Il ruolo insostituibile
della cultura umanistica

Giancarlo Livraghi – novembre 2013

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Da parecchio tempo avevo in mente di ragionare sui confusi dibattiti riguardanti le scelte di liceo – più in generale, di studi scientifici o umanistici. Ma intanto sono stato anticipato da una “Bustina di Minerva” di Umberto Eco. Con questo titolo.

Il classico? La scelta migliore


Quando, tanti anni fa, si era trattato di fare la mia scelta, né in me né nella mia famiglia c’era alcun dubbio. La scuola giusta (anche indipendentemente dal successivo percorso universitario) era il classico. Oggi il quadro scolastico è più confuso, ma non ho cambiato idea. E sono contento di aver seguito la stessa strada anche all’università.

A quell’epoca nelle facoltà di lettere e filosofia c’era l’obbligo di inserire materie scientifiche nel il piano di studi. Non mi pento di aver scelto geografia e psicologia. Ma, se potessi tornare indietro, aggiungerei fisica, matematica e biologia. Ovviamente si studiavano nel liceo classico, ma mi sarebbe stato utile portarle a un livello più elevato.

Per altre materie sono riuscito a riempire un po’ il vuoto da autodidatta, continuando a leggere, ascoltare e cercando sempre di approfondire. Ma quello delle “matematiche superiori” rimane, per me, un linguaggio incomprensibile. (Talvolta mi sorge il dubbio che non lo capiscano molto bene neppure i fisici e i matematici, ma quello è un altro discorso).

La mia fortuna è stata avere, fin dall’inizio, buoni insegnanti. E così imparare che il ruolo della filosofia non è la definizione di schemi teoretici, né la ricerca o proclamazione di presunte “verità assolute”. È soprattutto metodologia del conoscere.

Così come lo scopo della scuola, di ogni ordine e grado, dall’asilo infantile ai più avanzati corsi di “perfezionamento”, non è imbottire la testa degli studenti di nozionismi e comportamenti da ripetere a pappagallo, ma addestrarli a capire e ad avere una voglia insaziabile di imparare. Compresa una sistematica coltivazione del dubbio.

Il problema é che più la formazione è tecnica e specialistica, più velocemente diventa inutile. C’è una pestilenziale moltiplicazione di facoltà universitarie con definizioni assurdamente ristrette. Lo scopo dell’insegnamento non è produrre automi capaci solo di seguire l’ultima ipotetica teoria – o tecnica di moda. Deve educare umani consapevoli delle basi di “arti e mestieri”. Che sono sostanzialmente le stesse da secoli e millenni.

In una parola, non c’è educazione che possa funzionare senza cultura umanistica.

È bizzarro che Umberto Eco usi un esempio inadeguato, ma è questa la sua scelta.

«Anche nel mondo della tecnologia, l’avvenire è di chi sappia ragionare in modo da inventare programmi. E si dà il caso che chi abbia fatto una tesi di logica formale, di filologia classica, di filosofia, abbia allenato una mente più adatta a inventare programmi (che sono materia del tutto mentale) di chi abbia studiato come fabbricante di “ferraglia”».

«Naturalmente conosco laureati in ingegneria che sanno inventare ottimi programmi ma che, appunto e guarda caso, hanno anche un’ottima cultura umanistica – e non di rado hanno studiato bene il loro latino e il loro greco al liceo».

«Serve studiare greco per ideare un buon programma per computer? Sì. Perché? Non lo chiedete a una Bustina che dispone di poco spazio. Se non lo avete capito da soli, datevi al contrabbando di droga e vivrete felici e contenti».

A pensarci bene, qualche competenza umanistica serve anche ai criminali. Per meglio incastrare le loro vittime e per non farsi pescare troppo facilmente. Ma soprattutto serve a chi ha il compito di combatterli e prevenirli. Il progresso delle tecniche di indagine è molto utile, ma i fatti dimostrano che non basta se non è gestito con esperienze e competenze di psicologia, sociologia e patologia. Può commettere pericolosi errori e fare gravi danni se non è governato da un’adeguata dose di umanità.

Ed è così in ogni campo di studio, di pensiero e di azione. Non c’è materia umanistica che non trovi nutrimento nella scienza. E viceversa non c’è sviluppo tecnico o scientifico che possa portare a reali progressi senza tener conto de valori umani.

Umberto Eco conclude così. «Italiani, allora, cercate certo di coltivare un poco di più le materie scientifiche, ma vi invito alle “humanitates”: non abbandonate (e non condannate a morte) gli studi umanistici. Il futuro è di chi sappia con mente agile unire quelle che P. C. Snow (che non aveva capito gran che) chiamava le “due culture”, ritenendole irrimediabilmente separate».

Devo confessare che non ho letto le opere di Charles Percy Snow (cioè C.P., non P.C. – i refusi si annidano dovunque). Ma, se ho capito bene, in The Two Cultures and the Scientific Revolution (1959) Snow criticava, non sosteneva, la perniciosa separazione delle humanities dalla cultura scientifica (e viceversa). Sono passati più di cinquant’anni, il problema rimane, si sta continuamente aggravando, è scarsa la voglia di capirlo e sono ancora meno i tentativi di risolverlo.

L’errore di “ragionare alla maniera di Snow” sta nel fatto che le “culture separate” non sono solo due. Ce n’è un numero sempre crescente e “tendente all’infinito”. È vero, abbiamo bisogno di specialisti che sappiano capire, interpretare, gestire anche i più minuti dettagli. Ma è pericoloso perdere di vista la necessità di culture “interdisciplinari”.

C’è una citazione di Aldous Huxley che ho ripetuto parecchie volte, in contesti diversi. Non riesco a evitare di ricordarla anche qui. «Che gli uomini non imparano molto dalle lezioni della storia è la più importante lezione della storia».

È confermata dai fatti di ogni giorno questa preoccupante verità. Ma occorre anche capire che la storia non è solo una materia umanistica. Si basa, necessariamente, su metodi di verifica scientifica. Dalla paziente, mai definitivamente conclusa, esegesi di fonti diverse (e spesso in contrasto fra loro) alla rigorosa verifica di prove “materiali” – già note o recentemente scoperte.

Per esempio resta ancora molto da imparare dal significato storico e culturale di recenti e crescenti scoperte della paleoantropologia. Che non solo estendono la storia a epoche remote (in passato chiamate “preistoria” per la mancanza o scarsità di fonti scritte) ma offrono nuove e straordinarie possibilità di capire sempre meglio le origini, l’evoluzione e l’attuale essenza della natura umana. Siamo agli inizi di questi, davvero innovativi, sviluppi scientifici. Sono affascinanti i molteplici percorsi di ciò che si potrà continuare a scoprire – o interpretare in modo più approfondito.

(Ho già scritto parecchie cose su questo argomento, credo di avere imparato molto, ma la mia unica certezza è che ho capito ancora poco rispetto a ciò che sarebbe possibile apprendere da scoperte che finora non conosco o non sono stato capace di interpretare).

Le dimensioni del “conoscibile” continuano ad allargarsi. Gran parte di un capitolo dei Promessi Sposi è dedicata da Alessandro Manzoni all’ironica descrizione della biblioteca di Don Ferrante. Non era vero, neppure ai tempi in cui si colloca il romanzo, che tutto lo scibile potesse essere contenuto in trecento volumi. Ma oggi le dimensioni sono tali da provocare un inevitabile smarrimento. È impossibile, anche per il più solerte degli specialisti, conoscere “tutto” ciò che è pubblicato, o si può supporre, su qualsiasi argomento. Ma ciò non significa che siamo infinitamente condannati all’ignoranza.

La risorsa più importante è la curiosità. Ci sono spesso piccoli segnali, presto o tardi riconoscibili da un occhio attento, che ci aiutano a capire dove può essere opportuno concentrare l’attenzione per scoprire se c’è qualcosa che merita di essere capito.

La scienza, per sua natura, non ha confini – e ha il perenne dovere di dubitare di se stessa. È così per ogni genere di conoscenza. Non si progredisce cercando discutibili certezze, ma coltivando (non mi stanco di ripeterlo) l’illuminante arte del dubbio.

La sete inesauribile di sapere è una malattia? Sembra di si, dal punto di vista di tanti che preferiscono accoccolarsi nei luoghi comuni, nei pregiudizi, nelle banalità delle opinioni prevalenti. Ma l’umanità sarebbe estinta da millenni se non ci fossero coraggiosi, forse imprudenti, esploratori pronti a correre il rischio di avventurarsi dove nelle antiche carte geografiche si aveva la sincerità di scrivere hic sunt leones. In molti casi sono luoghi della mente, non del territorio – ma non per questo meno insidiosi.

Insomma, se quello che sto scrivendo sembra un elogio della filosofia è perché è proprio questa la mia intenzione. Ma non è un privilegio esclusivo di chi l’ha studiata. L’etimologia di filo-sofia è “amore per il sapere”. Ed è di questo che, soprattutto, si tratta.



Alcune ulteriori osservazioni su questo tema
Adriano Olivetti e la cultura della motivazione

Sugli illuminanti sviluppi della paleoantropologia ho scritto varie volte
per esempio in Le affascinanti origini dell’umanità
e spero di avere altre occasioni per ritornare sull’argomento

Sui problemi della “pubblicazione” accademica e delle riviste specializzate
La divulgazione scentifica

Un elenco di link a parecchie osservazioni
sui difetti e le balordaggini delle tecnologie



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