Offline Riflessioni a modem spento


Blogomania
e altre facezie

novembre 2008



  Giancarlo Livraghi

gian@gandalf.it
 
Per altre osservazioni vedi
altre rubriche online
e tre libri:
  La coltivazione dell’internet  
L’umanità dell’internet
Il potere della stupidità
 


 

 

Disponibile anche in pdf
(migliore come testo stampabile)


Sono passati quarant’anni dalla nascita dell’internet – dieci da quando è diventata, anche in Italia, una risorsa diffusa. Ma si continua a parlarne come se fosse una bizzarra stranezza, una pozione magica o un’infernale stregoneria.

Sono passati due anni e mezzo da quando, rispondendo alle domande di alcuni lettori, avevo scritto quello che penso dei web log, o in breve blog (vedi Blogologia – marzo 2006). Una risorsa fra tante, che si può usare bene o male, che può essere interessante o inutile. L’errore sta (oggi come allora) nel credere che “tutto sia blog” o che un’applicazione esistente da circa dieci anni (esageratamente “di moda” da tre o quattro) abbia potuto cambiare quella che è sempre stata la struttura fondamentale della rete.

Non è interessante occuparsi delle insulse polemiche in corso in questo periodo fra chi dice che “il blog è morto” e chi ne glorifica un enorme successo. Ma alcuni dati di recente diffusione meritano qualche commento.

Con le “opportune riserve” su qualsiasi genere di statistiche, si dice che (in base a un’analisi di Technocrati) i blog nel mondo siano 133 milioni. Quel numero probabilmente è esagerato, ma se fosse attendibile (e se fossero confrontabili dati di fonti diverse) sarebbe impressionante. Si calcola che siti web siano in totale 182 milioni (vedi dati internazionali) e ne dovremmo dedurre che circa sette siti su dieci sono blog – o qualcosa di simile. Ma la situazione non è così semplice. Se si approfondiscono un po’ i dati si scopre un quadro molto diverso.

I blog in cui si è scritto qualcosa “negli ultimi quattro mesi”, secondo la stessa fonte, sono 7,4 milioni – cioè nove su dieci, se non sono in totale abbandono, hanno scarsa e sporadica attività. Dagli stessi dati risulta che sono 1,5 milioni i blog attivi “nell’ultima settimana”. Poco più dell’uno per cento. Un indice straordinariamente basso per qualcosa che dovrebbe essere un diario quotidiano. (C’erano divertenti ironie, negli anni scorsi, su questo tema).

Dalle statistiche sui siti web risulta che sei su dieci, cioè circa 110 milioni, risultano “non attivi”. Benché sia rozzo il confronto su dati di origine diversa, in pratica vuol dire che i siti con nulla o scarsa attività sono in larga prevalenza blog. Una valutazione “ridimensionata” ci dice che i siti web attivi sono circa 70 milioni, di cui i blog sono il dieci per cento (e, dopo un periodo di crescita, ora risultano in diminuzione). Non è poco, ma è lontanissimo dall’essere, come molti sembrano credere, un fattore dominante nella rete.

La qualità dei contenuti è, ovviamente, molto variabile. Ogni tentativo di “quantificarla”, o comunque di generalizzare, sarebbe assurdo. La mia esperienza personale dice che quando cerco qualcosa in rete trovo un po’ di tutto, talvolta accade che sia interessante quello che sta in un blog, ma è un caso abbastanza raro – le cose più utili sono più spesso altrove.

Insomma, come dicevo nelle mie precedenti osservazioni, che ci siano tanti blog non è un problema, va bene che ognuno usi le tecnologie e i metodi che preferisce – ma è sciocco pensare che l’una o l’altra delle tante risorse disponibili sia la più importante nella rete. Insomma teniamoci i blog, quando dove servono, ma speriamo che finisca presto la blogomania. Soprattutto sarebbe desiderabile che la fine di una moda non portasse all’esplosione di altre, ugualmente effimere e mal capite, ma lasciasse finalmente spazio a percezioni più equilibrate e meno confuse.

Non è questa l’unica moda su cui si discute inutilmente. Un’altra, per esempio, è facebook. A me (come a nove su dieci persone che usano l’internet) quella “comunità” non interessa e non ho motivo di usarla. Ma è vero che ha avuto un veloce ed esteso sviluppo. Alcuni ne sono contenti, altri se ne lamentano, con toni variabili dalla noia al fastidio. Probabilmente non dipende da che cos’è, ma da come ciascuno la usa. Le stesse cose si possono dire su altri sistemi che hanno una particolare diffusione in questo periodo.

Interminabili dibattiti sull’argomento sono inutili quanto noiosi. Fra qualche anno sapremo se questa o quella risorsa o abitudine è una moda passeggera, sostituita (chissà quando e chissà come) da qualche altra falena – o se troverà un suo spazio durevole nella rete. Nel quadro generale, è irrilevante.

È successo molte volte, ed è probabile che continui a ripetersi, un fatto che nei modi può sembrare diverso, ma nella sostanza è sempre lo stesso. Le persone entrano nella rete con un particolare comportamento, poi un po’ per volta trovano altre strade. Il percorso iniziale può rimanere, come una cosa fra tante, oppure essere abbandonato. Le mode passano, l’umanità rimane.

Spesso le vaneggianti dissertazioni sui cosiddetti social network dimenticano un fatto fondamentale. Quel genere di comunità è sempre esistito, fin dai tempi in cui non era estesamente disponibile il protocollo TCP-IP (“internet”) e la rete si organizzava con BBS, newsgroup eccetera (o anche con altre risorse – per esempio il minitel in Francia). Come ho detto e scritto infinite volte, ma nel marasma delle chiacchiere è necessario ripetere, la rete non è fatta di macchine, connessioni, software e protocolli. È fatta di persone.

Un mare di discorsi noiosamente inutili, come sempre, riguarda il cosiddetto “commercio elettronico”. Che, oggi si dice, “in Italia non decolla”. La domanda, cui nessuno sembra dare una risposta, è molto semplice: perché mai dovrebbe “decollare”? Di fantastici, rutilanti “decolli” con velocità astronautiche ci sono state troppe azzardate profezie, da circa tredici anni. Immancabilmente seguite da altrettante delusioni.

È desolante che si continui (più nelle chiacchiere che nei fatti) con le sbornie e con i mal di testa che ne derivano. Non è affatto desiderabile che ci sia una crescita improvvisa e improvvisata, con inevitabili errori e insuccessi. È molto meglio (come in queste pagine è stato ripetuto tante volte) una crescita graduale, con continua verifica e sperimentazione (vedi, per esempio, lo schema nel primo capitolo e la spiegazione nel terzo di Le imprese e l’internet). Le smanie delle gatte frettolose erano sciocche quando se ne parlava nel 2000, sono grottesche oggi.

Il problema della fretta è esaminato un po’ più ampiamente nel capitolo 16 di Il potere della stupidità.

Il fatto è che alcune forme di “commercio elettronico” si sono sviluppate. Un ovvio esempio è la vendita online di libri, che da tredici anni ha un solido sviluppo negli Stati Uniti e in altri paesi – e che sta cominciando a consolidarsi anche in Italia. Un altro è il settore viaggi, considerato fin dalle origini come una delle più interessanti possibilità, in realtà cresciuto molto più tardi (in particolare per l’offerta di biglietti aerei a basso costo) e recentemente andato in crisi per una proliferazione di servizi poco affidabili e di cattiva gestione dei pagamenti fra gli operatori in rete e le linee aeree.

Ci sono molti altri esempi in diverse aree, ma in tutti i casi il concetto fondamentale rimane lo stesso: per costruire un sistema di relazioni e di fiducia ci vuole tempo, pazienza e attenta sperimentazione. E nessuna tecnologia può sostituire un serio impegno umano e una continua attenzione alla qualità del servizio.

Non varrebbe la pena di ritornare su La bufala di web 2.0 se quella bizzarra definizione dell’inesistente, benché passata di moda, non continuasse a ricorrere qua e là (sempre in assenza di qualsiasi plausibile definizione di che cosa sia).

Oltre a concetti poco chiari, continuano a circolare anche numeri privi di senso. Un esempio fra tanti: il 27 agosto 2008 un’intera pagina del Corriere della Sera era dedicata a una notiziola abbastanza interessante, il collegamento alla rete dei monaci eremiti del Monte Athos. In quell’articolo comparivano, con grande evidenza, due dati.

Uno era il numero di persone online nel mondo: 1,5 miliardi. Come quasi sempre, i dati di quel genere sono esagerati. Ma questo non è del tutto privo di senso. Una stima di circa un miliardo può essere credibile (mentre rimane il doloroso fatto che sono cinque miliardi le persone ancora escluse dalla rete, come da altre risorse di informazione e comunicazione).

L’altro era il numero di cose chiamate “snodi” (una traduzione abbastanza accettabile di host – ma con una definizione sbagliata). Diceva che sono 600.000 – e mancavano tre zeri. Il numero è vicino a 600 milioni (vedi dati internazionali).

Naturalmente è solo una distrazione. Può capitare a tutti un refuso o un lapsus calami. Ma è “sintomatico” che nella redazione di un grande quotidiano nessuno si sia accorto di un errore così evidente. E questo è tutt’altro che un caso isolato. La tendenza a “dare i numeri” senza alcun controllo, come notizie più o meno sensazionali senza capirne il significato, è diffusa su ogni sorta di argomenti – ma con particolare frequenza quando si tratta della rete.

Una raccolta di esempi di questo genere potrebbe riempire parecchie pagine. Fra i più clamorosi c’era un articolo pubblicato da L’espresso il 7 dicembre 2006, con il “sensazionale” titolo Sei miliardi di avatar, dove gli zeri erano quattro o cinque in più – incautamente ripreso, all’epoca, anche da altre testate. (Vedi Dare i numeri e La bufala degli avatar).

Vent’anni fa si parlava di “ciberspazio”, due o tre anni fa di “blogosfera”. C’è chi insiste ancora oggi nell’uso di quelle insulse terminologie, sono ricorrenti le fantasie su ipotetici “mondi virtuali” – eccetera. Resta da vedere quali altre strampalate sciocchezze si inventeranno per descrivere la rete (o qualche sua parte) come un mondo alieno popolato da strani umanoidi. Non sono ancora abbastanza forti gli antidoti dell’esperienza reale, da cui si impara che non c’è alcuna sostanziale differenza fra l’umanità in rete e la natura umana come la conosciamo da migliaia di anni.

Anche su questo argomento ho scritto molte cose (compresi interi libri) che ho cercato di riassumere in un articolo pubblicato nel novembre 2008: L’arte della comunicazione, così nuova e così antica – per spiegare come il “nuovo” sia molto più comprensibile se teniamo conto di quello che abbiamo imparato in millenni di storia dell’umanità. Un’altra sintesi, in una prospettiva un po’ diversa, si trova in La riscoperta della comunicazione (ottobre 2006).

Il fatto fondamentale è che molti dissertano sull’argomento senza avere un’idea chiara di che cosa sia la rete. Alcuni confessano sinceramente di non averne alcuna esperienza (ma non per questo rinunciano a pontificare su ciò che non sanno). Altri forse hanno un po’ di pratica, ma la loro incapacità di capire si rivela in espressioni insensate come «ho letto su google» o «l’opinione del web» o svariate altre che sembrano innocui “modi di dire”, ma rivelano percezioni ostinatamente sbagliate di che cos’è l’internet e come funziona.

È diffusa anche la sciocca abitudine di parlare di “popolo della rete” o in altri modi pensare che ci sia, online, un’umanità diversa. È vero che l’Italia è ancora arretrata, per numero di persone online, rispetto ai paesi più evoluti (vedi dati italiani). Ma ormai, anche da noi, la rete non è più “per pochi”, è una risorsa disponibile a (quasi) tutti – e usata da ogni persona in modo diverso, secondo le sue esigenze, tendenze e curiosità.

È vero oggi, più che mai, che ognuno può farsi una rete su misura. Ed è desiderabile che tutti ci riescano, perché l’infinita varietà delle scelte e delle esperienze è una delle più grandi ricchezze dell’internet – come, da sempre, del genere umano.


ritorno all'inizioritorno all’inizio

 




indice
indice della rubrica


Homepage Gandalf
home