labirinto
Il filo di Arianna


maggio 2005

Giancarlo Livraghi     gian@gandalf.it



Arte, mestiere e creatività


Alcune recenti esperienze mi hanno insegnato che sta diventando sempre più difficile ragionare in modo chiaro e comprensibile sul tema della cosiddetta “creatività”. L’argomento è contorto, confuso, incoerente. Spesso le percezioni (e le dissertazioni) sono devianti. Più si discorre e si discute sulla “creatività”, meno si capisce che cosa sia.

Ma, se chi mi ascolta o mi legge non capisce, la regola fondamentale della comunicazione mi impone di chiedermi perché non mi sto spiegando bene. Eccomi perciò a tentare di definire alcune premesse.

Tre anni fa, nel primo articolo di questa rubrica, dicevo che se non funziona non è creativo. Più tardi (novembre 2002) ero ritornato sull’argomento osservando che siamo malati di manierismo. Ma credo che sia opportuno fare un passo indietro – e chiederci come sia possibile che la creatività sia considerata un mestiere.

La parola “creatività” è usata così largamente, e in così tanti modi diversi, che sembra aver perso ogni significato. (Talvolta assume un senso perverso – basta pensare, per esempio, all’uso di un’espressione come “finanza creativa”). Fra le tante distorsioni c’è l’ipotesi che il mestiere di una persona possa essere definito “creativo”. Mi scuso per l’autocitazione, ma cade a proposito una cosa che ho detto e scritto più di una volta (per esempio in un articolo di dieci anni fa).

Ho sempre considerato un po’ comica la definizione “creativo”. Se qualcuno chiedeva a Michelangelo, Mozart o Einstein “che cosa fai” si sentiva rispondere scultore, musicista o fisico. Non “creativo”. Per quanto ambiziose, parole come “scrittore” o “pittore” hanno un suono onesto, artigianale. Chiamarsi “creativo” non è un segno di creatività.

La creatività non è un mestiere. È una risorsa importante, ma non si può produrre o riprodurre a comando. Per capire la situazione in modo più realistico e funzionale, credo che sia venuto il momento di riscoprire un concetto antico, ma più che mai di attualità.


Arti e mestieri

Si può usare con disprezzo un aggettivo come “mestierante”. Ma è importante capire il valore e l’importanza della parola “mestiere”. Non è un caso che il più interessante sito web italiano a proposito di scrittura, quello che Luisa Carrada pubblica con impegno e passione dal 1999, si chiami orgogliosamente Il mestiere di scrivere. Ricorda quel chiaro percorso, nello sviluppo della cultura italiana e mondiale, che è stato tracciato all’insegna delle gloriose “arti e mestieri”.

Il talento può essere un dono naturale, ma perché dia frutti ci vuole molta disciplina. Un’ispirazione può venire dalle Muse (che spesso si manifestano in forme inaspettate – meno solenni di come le propone la mitologia). Un’intuizione risolutiva può nascere in modo imprevedibile. Ma è il mestiere che le rende realizzabili. Da tempo immemorabile si parla di “arti e mestieri”. Perché in quasi tutti i mestieri c’è qualcosa di artistico – e perché nessuna arte è realizzabile senza un solido e competente mestiere.

Sarà difficile, temo, cambiare la sciocca terminologia oggi in voga. Ma è importante capire che l’arte e il mestiere contano molto – e possono produrre eccellenti risultati, con o senza quei rari e straordinari momenti di intuizione o di innovazione che portano a qualcosa di veramente “creativo”.


Che cosa vuol dire “originale”?

Il dizionario Devoto-Oli definisce così “originale”: «caratterizzato da una notevole indipendenza dalla tradizione o dall’esempio, e quindi da una peculiarità e novità pregevole». Ma osserva che «l’idea di peculiarità e novità può decadere fino a indicare “bizzarria”». Molte cose definite “originali” sono solo decadenti e insulse bizzarrie (come molte cose chiamate “creative” sono banali e noiosi manierismi).

Apparire “diversi” è un modo per farsi notare. In una situazione in cui tutti sono vestiti di verde, una persona vestita di rosso è più visibile. Ma non è detto che sia un vantaggio. La visibilità non è tutto – e, quando è “fine a se stessa”, può fare molti più danni della labile notorietà che può ottenere per un fragile momento. La coerenza, l’attinenza, la chiarezza di identità sono molto più importanti di una superficiale “originalità”. Se un’idea è davvero forte, per affermarsi non ha bisogno di orpelli o di travestimenti.


Estetica e funzionalità

Tutto questo non vuol dire che l’estetica sia irrilevante. Se i contenuti della comunicazione sono deboli o male organizzati, nessun “trucco” cosmetico li può salvare. Ma non esiste comunicazione o percezione umana senza componenti emotive – che diventano “artistiche” quando sono consapevolmente realizzate per comunicare meglio. Estetica e funzionalità sono parti indissolubili di un insieme. Se una funzionalità è antiestetica e sgradevole vuol dire che è mal concepita. Se ciò che sembra estetico non è funzionale non merita di essere definito “bello” (e ancora meno “creativo”).

Quelle teorie che separano l’emisfero destro e sinistro del cervello sono grossolane e devianti. Lasciamo agli scienziati il compito di approfondire come la struttura dei lobi cerebrali sia molto più complessa e meno banale. Ciò che conta, in questa sede, è capire che emozione e ragione non sono separabili. La percezione è un insieme e deve essere capita come tale. Una comunicazione efficace deve soddisfare le esigenze del pensiero razionale e, al tempo stesso, quelle del gusto e del sentimento. Se manca l’una o l’altra componente, o se sono in disarmonia, ne nascono disagi e incoerenze che possono compromettere gravemente il risultato.


Comunicazione e “gradimento”

È dimostrato nell’arte, nella cultura, nello spettacolo, eccetera, che non sempre il “gradimento” è una misura efficace di qualità. Una comunicazione gradevole e gradita, simpatica e condivisa, può avere più successo di una meno attraente. Ma ciò non significa che il gradimento sia l’unica, o la principale, qualità in un’opera artistica o culturale – come di ogni altra forma di comunicazione, notizia o manifestazione del pensiero.

Occorre anche ricordare, anche a questo proposito, che la comunicazione è un insieme. Cambiarne una parte (anche quando può sembrare un dettaglio) ne modifica il senso complessivo. Una presenza attraente o “gradevole”, ma estranea al contenuto che si vuole trasmettere, può trasformarsi in un “vampiro”: attirare su di sé l’attenzione a scapito di ciò che si vuole comunicare. Oppure sfasare e confondere la percezione.

Una tentazione opposta, e altrettanto sbagliata, è quella di essere “sgradevoli” per il gusto di esserlo. Cercare la “provocazione” quando non serve, essere irritanti per richiamare l’attenzione. Fastidiose e arroganti villanie di chi non ha alcuna capacità di essere “creativo” e non conosce bene l’arte (e mestiere) della comunicazione.

Va ricordato, tuttavia, che le innovazioni possono essere sgradite e ostacolate quando si scontrano con una cultura impreparata a capirle. Non è facile distinguere fra una sciocchezza che devia senza motivo dalla strada del buon senso – e un fertile approfondimento che sembra strano solo perché contrasta con le abitudini e con i pregiudizi (e perciò è “originale” nel senso più valido della parola). Questo è uno dei motivi per cui si definiscono “creative” cose che non lo sono, mentre l’autentica creatività non è sempre capita e apprezzata come merita.


Come nasce un’idea?

Tutti possono essere, qualche volta, “creativi”. Nessuno lo può essere sempre, né diventarlo a comando. I migliori maestri, nelle arti e nei mestieri, sono quelli che sanno come incoraggiare, stimolare e governare quel processo intuitivo che porta a una soluzione inaspettata. Ma senza mai dimenticare quella finezza di progettazione e di realizzazione che viene da un grande e prezioso patrimonio di esperienza.

David Ogilvy diceva: «non avete alcuna probabilità di avere una buona idea se prima non “fate il compito”, analizzando a fondo l’argomento. Ho sempre trovato molto noiosa questa parte del lavoro, ma è insostituibile». E poi spiegava: «potete “fare i compiti” fino al giorno del giudizio, ma non avrete un grande successo senza una “grande idea”. Le “grandi idee” vengono dall’inconscio. Questo è vero nell’arte, nella scienza come in ogni forma di comunicazione. Ma l’inconscio deve essere bene informato, se no l’idea sarà irrilevante. Imbottite di informazioni la vostra mente inconscia, poi staccate i collegamenti del vostro pensiero razionale. Potete favorire questo processo facendo una passeggiata, o un bagno caldo, o bevendo una bottiglia di barbera. Improvvisamente, se la linea telefonica con il vostro inconscio è funzionante, la “grande idea” si sveglierà dentro di voi».

Non sempre le idee vengono dall’inconscio – ma nel processo da cui nascono c’è una componente intuitiva. Non sempre le idee forti sono appariscenti o superficialmente “brillanti”. Possono essere poco vistose – ma l’importante è che siano rilevanti.

Come si fa a capire se si è arrivati a un’idea? Non è difficile come può sembrare, perché è un’esperienza emozionante (e, per chi la conosce, inconfondibile). Le idee migliori sono spesso molto più semplici di tutto ciò che si era immaginato prima. Quando l’idea sboccia, sembra ovvia – e ci si chiede perché sembrasse così difficile trovarla. (Vedi L’arte difficile della semplicità).

Ma è illusorio sperare che un’idea valida, o un momento di autentica creatività, spunti casualmente dal nulla. C’è un lungo e profondo lavoro di preparazione per arrivare al punto in cui la sintesi risolutiva emerge in modo apparentemente spontaneo.


Il brutto anatroccolo e la Venere del Botticelli

Ricorre quest’anno il bicentenario della nascita di Christian Andersen. La sua bella fiaba del “brutto anatroccolo” merita di essere ricordata. Prima che un’idea prenda il volo occorre capirla – e anche saper riconoscere il potenziale di qualcosa che, a prima vista, non sembrava così straordinario. Se la disciplina e l’approfondimento sono importanti per favorire la nascita di un’idea, lo sono altrettanto nella continua attenzione che deve accompagnarla dal suo primo vagito fino al pieno sviluppo.

In un manuale interno di una grande impresa internazionale (Unilever procedure for great advertising) è stato scritto: «Poche veramente grandi idee emergono pienamente formate e bellissime come Venere da una conchiglia nel dipinto di Botticelli... Anche quando una campagna è cominciata, possono occorrere raffinamenti... Le idee richiedono, e meritano, investimento di tempo e pazienza per farle crescere». Non è un caso che citasse un quadro del Rinascimento italiano. Ed è evidente che il concetto vale per ogni forma di “creatività” – che si tratti, come in questo caso, di pubblicità oppure di qualsiasi altra attività umana. (Anche quando non si sta consapevolmente gestendo un progetto di comunicazione, si sta sempre comunicando qualcosa. Nessuna persona od organizzazione può esistere senza comunicare).

Una caratteristica frequente fra le persone che hanno autentiche capacità “creative” è una notevole dose di pignoleria. Ogni dettaglio, anche apparentemente secondario, può contribuire allo sviluppo efficace di un’idea – oppure, se trascurato o incoerente, comprometterne l’evoluzione e i risultati.

Il buon mestiere, anche senza molta fantasia o innovazione, può produrre una qualità più che soddisfacente. Un’ipotetica “creatività” spontanea, disordinata e presuntuosa, raramente produce idee vitali – e se per caso ne generasse una non saprebbe come farla crescere, per mancanza di arte e di mestiere.


L’arte sapiente della coltivazione

Nello sviluppo di un’idea (nella scienza come nell’arte – e in ogni attività di comunicazione) ci sono forti componenti artigianali che nessuna risorsa tecnica può sostituire. E ci sono anche comportamenti e attenzioni che somigliano molto all’agricoltura – o al giardinaggio.

Di questo argomento avevo parlato in un articolo del novembre 2002 L’architetto e il giardiniere. In quel testo mi riferivo specificamente ai siti web. Ma gli stessi criteri valgono per ogni genere di comunicazione.

Anche quella dell’architettura è un’analogia interessante. In tutte le arti occorre trovare un’efficace e sinergica simbiosi di estetica e funzionalità. Ma il fatto è particolarmente evidente quando di tratta di costruire o arredare una casa – o qualsiasi altro edificio. Se il risultato è bello, ma non funziona, diventa scomodo e inabitabile. Se è funzionale, ma antiestetico, produce un disagio che sarebbe sbagliato sottovalutare.

C’è una precisa struttura, che è sensato chiamare “architettura”, in un quadro, una statua, un libro, una composizione musicale, un’opera teatrale o cinematografica, eccetera – come in ogni forma di comunicazione umana.

È famoso il detto di Thomas Edison a proposito di invenzioni e innovazioni: «one percent inspiration, 99 percent perspiration». Non si tratta necessariamente di “sudore della fronte”. Ma la cosiddetta “creatività” è inutile (quando non è nociva) in assenza di un solido mestiere che somiglia all’architettura e alla coltivazione. Le buone basi tecniche sono utili, se non indispensabili – ma non possono sostituire l’esperienza, la sensibilità e l’attenzione ai valori umani. Insomma è un mestiere (e un’arte) difficile. Ma, quando ci si riesce bene, è affascinante.




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