Capire il mondo per pensare meglio

Giancarlo Livraghi – aprile 2013

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(migliore come testo stampabile)


Ho sempre pensato che per capire i problemi (e per tentare di risolverli) occorre saper ragionare anche oltre i confini nazionali, geografici, culturali. Lo sto ripetendo, ostinatamente, in varie osservazioni recenti. Ma devo confessare che anch’io sono un po’ sorpreso da questo inaspettato titolo di copertina dell’Economist, 27 aprile 2013.

jobless
Copyright © The Economist 2013

«Generazione senza lavoro». «La crescita mondiale della disoccupazione giovanile». Trecento milioni di giovani jobless e il numero è in aumento.

Mi sento stupido – c’ero cascato anch’io. È vero che il problema è grave in Italia. E non riguarda solo i giovani. Ma mi ero lasciato confondere dal rumore dominante, che tende a descriverlo come una particolare patologia italiana. Invece è una crescente pandemia e va capita come tale.

Naturalmente ogni paese ha i suoi particolari problemi e deve trovare specifiche soluzioni. E così ogni grande o piccola regione, comunità, cultura, settore di studio, di educazione e di impresa. Ma, se è illusorio che ipotetiche “strategie globali” possano magicamente risolvere ogni genere di problemi in ogni angolo del mondo, è altrettanto sbagliato credere che sia possibile uscire dal marasma ragionando e agendo solo su scala locale.

Un esempio: la corruzione. Un male grave in Italia, che è penosamente difficile estirpare. Ma ce n’è molta anche in altre parti del mondo. Se per qualche impensabile miracolo potessimo liberarci delle schifezze nostrane, sarebbe difficile evitare di essere ricontagiati da quelle straniere.

E anche: l’evasione fiscale. Potrebbero andar bene (se fossero applicate con buon senso) verifiche minuziose e “redditometri”. Ma ci vuol altro.

Ci sono migliaia di miliardi nascosti nei cosiddetti “paradisi fiscali”. Recuperarli darebbe una disponibilità di risorse che non risolverebbe del tutto la “crisi economica”, ma ne ridurrebbe molto la dimensione. E infliggerebbe anche un colpo profondo al crimine organizzato.

È impensabile che l’Italia o qualsiasi altro paese (nessuno è immune) possa aggredire questa infezione solo con le sue forze. È indispensabile un’energica collaborazione internazionale. “Qualcosa” si sta cominciando a fare, ma è ancora troppo poco.

Per quanto riguarda la “crisi economica”, non voglio ribadire cose che ho già ripetutamente scritto, ma il fatto è che (mentre ogni paese ha i suoi specifici problemi) non si può risolvere senza estirpare la velenosa radice “globale” della speculazione finanziaria. Nelle stanze del potere europeo e mondiale qualche voce, ancora flebile, sta cominciando a segnalare il problema. Ma non si capisce chi, quando e come si deciderà ad agire.

Si sta diffondendo (con imperdonabile ritardo) la constatazione che dalla fase di “austerità” occorre passare a strategie più costruttive. Cioè non solo rianimare la “crescita”, ma soprattutto badare all’economia reale, ai valori umani e sociali. Il motivo è che la mal gestita “crisi” sta cominciando a mordere in paesi (come la Germania) che si illudevano di essere immuni.

E questo ribadisce la necessità di capire e agire oltre i meschini limiti degli egoismi nazionali.

Ma occorre guardare anche oltre i limiti dell’Europa. Il significato di un altro articolo, nello stesso numero dell’Economist, è efficacemente riassunto in questa immagine. (Il titolo è A transatlantic tipping-point).

ponte
Copyright © The Economist 2013

Un ponte sull’Atlantico. Cioè un’intesa fra gli Stati Uniti e l’Unione Europea. Che sia, come propone l’Economist, un’area di libero scambio, cioè una reciproca riduzione di ostacoli doganali e burocratici – o, come sarebbe meglio, anche una più ampia collaborazione economica, politica e culturale – comunque non dovrebbe essere limitata ai due maggiori contraenti, ma estesa gradualmente ad altri paesi che ne condividono le intenzioni e gli obiettivi.

Non è facile, ma non è un sogno. Occorre capire, dai due lati dell’oceano, che è una necessità. Sarebbe utile anche imparare, se possibile, a condividere una migliore comprensione del resto del mondo.

Egoismi, miopie e nazionalismi sono atrocemente diffusi. Gli apparati (compresi quelli internazionali che dovrebbero lavorare per rendere tutto il mondo più civile) sono troppo spesso intralciati dalle loro inefficienze e dal sabotaggio di chi è (o crede di essere) favorito dallo status quo.

Arrendersi o rassegnarsi (oppure rinchiudersi nell’egoismo) non è solo sbagliato. È pericoloso. Non c’è alcuna turris eburnea che possa dare, anche ai più fortunati, un riparo inviolabile.

I problemi ci sono – e si stanno aggravando. Non mancano le possibilità di risolverli. Non poche risorse tecniche e di metodo sono già disponibili e sperimentate. Altre si possono sviluppare senza insormontabili difficoltà.

Ma (non mi stanco di ripeterlo) occorre un cambiamento di prospettiva. Mettere al centro i valori umani. Badare soprattutto a quella fondamentale, ma difficilmente definibile, realtà che si chiama “qualità della vita”.

Non sono così sciocco da credere che basti un po’ di buona volontà per liberarci dal potere della stupidità e dalla stupidità del potere. Ma ho una sincera ammirazione per le tante persone, in ogni angolo del mondo, che non si limitano a sfogarsi nell’indignazione e nella protesta – o a rinchiudersi nella disperazione. Si impegnano ogni giorno, anche oltre i limiti delle loro responsabilità, per rendersi utili. Lontane dalle ingannevoli luci della ribalta.


Per chi non li ha già letti, alcuni testi precedenti su temi “connessi”.

Le affascinanti origini dell’umanità
La travolgente cavalcata delle bufale
Umore e psiche
2012 l’anno migliore di tutta la storia?
Ingormazione
Inferni e paradisi (fiscali)
Le dimensioni inesplorate della povertà
L’arte perversa del piagnisteo
Uomini e topi
C’era una volta il mercato



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