non solo riduce i crimini, ma rende tutto l’ambiente umano più vivibile e più civile.

È grossolano, semplicistico e melenso (quando non è crudelmente ironico) parlare di un’Italia “più buona” o “meno cattiva”. Ma c’è, consapevole e forte, un’Italia solidale, coraggiosa, empatica e intelligente. Si tratta, soprattutto, di incoraggiarla a crescere e a coltivare la rigogliosa pianta della civiltà.

*     *     *

L’altra analisi è molto più estesa e profonda. Riguarda tutta l’evoluzione dell’umanità, dalle più remote origini (così come le rivelano recenti scoperte e studi di paleoantropologia) a ciò che si può constatare nella situazione attuale.

Per mia colpevole disattenzione, solo in questi giorni mi sono accorto di un articolo pubblicato dal Wall Street Journal il 24 settembre 2011 con l'esagerato titolo Violence Vanquished.

L’autore è Steven Pinker, professore di psicologia a Harvard, che nello stesso anno ha pubblicato un libro su questo argomento. The Better Angels of Our Nature: Why Violence Has Declinied.

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L’edizione italiana è stata pubblicata nel 2013

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È chiara e ben scritta la recensione di Mario Calabresi (La Stampa 3 settembre 2013).
Ma ha un titolo sbagliato e confuso “Il modo non è mai stato così buono“.
Non si tratta di “bontà” – né del “migliore dei mondi”.
La situazione merita un approfondimento più serio.

Ho comprato il libro, ma non so quando lo leggerò (spero che non siano indispensabili
tutte le 800 pagine). Intanto l’articolo riassume estesamente la sostanza.
È lungo, ma traduco qui tutto il testo – a cominciare dal titolo e sommario.
Con una necessaria osservazione critica, fin dall’inizio: “declino” non vuol dire “sconfitta”.
(Probalmente anche questo sbaglio è di un “titolista”, non dell ’autore).
 

La violenza sconfitta
Pensiamo che il nostro mondo sia dominato da terrore e guerra,
ma potremmo essere nell’era più pacifica di tutta l’evoluzione umana.
Vediamo come e perché la brutalità è in declino e l’empatia sta crescendo.
 

Nel giorno in cui questo articolo sarà pubblicato, sapremo di un orripilante atto di violenza. In qualche parte del mondo esploderà una bomba di un terrorista. O ci sarà un insensato omicidio. O una sanguinaria insurrezione. È impossibile assistere a queste catastrofi senza pensare: “che fine sta facendo il mondo?”

Ma sarebbe meglio chiederci: “Quanto era peggio il mondo nel passato?” Può sembrare incredibile, ma il mondo del passato era molto peggio. La violenza è in declino da migliaia di anni, oggi probabilmente viviamo nell’era più pacifica in tutta l’esistenza della nostra specie.

Il declino, naturalmente, non è stato morbido. Non ha ridotto la violenza a zero – e non è garantito che continuerà. Ma è uno sviluppo storico persistente, visibile su scala di millenni o di anni, la diminuzione di tante, grandi o piccole violenze. Dall’abitudine di scatenare guerre a quella di picchiare i bambini.

Questa affermazione, lo so, suscita scetticismo, incredulità, talvolta rabbia. Tendiamo a stimare la probabilità di un evento secondo la facilità con cui possiamo ricordare esempi – ed è molto più probabile che ci siano trasmesse in casa e incise nella memoria scene di massacro che riprese di persone morenti di vecchiaia. Ci saranno sempre abbastanza scene di violenza per riempire le notizie della sera e così le percezioni degli orrori continueranno a essere sconnesse dalla loro reale probabilità.

Non è difficile trovare le prove della nostra sanguinosa storia. Pensiamo , per esempio, ai genocidi nel Vecchio Testamento e alle crocifissioni nel Nuovo, alle atroci mutilazioni nelle tragedie di Shakespeare e nelle favole di Grimm, ai monarchi britannici che decapitavano i loro famigliari e ai fondatori americani che duellavano con i loro rivali.

Con gli strumenti analitici di oggi il declino di antiche brutali pratiche si può quantificare. Gli studi ci mostrano come, nel corso della storia, l’umanità sia stata avvantaggiata da sei cambiamenti che diminuirono la violenza.

Il primo fu un processo di pacificazione: la transizione dall’anarchia tribale in cui la nostra specie trascorse la maggior parte della sua storia evolutiva [duecentomila anni – n.d.t.] alle prime estese e organizzate civiltà agricole, con città e governi, circa cinquemila anni fa [alcune anche prima – n.d.t.].

Nel diciassettesimo o diciottesimo secolo, teorici sociali come Hobbes e Rousseau potevano fantasticare nelle loro poltrone su come era la vita in un ipotetico “stato di natura”. Oggi possiamo capire meglio, perché l’archeologia criminale – una specie di “CSI paleolitico” – può valutare i livelli di violenza in base alla proporzione di scheletri umani che in siti antichi si trovano con crani sfondati, decapitazioni o punte di freccia conficcate nelle ossa.

Queste indagini dimostrano che, in media, circa il 15% delle persone in ere prestatali avevano morti violente, in confronto a circa 3 % dei cittadini nei più antichi stati. La violenza tribale abitualmente scompare quando uno stato o un impero impone un controllo del territorio, fino ad arrivare alle varie “pax” (romana, ottomana, britannica eccetera) ben note agli studiosi di storia.

Non è che i primi re fossero generosamente interessati al benessere dei loro cittadini. Così come un contadino cerca di impedire che gli animali nei suoi allevamenti si uccidano fra loro, un governante cerca di evitare faide, ruberie e omicidi fra i suoi sudditi. Dal suo punto di vista, i conflitti sono danni – perché diminuiscono la possibilità di prelevare tasse, tributi, soldati e schiavi.

L’osservazione è malignamente sensata, ma qui Steven Pinker ha fatto un po’ di confusione, mescolando diversi periodi evolutivi e trascurando incroci e conflitti fra diversi e contrastanti sistemi culturali e di potere. Però riprende il filo più avanti – in particolare per quanto riguarda il Medioevo.

La seconda diminuzione della violenza fu un processo di civilizzazione che è meglio documentato in Europa. Dai dati storici, fra il tardo medioevo e il ventesimo secolo, si rileva nei paesi europei una diminuzione del livello di omicidi variabile da 10 a 50 volte.

Nell’articolo c’è un grafico, inserito nell’immagine di un’arma medievale.

scure

L’estetica è interessante, ma la leggibilità è scarsa.
Questo è il grafico ridotto all’essenziale – e così più facilmente percettibile.

Diminuzione degli omicidi
Dal quattordicesimo al ventesimo secolo
Numero di omicidi per 100.000 abitanti – in sei paesi europei

grafico

La linea rossa riguarda l’Italia. Marrone le Fiandre (Belgio e Olanda).
Blu la Germania insieme alla Svizzera. Verde la Gran Bretagna.
 

Non è questa la sede per approfondire i metodi di analisi storica, ma è opportuno ricordare che il medioevo non è durato fino al primo sbarco di Cristoforo Colombo oltre l’Atlantico nel 1492 e alla successiva “scoperta dell’America”. È finito molto prima, nel Trecento. Perciò è corretta la scelta del periodo analizzato in questo grafico.

Sarebbe troppo complicato esaminare qui i motivi per cui la violenza in Italia è stata così a lungo peggiore che in altri paesi europei, ma sono evidenti se si considera la sua posizione geografica e la situazione frammentata e contesa in cui si trovava a quell’epoca.

Intanto, se vediamo questi dati insieme agli sviluppi recenti spiegati da Marzio Barbagli, non è irragionevole pensare che il numero totale di omicidi in Italia (rispetto alla popolazione) sia ora il più basso, se non da millenni di storia e preistoria, almeno dalla fine della ben governata “pax romana”. Cioè da quindici secoli.

Nel seguito del suo articolo, Steven Pinker continua così la descrizione della violenza e crudeltà nel medioevo.

I numeri corrispondono con le narrazioni storiche di brutalità della vita nel medioevo, quando i briganti di strada rendevano ogni viaggio un rischio di vita o mutilazione e le cene erano spesso ravvivate da accoltellamenti. A così tante persone era tagliato il naso che i testi di medicina medievali ipotizzavano metodi per ricostruirlo.

Qui Pinker si lascia trascinare da amaro umorismo, dandoci dei “secoli bui” una descrizione più pittoresca che storicamente precisa. Le forme di crudeltà in quell’epoca sono in corso di recente revisione (per esempio sembra che le cinture di castità e alcuni degli orripilanti strumenti di tortura esposti nei musei degli orrori siano ricostruzioni successive più che autentici reperti di quei tempi). Ma comunque è vero che imperversavano molti generi di spietata e feroce crudeltà e che ci sono state epoche (alcune, come appunto il medioevo in Europa, durate per molti secoli) in cui non solo la violenza non è diminuita, ma ha avuto anche molteplici forme di mostruoso peggioramento.

La storia attribuisce il declino degli orrori medievali al raggruppamento dei dispersi territori feudali in grandi regni con autorità centralizzata e una infrastruttura commerciale. La giurisprudenza penale veniva nazionalizzata mentre al saccheggio si sostituiva il commercio. Le persone imparavano sempre più a controllare i propri impulsi e a cercare di collaborare con i loro vicini.

La terza transizione, che potremmo chiamare rivoluzione umanitaria, cominciò con l’Illuminismo. A lungo, governi e chiese avevano mantenuto l’ordine punendo i nonconformisti con mutilazioni, torture e mostruose forme di esecuzione, come bruciare sul rogo, spezzare le ossa, sventrare, smembrare, impalare e tagliare a pezzi.

Su questo orribile argomento rimane indimenticabile e fondamentale l’eccellente saggio di Alessandro Manzoni Storia della colonna infame. Il libro, pubblicato nel 1840, si riferisce alla situazione nel 1630. Altre efficaci descrizioni di furibonda e feroce crudeltà si trovano nei Promessi Sposi.

Nel diciottesimo secolo si arrivò alla diffusa abolizione della tortura giudiziaria, compresa la famosa proibizione di “punizione crudele e insolita” nell’ottavo emendamento (1791) della costituzione degli Stati Uniti.

Nello stesso periodo, molte nazioni cominciarono a ridurre la loro lista di crimini punibili con pena capitale da centinaia (fra cui sodomia, stregoneria, furto e falsificazione) a solo due, omicidio e tradimento. E anche a proibire sport sanguinari, persecuzioni religiose, dispotismo assoluto e schiavitù.

A questo punto (con un “salto” di un secolo e mezzo) è inserito nell’articolo un secondo grafico, che riguarda il numero di morti in battaglia, nel mondo, dal quarto all’ultimo decennio del ventesimo secolo.

Il declino della guerra
Morti in battaglia per 100.000 persone

guerra

La barra nera rappresenta le guerre coloniali. La blu le guerre fra stati.
La rossa le guerre civili e l’arancione quelle con intervento straniero.

Le fonti sono Human Security Report, Uppsala Conflict Data Project e Peace Research Institute of Oslo
 

Anche in situazioni tragiche la cruda eloquenza dei numeri è sconcertante. Nei periodi dei più sanguinosi conflitti si supera di poco un indice di 20 morti in battaglia su ogni centomila persone viventi. Cioè lo 0,02 per cento della popolazione mondiale. E con la diminuzione nei decenni seguenti la tendenza è sempre più chiara.

Questo ovviamente non risolve il problema, né lo rende meno orribile. Ma ne ridefinisce le dimensioni. Tenterò, alla fine, di ragionare su come tener conto di questi fatti senza illuderci che possa essere facile risolvere il problema delle guerre e, in generale, della violenza. Intanto vediamo come Steven Pinker descrive la situazione.

La quarta grande transizione è la tregua di “grandi guerre” che abbiamo visto dopo la fine della seconda guerra mondiale. Definita talvolta dagli storici come “la lunga pace”.

Oggi consideriamo ovvio che non ci siano scontri militari fra l’Italia e l’Austria – né fra la Gran Bretagna e la Russia. Ma nei secoli passati le grandi potenze erano quasi sempre in guerra. Fino a poco tempo fa, le nazioni dell’Europa tendevano a cominciare due o tre nuove guerre ogni anno. Il cliché secondo cui il ventesimo secolo è stato “il più violento della storia” ignora la seconda metà del secolo (e potrebbe non essere vero neppure per la prima metà se si calcolassero le morti violente in proporzione alla popolazione mondiale).

È insidiosa la tentazione di attribuire “la lunga pace” al deterrente nucleare. Ma anche paesi che non hanno armi atomiche hanno smesso di combattere fra loro. Studiosi di politica puntano invece sulla crescita della democrazia, degli scambi commerciali e delle organizzazioni internazionali. Dati statistici dimostrano che, nel loro insieme, riducono la probabilità di conflitti. Si dà anche più valore alla vita umana che all’orgoglio nazionale – una dura lezione imparata da due guerre mondiali.

La quinta tendenza, che io chiamo “la nuova pace”, riguarda il mondo intero, compresi i paesi “in sviluppo”. Dal 1946, varie organizzazioni hanno tracciato su scala mondiale l’andamento del numero di conflitti armati e di vittime umane che ne derivano. La constatazione negativa è che per alcuni decenni la diminuzione delle guerre fra stati è stata accompagnata da un aumento delle guerre civili, perché i paesi di nuova indipendenza erano guidati da governi inetti e corrotti, sfidati da insurrezioni e armati dalle superpotenze della “guerra fredda”.

La constatazione “meno negativa” è che le guerre civili tendono a uccidere meno persone che quelle fra stati. E la “più positiva” è che, dopo il massimo di intensità della “guerra fredda” negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, i conflitti organizzati di ogni genere – guerre civili, genocidi, repressioni di governi autocratici, attacchi terroristici – sono diminuiti in tutto il mondo. E ancora più velocemente è diminuito il numero dei morti.

Le morti documentate provocate da violenze politiche e militari sono scese a un livello senza precedenti, pochi centesimi di un punto percentuale. Anche se si potesse tener conto del numero di morti non documentate e delle vittime per fame e malattie provocate dalle guerre, non sarebbe più dell’1%.

Queste osservazioni di Steven Pinker risentono di due limiti. Uno è che ogni calcolo basato su “cifre generali” sottovaluta la gravità di “conflitti locali” i cui effetti inquinano la situazione su scala più estesa. L’altro è che alcuni casi di orribile violenza si sono aggravati dopo la pubblicazione del suo libro (e di questo suo articolo). In particolare, ma non solo, in Africa e nel Medio Oriente.

Un indice statistico (numero di violenze mortali) può essere relativamente “piccolo” rispetto al totale della popolazione nel mondo. Ma non identifica la gravità di “focolai infettivi” che contagiano il quadro generale anche oltre i confini dei paesi più gravemente devastati. Questo intricato problema, nella sua insidiosa complessità, è un tema che sento di dover ancora approfondire.

La causa più immediata di questa “nuova pace” è la fine di quasi mezzo secolo di “guerra fredda” – e perciò anche delle “guerre per procura” nel mondo in via di sviluppo, sostenute, istigate e armate dalle grandi potenze. Intanto sono cadute in discredito le ideologie genocide che avevano giustificato il sacrificio di un enorme numero di uova per fare un’utopistica frittata.

Un altro contributo è lo sviluppo di forze internazionali che riescono davvero a mantenere o imporre la pace – non sempre, non abbastanza, ma molto più spesso e molto meglio di ciò che accade quando i contendenti sono lasciati liberi di combattersi fino alle catastrofiche conclusioni dei loro conflitti.

Nell’era postbellica c’è stata una formidabile diffusione di “rivoluzioni dei diritti” – un crescente disgusto contro gli abusi e le aggressioni anche in dimensioni più ristrette e personali. Nel “mondo sviluppato” il movimento per i diritti civili ha obliterato i linciaggi e pogrom mortali. E l’impegno per i diritti delle donne ha contribuito a diminuire l’incidenza di stupri e di maltrattamenti e uccisioni – in famiglia e in vari generi di relazioni più o meno conflittuali.

In decenni recenti, il movimento per i diritti dei bambini ha ridotto significativamente la frequenza di percosse, maltrattamenti e abusi sessuali. La campagna per i diritti dei “gay” ha costretto i governi nei paesi più evoluti ad abolire le leggi che criminalizzavano l’omosessualità – e ha avuto qualche successo nel ridurre i crimini di omofobia.

È interessante la cautela con cui Steven Pinker si esprime in queste osservazioni. Si tratta di un “mondo sviluppato” non precisamente definibile. Si è ottenuto “qualche successo”, i problemi sono più o meno “ridotti”, ma ancora lontani dall’essere risolti. Insomma l’evoluzione è reale e significativa, ma non è facile capire il modo e valutare l’estensione del suo sviluppo.

*     *     *

Come si spiega che la violenza sia diminuita così tanto e così a lungo? Può essere perché è stata estirpata dalla nostra formazione, rendendoci più pacifici per natura? Questo è improbabile.

L’evoluzione ha un limite di velocità che si misura in generazioni, mentre molte di queste diminuzioni si sono manifestate in decenni o anche solo anni.

I bambini piccoli continuano a tirare calci, mordere e picchiare. Poco più grandi, continuano a giocare alla guerra o ad altri conflitti. E poi quasi tutti continuano a nutrire fantasie aggressive e a divertirsi con giochi violenti.

È più credibile che nella natura umana ci siano sempre state propensioni alla violenza insieme a quelle che la contrastano – come autocontrollo, empatia, correttezza e ragionevolezza. Sono quelli che Abraham Lincoln chiamava “gli angeli migliori della nostra natura”. Il motivo per cui la violenza è diminuita è lo sviluppo di circostanze storiche che favoriscono i nostri angeli migliori.

Cioè non ha senso dire o pensare che siamo “più buoni” o “più cattivi”. Quello che cambia (nel bene e nel male) è il mondo in cui viviamo.

La più ovvia di queste energie “pacificatrici” è il potere governativo, con il suo monopolio dell’uso legittimo della forza. Un regime centrale di efficiente indipendenza della giurisprudenza e della polizia può scoraggiare la tentazione di violenze private e strumentali, inibire gli impulsi di vendetta e smontare le egoistiche pretese per cui tutti i contendenti in una disputa credono di essere dalla parte degli angeli.

Gli effetti “pacificatori” dei governi sono dimostrati nel modo in cui il livello di uccisioni è sceso in seguito all’espansione e al consolidamento degli stati che hanno sostituito le società tribali in tante parti del mondo e il feudalesimo nell’Europa medievale. E possiamo vedere andamenti in senso contrario quando la violenza esplode in zone di anarchia, come quella narrata nei film “western” e tante constatate oggi dove gli stati hanno perso il controllo.

Nei territori dominati da mafie e bande criminali non si può ottenere per telefono l’intervento della polizia, né ricorrere ai tribunali, perciò si è indotti a tentare di farsi rozzamente giustizia da soli.

Un errore di prospettiva in Italia è pensare che il crimine organizzato sia una nostra piaga particolare. Ci sono mafie potenti, radicate e violente in molte parti del mondo, con alleanze e complicità che scavalcano i confini e diffondono insidiosamente una velenosa miscela di tante e diverse aggregazioni criminali.

Un’altra forza di “pacificazione” è stata ed è il commercio – un gioco in cui si può essere tutti vincitori. Con il progresso tecnologico che permette lo scambio di merci e idee a più lunghe distanze e con più ampi gruppi di partecipanti, anche gli “altri” più lontani diventano più utili vivi che morti. Invece della contrapposta demonizzazione e disumanizzazione, si rivela desiderabile la partecipazione in reciproco altruismo.

Occorre sempre stare attenti alla terminologia. L’altruismo esiste ed è importante. Ma gli scambi commerciali e culturali, la commistione di beni materiali e di conoscenze, sono ricchezza, benessere, progresso anche in una prospettiva egoistica. Come vediamo nel paragrafo seguente di Steven Pinker.

Per esempio, benché i rapporti fra l’America e la Cina siano piuttosto freddi, è improbabile che noi si dichiari guerra a loro – o viceversa. A parte i motivi morali, producono troppe nostre cose e dobbiamo a loro troppi soldi.

Un terzo “pacificatore” è il cosmopolitismo, cioè l’allargamento di quelli che erano piccoli mondi parrocchiali tramite alfabetizzazione, mobilità, educazione, scienza, storia, giornalismo e mass media. Queste forme di percezione possono portare le persone a capire le prospettive di chi è diverso ed estendere il cerchio di empatia per comprendere ciò che sembrava remoto e strano.

Ometto un paragrafo di Pinker: elogio delle tecnologie di comunicazione, in cui la sua sintesi è semplicistica. Non sono la causa del declino della violenza – i dati dimostrano che si è sviluppato in tempi molto più lunghi. Possono essere utili, ma anche dannose: ciò che conta è l’uso che se ne fa. Questo è un nodo rilevante in tutto il quadro, su cui ritorno nelle mie osservazioni conclusive.

Mi sembra necessario, invece, accennare a un altro indice di tendenza e citare i dati che ne danno una misura. I numeri sono “piccoli” rispetto alle statistiche generali sulla violenza omicida, ma il significato è importante nell’evoluzione della cultura e della civiltà. Si tratta della pena capitale.

Per la prima volta nella storia dell’umanità, una “moratoria universale della pena di morte” è stata dichiarata a livello internazionale: ratificata dall’assemblea generale delle Nazioni Unite il 18 dicembre 2007.

Naturalmente “moratoria” non vuol dire “abolizione”. Si tratta di una manovra tattica per aggirare l’opposizione di paesi che non vogliono eliminare questa barbarie. Il processo è faticoso, lento, contorto nella prospettiva della nostra generazione. Ma segna un profondo cambiamento rispetto a tanti secoli e millenni di storia umana.

Anche lo sviluppo scientifico ha contribuito a chiarire la situazione. Per esempio gli sviluppi della medicina forense (in particolare, ma non solo, la verifica del
DNA) hanno portato alla luce le condanne a morte, ormai eseguite, di accusati innocenti. E così hanno costretto molti sostenitori della pena capitale a capire la feroce assurdità del loro atteggiamento.

Ma il problema, evidentemente, non è ancora risolto. È utile vedere il quadro riassunto in un’immagine, come il questo eloquente mappamondo.

La pena di morte nel mondo

penadimorte

In rosso i paesi dove à utilizzata come forma di punizione legale.
In marrone dove non à utilizzata da molto tempo.
In colore pù pallido dove à riservata a circostanze eccezionali
(come crimini commessi in tempo di guerra).
In blu dove à abolita per tutti i crimini.

La fonte è Amnesty International
La Russia “dovrebbe essere” nella situazione blu,
ma non è ancora del tutto chiaro se si tratti
di un’abolizione definitiva o di una “moratoria”.

La pena di morte è scomparsa in quasi tutta l’Europa. Molto ridotta
nelle Americhe (esclusi USA). Ma non in Africa. Ed è ancora peggio in Asia.

Ci sono parecchie, e complesse, differenze fra le situazioni di singoli paesi. In particolare, ovviamente, nelle “categorie intermedie” (pena di morte “non utilizzata da molto tempo” o “riservata a circostanze eccezionali”).

Ma anche dove la pena capitale rimane “utilizzata” si rilevano, in modo confuso ma non irreale, meno frequenti esecuzioni. (Invece sono rari, ma purtroppo esistenti, i casi di barbarico arretramento – e particolarmente perverse le situazioni in cui il potere “nasconde la mano” mentre di fatto organizza o incoraggia gli omicidi).

Il “campionato mondiale” di esecuzioni capitali appartiene alla Cina, dove sono più numerose che nell’insieme di tutto il resto del mondo. Il numero è tenuto segreto. Le stime variano da “più di duemila” all’anno a “fra cinquemila e seimila”. Il governo cinese dichiara di volerle diminuire, ma finora non ci sono dati che confermino un reale cambiamento.

Come percentuale della popolazione, il peggiore è l’Iran, con “più di 314” esecuzioni nel 2012. Secondo Amnesty International ci sono state, nel 2012, esecuzioni capitali in 21 paesi. Oltre alla Cina e all’Iran, sono Iraq “più di 129”, Arabia Saudita “più di 79”, Stati Uniti 43, Yemen “più di 28”, Sudan “più di 19”, Afghanistan 14, Gambia 9, Giappone 7, Somalia “più di 6”, Palestina e Taiwan 6, Sud Sudan “più di 5”, Bielorussia “più di 3”. Una in India, Pakistan ed Emirati Arabi. Chissà quante nella Corea del Nord. Tutto questo calcolo può sembrare minuzioso, ma ci sono parecchie lacune e scarsità di dati attendibili.

I numeri sono “piccoli” rispetto alla popolazione del mondo, ma il fatto è che due terzi dell’umanità vivono in paesi dove la pena capitale è considerata “giustizia”. In culture educate a credere che la “punizione esemplare” sia una buona e sana usanza, è facile ritenere perdonabili, o addirittura “normali”, le più disgustose violenze private. Come è estesamente dimostrato dai fatti.

Un aspetto grave del problema è che, nei paesi in cui la pena capitale rimane in vigore, non si tratta solo di un’imposizione del potere, ma di una scelta condivisa da una larga parte della popolazione. Un circolo vizioso che tende a chiudersi su se stesso, un nodo che può essere solo gradualmente sciolto con la conoscenza e l’influenza di culture più aperte e generose.

Benché spesso confusi e disordinati, ci sono più sintomi di evoluzione in Africa che in Asia. E sono in Asia quasi tutti i paesi che continuano la barbara tradizione delle esecuzioni in pubblico. Come accade in Arabia Saudita, Corea del Nord, Iran, Siria, Yemen e in altre situazioni non chiaramente identificate.

Possono essere iniziative private, riti di tradizionale sadismo, ma accade anche che siano sentenze legali, le lapidazioni. In Afganistan, Arabia Saudita, Brunei, Indonesia, Iraq, Iran, Mali, Nigeria, Pakistan, Somalia e Sudan.

È strana e ambigua la situazione del Brasile e di altri paesi dell’America meridionale dove la pena di morte rimane applicabile “in caso di guerra” ma non ci sono guerre in corso o prevedibili (se non i combattimenti fra i governi e i vari movimenti insurrezionali o “milizie” di organizzazioni criminali).

Nell’America centrale c’è un contrasto fra i piccoli paesi continentali in cui la pena di morte è legalmente abolita e tante belle isole dei Caraibi, “paradisi” turistici (e fiscali) dove, benché raramente applicata, rimane in vigore.

Negli Stati Uniti d’America la pena di morte è stata eliminata in 18 stati (anche nel diritto federale e militare) ma non ancora negli altri 32. Il primo ad abolirla è stato il Michigan nel 1846, il più recente il Maryland nel 2013.

In un piccolo grafico, il numero di esecuzioni negli Stati Uniti dal 1960 al 2013.

esecuzioni
Il numero più alto è stato 98 esecuzioni nel 1999. Il più basso, da allora, 37 nel 2008 (39 nel 2013).
Negli anni in cui “sembra zero” alcune ci sono state, ma nel grafico risultano “invisibili “.

Questi dati sono in “cifra assoluta”. Se fossero percentuali sulla popolazione
si vedrebbero in modo diverso – con meno fasi di crescita e diminuzioni più veloci.
Ma comunque un fatto è chiaro: l’andamento è variabile, discontinuo e contrastato.
 

Il “caso americano” è, nel suo genere, unico al mondo. Un grande paese di solida democrazia, di evoluta cultura “occidentale”, ricco di innovazione, scienza e conoscenza, rimane diviso e perplesso sul tema della pena capitale.

Fin dalla loro nascita tutti i movimenti americani per i diritti umani sono risolutamente schierati contro, ma la maggioranza della popolazione è ancora convinta che la pena di morte sia necessaria. Intanto il cambiamento c’è, con un continuo spostamento in favore dell’abolizione. Ma l’evoluzione è lenta. È molto difficile azzardare una previsione su quanto tempo ancora ci vorrà.

Il dilemma americano è in mezzo al quadro contrastato e tortuoso che continuiamo a vedere in gran parte del mondo. È l’Europa, chiaramente, a tracciare la strada, in modo finalmente solidale e condiviso – ma solo da pochi anni è arrivata a questo livello di concreta coerenza.

Il primo paese nel mondo ad abolire la pena di morte è stato il Granducato di Toscana nel 1786. Ma è a San Marino che, dal 1865, è rimasta eliminata.

Una vicenda esemplare per la sua complicazione è quella della Svizzera, dove la pena di morte era stata abolita nel 1874, ma più tardi reintrodotta da pochi cantoni. Abolizione definitiva in tutta la confederazione nel 1938 – con l’eccezione dei reati militari in guerra, per i quali è stata eliminata nel 1992.

Negli altri paesi europei (mi limito a elencare quelli con più di 5 milioni di abitanti) la Germania (ovest) nel 1949. Austria 1968. Svezia e Finlandia 1972. Portogallo 1976. Francia 1981. Olanda 1982. Repubblica Ceca, Ungheria e Romania 1990. Spagna e Serbia 1995. Belgio 1996. Polonia e Norvegia 1997. Gran Bretagna e Bulgaria 1998. Slovacchia 1999. Ucraina 2000. Grecia 2001. Ultima la Russia, nel 2009 (ma, in pratica, una “moratoria” è in atto dal 1996).

In Italia (patria di Cesare Beccaria) c’era illuministica consapevolezza già nel Settecento. Ma la pena di morte fu abolita un secolo dopo, nel 1889. Poi reintrodotta dal fascismo nel 1930. Di nuovo eliminata nel 1948 “tranne i casi di guerra” e nel 1994 abolita completamente anche nel codice penale militare.

In Vaticano la pena capitale è stata abolita più tardi, nel 1969. Ma l’ultima esecuzione negli Stati Pontifici era avvenuta un secolo prima, nel 1870.

La Bielorussia, nel suo disperato isolamento, è l’unico paese europeo in cui la pena capitale non è abolita. Le notizie sono scarse, ma sappiamo che c’è stata una fucilazione nel 2012. E una condanna (finora non eseguita) nel 2013.

La dettagliata lunghezza di questo elenco non è un’inutile pignoleria. È la constatazione di due fatti. Le differenze dimostravano un’evoluzione confusa, ciascun paese europeo aveva fasi diverse. Le idee che erano chiare nel diciottesimo secolo (dopo millenni di feroce e imperante crudeltà) si sono tradotte in norme e fatti solo dopo la seconda guerra mondiale.

Ma ora la situazione è cambiata. C’è un preciso impegno collettivo. Anche se non lo avessero già deciso ognuno per sé, i 28 membri dell’Unione Europea sarebbero obbligati a eliminare la pena di morte. E anche, più estesamente, tutti i 47 membri del Consiglio d’Europa.

Il ruolo dell’Europa come guida dell’evoluzione mondiale verso l’abolizione della pena di morte è solennemente proclamato – e sostenuto da molte attività. Investimenti non solo di denaro, ma anche di molteplici e concrete iniziative.

Le organizzazioni politiche e burocratiche hanno sempre problemi di efficienza ed efficacia. Criticarle e stimolarle è un diritto, anche un dovere. Ma occorre capire che in questo caso non si tratta solo di chiacchiere o vanterie.

Intanto non è ancora penetrata abbastanza profondamente nella coscienza collettiva, neppure in Europa, la percezione di quanto sia barbara e assurda la pena di morte. Ogni volta che si ha notizia di un crimine, vicino o lontano, particolarmente atroce, anche persone che in realtà non farebbero male a una proverbiale mosca gridano furiosamente vendetta. Per poi voltare pagina, dimenticare l’orrore e pensare ad altro – fino alla prossima occasione per “sfogarsi” nell’urlo e nella violenza verbale.

Non è questa la strada che in millenni, secoli, anni e giorni ha portato al declino della violenza. Lo stato di coscienza ha ancora molto bisogno di crescere, maturare, progredire.

Dopo questa forse troppo lunga, ma spero utile, parentesi, ritorniamo all’articolo di Pinker e vediamo le sue conclusioni.

Qualunque sia l’interpretazione delle cause, sono profonde le radici e le conseguenze dello storico declino della violenza. Moltissimo dipende da come vediamo l’era in cui viviamo. Siamo in un atroce incubo di crimine, terrorismo, genocidio e guerra? Oppure, alla luce dei fatti storici e statistici, ci troviamo a un livello di coesistenza pacifica senza precedenti in tutta l’evoluzione umana?

È consigliabile, per i portatori di buone notizie, tenere la bocca chiusa, per evitare di spargere blando e inerte ottimismo. Ma questa cautela si potrebbe rivelare arretrata. Scoprire che sono diventate meno numerose le vittime di violenza può contrastare il cinismo dei disorientati lettori di cattive notizie e intaccare la loro convinzione che le parti pericolose del mondo siano immutabili gironi infernali. Una migliore comprensione di come e perché quei numeri sono diminuiti ci può incoraggiare a fare qualcosa per migliorare la situazione di chi soffre invece di cullarci nell’arrogante illusione di essere moralmente superiori.

Quando si comincia a capire il declino storico della violenza, il mondo comincia ad avere un aspetto diverso. Il passato si rivela meno innocente, il presente meno sciagurato. Cominciamo ad apprezzare i piccoli doni di civiltà e coesistenza che ai nostri antenati sarebbero sembrati utopia. Una famiglia interrazziale che gioca tranquillamente nel parco, un umorista che scherza con un potente, paesi che sanno risolvere una crisi invece di aggravare un conflitto.

Pur con tutti gli affanni della nostra vita, con tutte le atroci sofferenze che continuano nel mondo, il declino della violenza è una realizzazione che possiamo intensamente assaporare – e una spinta a tener care le forze di civiltà, umanesimo e illuminismo che l’hanno reso possibile.

*     *     *

Un’elaborazione, necessariamente incompleta, dell’argomento potrebbe riempire più delle ottocento pagine del libro di Steven Pinker. Ma i fatti fondamentali si possono riassumere molto più brevemente.

Possiamo dubitare delle interpretazioni e diffidare delle speranze. Non possiamo credere nella precisione delle statistiche. Ma, anche con tutto il necessario scetticismo sui dettagli, il quadro complessivo dimostra una indiscutibile realtà: la violenza è in declino e la diminuzione sta accelerando.

Una constatazione inaspettata che ci costringe a cambiare prospettiva. Sappiamo che succede, ma non sappiamo perché – probabilmente non lo sapremo mai. Ma non è necessario. Si può agire senza perdersi in disquisizioni.

Lo smarrimento ci potrebbe indurre a due possibili percorsi, contrapposti e ugualmente sbagliati. Cullarci nell’ottimismo e stare inerti alla finestra, aspettando di vedere come si evolve il miglioramento. Oppure affilare le unghie dell’egoismo, per ritagliarci una fetta più ricca del bene che sta crescendo, aggregarci al seguito dei prepotenti, lasciare i più sfortunati nella loro miseria e rinforzare i bastioni del privilegio. E così andare verso un suicidio collettivo.

La via in avanti non è un esiguo ponte fra due abissi. È una strada già larga e percorribile. Ma il percorso si traccia nell’andare, imparando a ogni passo. Abbiamo risorse che erano inimmaginabili anche in epoche storicamente recenti. Abbiamo crescenti capacità di inventare o scoprire nuovi strumenti. Ma rischiamo di essere travolti dalla sconcertante molteplicità del possibile.

Siamo la specie dominante nell’ecosistema e non possiamo rinunciare al nostro ruolo. Che ci piaccia o no, tocca a noi stabilire le regole del gioco. E il continuo declino della violenza dimostra che chi ci ha preceduto è già riuscito a progredire, più e meglio di come ci sembrava.

Come si fa? Non lo so. Mi incuriosisce, più di quanto mi possa spaventare, il compito di impararlo. Un passo per volta, ma con la vista lunga e la mente sempre meglio addestrata ad allargare l’orizzonte e capire l’imprevisto.

Non ho l’arroganza, né l’illusione, di poter “insegnare” come tracciare un percorso. Se un giorno avrò l’impressione di aver scoperto una direzione o un modo di procedere, cercherò di spiegarlo. Ma intanto ci sono quattro cose che mi sento di poter dire a chi ha avuto la pazienza di leggere fin qui.

La prima è che gli strumenti di comunicazione sono contemporaneamente una risorsa e un problema. La quantità aumenta. La qualità degenera. Le esperienze più antiche sono disimparate, le tecnologie più nuove sono ancora immature – e spesso inquinate da presunte novità che complicano fastidiosamente anche ciò che dovrebbe soprattutto essere semplice.

Anche chi, come me, ha imparato in molti anni di pratica il mestiere della comunicazione (in cui ascoltare, capire, imparare, viene prima di dire e fare) rischia spesso di trovarsi disorientato e confuso. Anche il più esperto pescatore di perle deve stare molto attento quando si tuffa in acque torbide e insidiose.

La seconda è che dobbiamo spaccare con risoluta energia il sordido imperio del dio denaro. Non c’è, nei soldi, alcuna maligna potenza. Quando mancano, è sofferenza. Quando ne abbiamo un po’ più del necessario, è benessere. Ma se diventano ossessione la demenza è orribilmente contagiosa. È sempre stato così, anche prima che si cominciasse a coniare monete – ma da trent’anni infuria nel mondo una pestilenza contagiosa che si chiama speculazione finanziaria. Nelle stanze del potere si sta cominciando, con imperdonabile ritardo, a capire il problema, ma gli stregoni dell’economia non hanno ancora trovato un esorcismo efficace per scacciare questo demonio.

La terza (e non meno importante) è che bisogna uscire dal guscio. Fatti non fummo a vivere come tartarughe da giardino o paguri in un acquario. Certo, aprirsi è rischioso, ma addormentarsi nella cantilena dell’ovvio può esporci a pericoli più insidiosi – oltre a farci sprofondare in una palude di noia.

La quarta – e fondamentale – è che occorre mettere al di sopra di tutto le qualità e le risorse che, non per caso, si chiamano “umane”. Va bene anche il concetto di empatia. O solidarietà, o condivisione, o partecipazione. Ma se capiamo il senso più profondo della parola umanità non abbiamo bisogno di altre definizioni.


È online un supplemento su questo tema


Alcune cose che ho scritto su temi “attinenti”

La stupidità del potere – aprile 2002
Eleganza e sobrietà – gennaio 2005
L’eclissi di Darwin – marzo 2005
L’evoluzione dell’evoluzione – gennaio 2006
Lo scorpione e la rana – marzo 2007
Il potere dell’oscurantismo – luglio 2008
Tettontimento – giugno 2011
Viva l’Italia? (si tratta di capire quale) – giugno 2011
Le miserie di Arpagone – agosto 2011
C’era una volta il mercato – agosto 2011
Prostituzione che cosa vuol dire? – novembre 2011
L’arte perversa del piagnisteo – dicembre 2011
Empatia – dicembre 2011
Stupidità e perversità dell’informazione – giugno 2012
Inferni e paradisi (fiscali) – luglio 2012
Ingormazione – agosto 2012
Luci nella notte – ottobre 2012
L’anno migliore di tutta la storia? – dicembre 2012
Umore e psiche – gennaio 2013
La travolgente cavalcata delle bufale – febbraio 2013
Le affascinanti origini dell’umanità – marzo 2013
Capire il mondo per pensare meglio – aprile 2013
La triste estinzione del giornalismo d’inchiesta – aprile 2013
Si va verso la fine della povertà? – giugno 2013
Il potere inesplorato dell’intelligenza – giugno 2013
La violenza contro le donne – agosto 2013
A proposito di banane – agosto 2013
Violenza e crudeltà contro le donne – settembre 2013
Tenerezza un prezioso valore trascurato – settembre 2013
Il contagio della violenza – ottobre 2013
La divulgazione scientifica risorsa preziosa, ma spesso scadente – ottobre 2013
Il ruolo insostituibile della cultura umanistica – novembre 2013


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