Universita di Pavia


Università degli Studi di Pavia
CIM-ECM
Inaugurazione dell’anno accademico 2006-2007


La riscoperta
della comunicazione


Giancarlo Livraghi
 
2 ottobre 2006


Disponibile anche in pdf
(migliore come testo stampabile)


Il testo è qui per altri lettori più che per gli studenti.
Perciò la premessa sull’università è spostata alla fine.



Mi è stato chiesto perché il titolo di questi ragionamenti è “la riscoperta della comunicazione”. I motivi sono due. Uno riguarda il periodo in cui ci troviamo. L’altro, più in generale, il valore dell’approfondimento storico.

Si predica, si dichiara, si proclama che siamo “nell’era della comunicazione”. Che cosa si intenda dire è tutt’altro che chiaro. Se qualcuno di voi verrà a una delle tre lezioni che seguiranno, avremo modo di approfondire l’argomento. E anche di dialogare (oggi non è possibile, ma in altre occasioni cerco sempre di avere spazi di dibattito). Ma intanto vorrei riassumere alcuni aspetti del problema.

Siamo in un periodo di decadenza. All’enorme aumento della quantità di comunicazione non corrisponde un progresso della qualità. Anzi molte cose sono peggiorate. Naturalmente la “buona” comunicazione esiste, ma è sommersa da un’inondazione di cose scadenti.

Se questo è vero della comunicazione in generale, lo è ancora di più nella comunicazione d’impresa. Ciò che avevamo imparato trenta o cinquanta anni fa oggi è largamente dimenticato. Da circa venticinque anni c’è un’involuzione che è in buona parte prodotta da uno stato di disorientamento delle imprese, travolte dal predominio della finanza e della speculazione, tanto da perdere il senso e il valore della loro identità. Naturalmente non “tutte” – alcune sono rimaste coerenti e consapevoli (e infatti sono in ottima salute). Ma il quadro generale è deformato in un modo che ha già provocato molti problemi e, se non si ritrova la bussola, può fare danni ancora peggiori.

È ovvio che la “cultura dominante” ammetta malvolentieri questa realtà – e che gli “addetti ai lavori” cerchino di nasconderla. Ma i falsi ottimismi di maniera tendono a peggiorare la situazione. Da questi malanni è possibile guarire, ma il primo passo per una terapia efficace è una diagnosi chiara e severa.

L’altro motivo per cui si tratta di “riscoperta” è che la comunicazione è antica come l’umanità. Potremmo dire che la vita, in tutte le sue forme, è comunicazione. Ma non è questa la sede per un ragionamento così allargato. Limitiamoci a constatare che senza comunicazione non esiste alcun essere umano e alcun genere di umana società.

Se dovessimo capire tutto in base solo alla situazione di oggi, alla crescente molteplicità degli strumenti, eccetera, l’impresa sarebbe ardua. Ma abbiamo un vantaggio: le lezioni di migliaia di anni di storia – e anche di una più lunga “preistoria” che i continui sviluppi dell’antropologia ci aiutano a capire sempre meglio.

Il mondo è cambiato e continuerà a cambiare (in modi, in buona parte, imprevedibili). Ma la natura umana non si modifica in mille o diecimila anni. Molti insegnamenti, di profonda attualità, si trovano in autori e testi di duemila o cinquemila anni fa. Molte cose dell’oggi e del domani (perfino lo sviluppo delle tecnologie) si capiscono meglio osservando ciò che accadeva ai tempi delle caverne o delle palafitte.

Insomma si tratta di ritrovare le radici. Quelle di un mestiere in parte dimenticato. E quelle di una cultura umana che occorre capire nelle sue caratteristiche fondamentali prima di badare alle risorse che ci offrono i mezzi di comunicazione di cui disponiamo.

Ora che siamo entrati nel tema della comunicazione, prima di tutto vorrei stabilire un concetto fondamentale. La comunicazione non è un “accessorio”. Non è un momento separato nella vita e nell’esistenza di una persona o di un’organizzazione. Non è solo un ruolo separato di un reparto o di una funzione. Esistere è comunicare.

È purtroppo diffuso, e disgraziatamente praticato, il falso concetto che la comunicazione possa essere un mondo a parte. Che si possa proiettare una “immagine” che vive di vita propria, sconnessa dall’identità di una persona, di un’impresa o di qualsiasi organizzazione. Questo può essere vero per chi vive nel mondo dello spettacolo, dove il personaggio ha un’identità diversa da quella della persona che lo interpreta. Ma in tutte le altre circostanze è una falsificazione e può produrre ogni sorta di danni.

L’incoerenza fra ciò che si è e ciò che si vuol far credere di essere non è solo un inganno. È anche una pericolosa distorsione. La comunicazione è tanto più efficace quanto più è coerente. Se i comportamenti e le relazioni (nonché, ovviamente, i prodotti e i servizi) sono in sinergia con tutto ciò che si fa e si dice, la qualità e l’efficacia della comunicazione si moltiplicano. Se sono in distonia, non solo si ottengono risultati più deboli, ma si possono produrre danni gravi e difficilmente rimediabili.

Sto dicendo qualcosa che somiglia all’etica? Ebbene si. L’etica non è di moda (oppure lo è nelle parole, ma non nei fatti). Si tratta di capire che fra etica ed efficacia, fra correttezza e profitto, non c’è alcuna contraddizione di base. In qualche situazione stanno riemergendo parole come responsabilità, affidabilità, fiducia. Speriamo che non restino nel mondo delle “buone intenzioni”. Molte esperienze dimostrano che costruire rapporti di fiducia (e comunicare con correttezza e coerenza) significa sviluppare capitali di immenso valore. Che si misurano in rapporti umani, non in quotazioni di borsa. Ma possono produrre grande e crescente ricchezza – anche economica.

Un altro fatto importante è che la comunicazione è un insieme. Consiglio a tutte le persone che vogliono fare questo mestiere (o comunque capire come funziona la comunicazione) di studiare almeno i concetti fondamentali della percezione. E, in sintonia con ciò che ci insegnano psicologia e fisiologia, di conoscere la teoria della Gestalt – che Giacomo Devoto spiegava così:

Ogni percezione si presenta all’esperienza come un tutto unico, una struttura definitiva avente una sua “forma” individuale, che è impossibile comprendere attraverso una sua scomposizione in una serie di elementi giustapposti. Non ha valore ognuna delle parti costituenti un’opera esaminata nella sua fase analitica, ma ha valore unicamente l’insieme, il quale è sempre superiore alla somma degli elementi che lo compongono.

Qualcuno esprime il concetto in modo più sintetico: «il tutto è superiore alla somma delle parti». L’importante è capire che la comunicazione è un insieme. Le sintonie la rafforzano, le distonie la distruggono. Ma non solo. È vero anche che la comunicazione non “cade nel vuoto”. Chi la riceve la elabora, la interpreta, la colloca nel contesto di ciò che sa, che sente, che percepisce anche da altre fonti. Ciò che il destinatario riceve è sempre qualcosa di diverso da ciò che qualcuno gli sta comunicando. E quella che conta è la comunicazione all’arrivo – non alla partenza.

Il fatto è che la comunicazione non è mai la stessa. E non è mai un soliloquio. Vive solo quando c’è un interlocutore. Che (anche quando non reagisce consapevolmente) non è mai del tutto passivo.

Un quadro che nessuno guarda è un pezzo di tela imbrattata. Una musica che nessuno suona o ascolta è qualche segno su un foglio – o un pezzo di plastica, o una memoria inerte in un dispositivo elettronico. Un libro che nessuno sta leggendo può essere, per un inguaribile bibliofilo come me, un oggetto piacevole da avere. Ma non vive se non nel momento in cui qualcuno lo legge (o ne ha in mente qualche cosa, anche quando non sa più dove l’ha letta o non ricorda chi fosse l’autore).

Ma c’è di più. Un quadro, un libro, una musica eccetera non sono mai uguali. Ogni volta che qualcuno guarda, legge o ascolta nasce qualcosa di nuovo, unico e inimitabile. La complessità e la molteplicità della comunicazione sono infinite.

La comunicazione non è mai un soliloquio. È sempre un dialogo. L’importante è saper ascoltare. Cosa che non sempre sappiamo fare bene. Dobbiamo esercitarci, prestare attenzione, migliorare il più possibile la nostra capacità di capire.

Come si fa, quando non si tratta di un dialogo personale, ma di qualcosa che sarà letto, visto o ascoltato da qualcuno che non conosciamo? Ci sono molti modi – anche (più o meno raffinati) metodi di ricerca e di verifica. Ma non sostituiscono il buon senso, l’attenzione, l’impegno personale, la voglia di capire e di conoscere.

Anche in assenza di strumenti specifici, molto si può imparare con l’esperienza, molto si può migliorare cercando sempre di “metterci nei panni” dell’interlocutore, guardare la comunicazione dal punto di vista della persona cui è destinata. Pensandola sempre come un essere umano, non come un numero statistico o un’indistinta moltitudine. Ovvio? Forse, in teoria. Ma in pratica... gran parte della comunicazione che si vede in giro sembra venire da gente dedicata a “parlarsi addosso” e un po’ troppo innamorata della propria voce.

Prima di concludere vorrei parlare di altri tre argomenti. La cosiddetta “creatività”. Il valore dell’estetica. E l’importanza del mestiere.

Di “creatività” si parla, si straparla e si farnetica in modo così confuso e deviante che sarei tentato di proporre l’abolizione di quella parola dal vocabolario. Sarebbe comico, se non fosse deviante, che possano esistere persone il cui mestiere è definito “creativo”.

La creatività esiste, ma è un’altra cosa.

Ci sono persone che in tutta la loro vita hanno avuto una sola grande idea “creativa” – ma con quella hanno cambiato la storia dell’umanità. D’altro canto, ognuno di noi può talvolta essere “creativo”. A tutti noi (senza bisogno di essere un “genio”) può capitare di trovare una soluzione semplice e funzionale cui prima non si era pensato. Che siano “grandi” o “piccole” idee, c’è una costante: ciò che sembra un’intuizione improvvisa ha quasi sempre radici in un lungo apprendimento. Che si basino su studi profondi o solo sull’esperienza pratica, le soluzioni non nascono dal nulla.

Alcune persone possono essere più “portate” di altre a trovare sintesi intuitive. Quella dote può essere chiamata “creatività”. Ma è un termine da usare sempre con molta prudenza, senza arroganza – e senza l’assurda pretesa che possa esserci qualcuno capace di produrre “creatività” a comando su qualsiasi cosa e in qualsiasi momento.

Quando nasce davvero un’idea che si possa definire “creativa”, è quasi sempre un’esperienza emozionante. E dà un piacere che si percepisce come bello, attraente, armonioso (come si può constatare anche nello sviluppo della ricerca scientifica).

Con questo siamo arrivati a parlare di estetica – un altro concetto che mi sembra utile cercare di chiarire. Da alcuni anni si sta sviluppando in giro per il mondo (in particolare negli Stati Uniti) un pensiero per ora confuso, ma potenzialmente interessante. La necessità di dare più valore ai fattori estetici.

Questa idea diventa facilmente deviante se l’estetica si concepisce come un cosmetico, qualcosa di aggiunto o separato. Come per la comunicazione, si tratta di capire che l’estetica “non è un accessorio”.

Certo: un’automobile piace di più se, oltre a funzionare bene, ha anche un bell’aspetto. Qualsiasi oggetto può essere più desiderabile se, oltre a fare ciò che deve nel miglior modo possibile, è anche piacevole alla vista – e, se lo teniamo in casa o in ufficio, contribuisce all’arredamento. Un buon cibo è più gradevole se servito su una tavola bene imbandita. Eccetera. Ma il concetto più importante è molto più profondo.

Estetica e funzionalità possono vivere in una fertile simbiosi. Una progettazione intelligente, un autentico design, unisce ergonomia e armonia estetica in modo coerente e reciprocamente attivo, come due aspetti inseparabili della stessa cosa. E così è sempre stato, fin dalle origini di ogni forma d’arte e di tecnologia. (Si potrebbe citare, a questo proposito, l’attualità del “classico” concetto greco kalòs kai agathòs, “bello e buono”. Ritorneremo su questo tema in una delle prossime lezioni).

Pensiamo, per esempio, all’architettura e all’arredamento. Una casa bella, ma scomoda, è invivibile. Una casa comoda, ma brutta, è sgradevole. L’architettura, fin dalle sue più remote origini, ha sempre avuto il compito di unire bellezza ed efficienza, piacere estetico e funzionalità. Le Corbusier diceva che una casa è “una macchina per abitare”. Ma si sarebbe profondamente vergognato se nel progettare una di quelle macchine l’avesse fatta “brutta”.

Si può parlare di “architettura” in ogni sorta di cose. Farlo bene è quasi sempre una buona idea. Ed è utile anche pensare al giardinaggio e alla coltivazione. Per quanto valida possa essere, all’origine, un’idea, non basta che sia nata. Deve potersi evolvere e sviluppare. Per farla crescere bisogna trattarla come una cosa viva, capire e assecondare la sua natura. Cioè saperla coltivare.

Un approfondimento su questo tema potrebbe essere lungo. Ma spero che possa bastare lo stimolo che viene da un concetto semplice. Quando la funzionalità si unisce intimamente con l’estetica, ne nasce una qualità molto più alta.

E infine... dovremmo ridare tutto il valore e la dignità che merita al concetto di “mestiere”. All’epoca in cui nasceva l’Alma Ticinensis Universitas, avevano un ruolo importante cose chiamate “arti e mestieri”. Motori fondamentali della cultura, del progresso, della tecnologia – e dell’economia. Non è un caso che la parola “arte” e la parola “mestiere” stessero insieme.

Oggi, come allora, o forse più di allora, mi sembra fondamentale dare un ruolo importante al mestiere. Che anche con le più raffinate tecnologie rimane una qualità “artigianale”. La “creatività” senza mestiere è onanismo. Il mestiere ben imparato e ben praticato può produrre un’ottima qualità in ogni cosa (in particolare nella comunicazione) con un efficace equilibrio di funzionalità e di estetica.

Se c’è qualcosa di “creativo” (cioè un reale “salto di qualità”) è ancora meglio. Ma nella stragrande maggioranza dei casi un serio e consapevole mestiere è più che sufficiente per dare ottimi risultati. Come diceva Thomas Edison: «one percent inspiration, 99 percent transpiration». Non è necessario sudare. Ma imparare bene il mestiere e applicarlo seriamente è indispensabile.





Su questo argomento vedi anche
La strategia
Il (tentato) suicidio del marketing
La comunicazione non è un accessorio
Arte, mestiere e creatività
L’architetto e il giardiniere
Eleganza e sobrietà
Il problema dell’idolatria
E se l’etica tornasse di moda?
L’evoluzione dell’evoluzione




Questa è la premessa
che in sede universitaria si trova all’inizio

 
Oggi è un giorno un po’ speciale. Per voi è l’inizio di un percorso di studio. Per me è un’esperienza nuova. Ovviamente non è la prima volta che parlo in un’aula universitaria – ma finora non mi era mai stato chiesto di “inaugurare” un anno accademico. Perciò (oltre a ringraziare l’Università di Pavia per avermi affidato questo incarico) vorrei cominciare con qualche breve commento a proposito di studi, lauree e facoltà.

“Alma Ticinensis Universitas”. La solennità mi mette quasi in imbarazzo. Ovviamente chiunque potrebbe buttar lì un po’ di latino. Ma qui la cosa è seria. Una delle più antiche università del mondo. Esiste da più di mille anni. E ancora oggi è fra le più serie, stimate e rispettate. Cosa che (scusatemi la franchezza) non si può dire di tutte le università che ci sono in giro.

Mi torna alla memoria un tempo lontano, quando ero studente nella “consorella” milanese. Con la fortuna di avere alcuni ottimi insegnanti, cui ancora oggi devo molto. Siete fortunati di essere qui – e bravi perché avete scelto una scuola impegnativa come questa. Conosco alcuni dei vostri insegnanti e so che vi aiuteranno molto. Non conosco gli altri, ma penso che siano altrettanto validi.

Devo confessare che sono piuttosto perplesso su ciò che sta accadendo in tutto il mondo della scuola – e in particolare nelle università. Proliferazione di istituti e di facoltà. Diffusione di “trucchi” per ottenere un “titolo” senza studiare. Invenzione di materie “specialistiche” con caratteristiche poco chiare. Moltiplicazione di cattedre. Basta un semplice calcolo aritmetico per capire che ci sono molti più insegnanti di quante possano esserci persone capaci di insegnare qualcosa.

Non voglio annoiarvi con le (troppe) occasioni in cui ho potuto constatare che si insegnano sciocchezze, che ci sono laureati senza preparazione, che ci sono studenti preoccupati perché si accorgono di non imparare ciò che sarebbe utile. Eccetera.

Essere in una università seria, con buoni metodi e buoni docenti, ovviamente è un vantaggio. Ma non basta. La qualità dello studio è determinata soprattutto dallo studente. Sta a voi trarre il massimo beneficio da ciò che l’università vi può dare – ma non solo. È importante andare oltre, sviluppare conoscenza anche fuori dall’ambito accademico, avere sempre un’insaziabile curiosità.

Ciò che conta non è il “pezzo di carta” o il “titolo di studio”. È il patrimonio di conoscenze che si costruisce dentro ognuno di noi – e che possiamo continuare ad arricchire per tutta la vita. Non si finisce mai di imparare.

Socrate diceva: «più so, più so di non sapere». Si può sempre imparare da tutto e da tutti. Dai libri più profondi e illuminanti come da ogni piccola esperienza quotidiana. Ciò che conta è il desiderio di imparare, la voglia di capire – e la capacità di ascoltare.




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