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Mentire con le statistiche


Queste spiegazioni aggiornano e completano
le osservazioni su un caso particolarmente vistoso
di deformazione dei dati citato nell’edizione italiana
di How to Lie with Statistics di Darrell Huff



La bufala degli “avatar”

Giancarlo Livraghi – agosto 2007


Disponibile anche in pdf
(migliore come testo stampabile)



Alcuni anni fa si leggeva e si sentiva parlare di una cosa chiamata “internet due”. Nessuno ha mai spiegato chiaramente che cosa potesse essere, ma la sua immaginaria esistenza sembrava diffusamente accettata dai “grandi mezzi” di (cosiddetta) informazione – che hanno sempre dimostrato di avere idee piuttosto confuse su ciò che riguarda la rete. Poi quelle chiacchiere, un po’ per volta, finirono, senza alcuna spiegazione di come e perché fossero cominciate.

Oggi la storia si ripete con una nuova bufala, chiamata “web due” o “web 2.0”. Questa seconda definizione, stranamente, è presa in prestito dalla terminologia con cui si usano catalogare le “versioni” dei software (che talvolta sono correzioni di difetti, più raramente reali miglioramenti, spesso aggiunte di complicazioni inutili – e insidiose trappole per indurre persone e imprese a sprecare soldi per comprare presunte “innovazioni” di cui non hanno alcun bisogno).

Di nuovo nessuno sa di che cosa si tratti, ma molti (anche in contesti che sono, o vogliono sembrare, seri) ne dissertano in pompa magna (o in pettegolo dettaglio) come se la rete fosse nata ieri – o come se, improvvisamente, fosse diventata un’altra cosa.

Non è certo una novità che le più strampalate sciocchezze, su ogni sorta di argomenti, possano avere una larga e incontrollata diffusione. Ma la rete è uno dei temi più spesso afflitti da questo genere di deformazioni.

L’internet esiste da più di trent’anni, il sistema web da più di quindici, ma (oltre a confondere l’una cosa con l’altra) sembra che molti amino dissertare sulla rete senza aver capito che cosa sia. E c’è una continua proliferazione di presunte “novità” che spesso sono irrilevanti, o non sono nuove, o sono del tutto inesistenti. (Vedi La rete non è una falena né una panacea).

La rete, naturalmente, continua a crescere e a cambiare. Ci sono molte cose, specifiche attività e ambienti, che continuano da decenni. Alcune che scompaiono, altre che si sviluppano, tante che nascono – e non possiamo sapere se avranno vita breve o se troveranno i loro spazi di continuità. Questa crescente complessità è nella natura della rete fin dalle sue origini. Se dovessimo considerare ogni novità come una “versione”, il numero non potrebbe essere due o tre, ma sarebbe di più di sei cifre – e aumenterebbe ogni giorno di migliaia di unità.

Quali, fra le infinite “cose nuove”, sono più interessanti? Difficile dirlo. Ciò che può essere importante in un settore di attività o di interesse è spesso irrilevante in altri. Un esempio è la “moda blog”, di cui ho parlato in Blogologia nel marzo 2006. Che i blog esistono (da dieci anni) e che hanno un loro ruolo nell’internet – è un fatto. Che sia quello l’unico modo, o il più rilevante, per essere attivi online è una stupidaggine.


Un esempio

L’elenco degli sviluppi interessanti, di cui si parla poco, e di quelli marginali, di cui si parla troppo, sarebbe interminabile. Ma c’è un episodio, in sé poco importante, che (non casualmente) coincide con il periodo in cui si è diffusa la “bufala di web due” – ed è un esempio tipico di come una “bolla informativa” si possa gonfiare, senza alcun ragionevole motivo.

Se ne è già parlato in Dare i numeri – ed è citato nel libro Mentire con le statistiche come uno dei casi più bizzarri di numeri falsi e incredibili accettati come se fossero verità dimostrate.

Si tratta di un sito online chiamato second life. È nato nel 2003 e perciò è “nuovo”. Ma non è affatto nuova, né in rete né in generale, l’esistenza di “ambienti” di quel genere.

Quando ero un bambino, e giocavo con altri bambini, facevamo un uso curioso dei verbi. Dicevamo “sarò...” – ma non si trattava del futuro. Voleva dire che, in quel momento e per la durata del gioco, uno di noi assumeva un “ruolo”. Cioè “diventava” una persona, presa dall’ambiente reale o da qualche favola. O inventata per l’occasione. O magari anche qualcos’altro, come un animale – o qualsiasi “identità” che ci venisse in mente. Non occorreva neppure un travestimento. Bastava dirlo per “essere”, nel gioco, ciò che la fantasia ci suggeriva. Non parlavamo di “avatar” o di role playing, ma il concetto era quello.

È facile immaginare bambini (e adulti) che facevano lo stesso gioco diecimila anni fa. Non solo nelle feste di carnevale. E spesso usavano travestimenti e costumi, per “incarnare” un ruolo. Oppure bambole, pupazzi, burattini o marionette. Ne troviamo le prove in un’infinità di ricerche archeologiche e di studi su riti e tradizioni.

Insomma i “giochi di ruolo” sono antichi come il genere umano. E sono nella rete fin dalle sue origini – anche con ambienti tecnicamente costruiti per quello scopo, che si chiamavano (e ancora si chiamano) MUD, MOO, MUSE eccetera.

Ci sono varie sigle di quel genere. Per esempio MUD inizialmente stava per Multi-User Dungeons, in base a un gioco allora diffuso, Dungeons and Dragons – ma, poiché il sistema riguarda anche altri generi di ambienti, la sigla è interpretata come Multi-User Domain. MOO sta per Mud, Object Oriented. MUSE significa Multi-User Simulated Environment. E ci sono anche altre definizioni. Un genere di videogiochi con “molti” partecipanti in rete è chiamato pomposamente MMORPG Massive Multiplayer Online Role-Playing Game.

Quei giochi, all’inizio, erano “testuali”. Ovviamente poi venne il momento in cui si aggiunsero le immagini – e già nel secolo scorso, per definire i disegni dei personaggi, si cominciò a usare la parola avatar (che nella mitologia induista significa “incarnazione”, cioè l’aspetto visibile che assumono varie forme della divinità o altre “essenze” immateriali).


Matsya Kurma Parasurama Narasinhs Rama Varaha

Questi sono alcuni esempi di avatar nell’antica tradizione indiana.
(Per una spiegazione, in inglese, del loro significato vedi Avatars).


Nelle attuali applicazioni ai “giochi di ruolo” l’uso di componenti “visive”, quasi tutte dello stesso stile, dà scarso contributo alla fantasia e alla qualità di svolgimento del gioco (anzi se, come spesso accade, è usato in modo banale o con modelli “predeterminati”, tende a impoverirlo). Comunque... nulla di nuovo rispetto a ciò che si fa “da sempre”. E, ovviamente, solo una fra le infinite cose che possono avvenire in rete.


2006 – la bolla si gonfia

Nel 2006 accadde un fatto strano. Il caso di second life salì “all’onore delle cronache”. Con la diffusione di numeri incredibilmente bizzarri. «Sei miliardi di avatar», scrisse un settimanale, spiegando che erano “più di tutti gli esseri umani”. Non si è mai saputo da dove venisse quella “notizia”, ovviamente falsa. Ma molti la presero per vera, e continuarono a diffonderla, senza neppure chiedersi come fosse possibile.

Più tardi nuove cronache “trionfalistiche” (senza mai smentire i numeri precedenti) citavano dati molto diversi: “otto milioni di abitanti” nel mondo immaginario di second life. Un numero “grande” in sé, ma molto piccolo rispetto alle dimensioni della rete (era molto lontano dal collocare quel sito fra “i primi cinquanta” per numero di visitatori negli Stati Uniti – e ovviamente era ancora meno rilevante su scala mondiale: si tratta di meno dell’uno per cento delle persone che usano l’internet). Ma anche quel dato è falso.

Con un po’ di controllo, si scopre che il numero totale di “frequentatori” del sito si può valutare in poche centinaia di migliaia – e in aree specifiche i numeri sono molto più piccoli. Chi ha analizzato la cosa in maggiore dettaglio spiega che i “visitatori“ di particolari “luoghi” all’interno del sistema sono abitualmente poche decine di unità.

Insomma più si approfondisce questa situazione, più le sue dimensioni si restringono. E ci sono anche problemi di qualità. Persone che hanno avuto la pazienza di esaminare l’andazzo spiegano che il “gioco di ruolo” è scarso, la fantasia è latitante: i (non molti) frequentatori abituali di quell’ambiente ne fanno un uso molto banale, senza costruire ruoli, situazioni o altri giochi interessanti, limitandosi ad attribuire alla propria identità immaginaria ciò che nella vita reale non hanno, secondo le più grossolane ambizioni: una macchina più costosa, una casa più ricca, una situazione di successo, un aspetto o una personalità più attraente... eccetera. È il mondo di Barbie, con una fondamentale differenza: le bambine non sono stupide, sanno che quella è una bambola, non una loro “seconda vita”.

Finora, che io sappia, non è ancora emerso il solito psicologo a dirci che l’uso di second life è una patologia. Non credo che (a parte forse qualche caso isolato, che è sempre possibile in ogni cosa) il problema sia preoccupante da quel punto di vista. Molto più semplicemente la cosa è banale, non è nuova, è poco interessante – e ha dimensioni molto più piccole di quelle che le sono state attribuite.

Questa bislacca montatura ha fatto guadagnare molti soldi ai suoi inventori. Buon per loro: non risulta che abbiano fatto cose riprovevoli e non si possono considerare “colpevoli” solo perché hanno trovato finanziatori sciocchi. Non sembra che ci siano conseguenze “gravi”. Il danno è soprattutto per chi ha sprecato denaro per costruire “presenze” inutili in quell’ambiente. Non è facile capire se i proprietari di quella “bolla gonfiata” hanno un ufficio stampa molto astuto – o hanno “cavalcato un’onda” nata per caso. Probabilmente è una combinazione delle due cose.

Ci hanno guadagnato anche varie imprese, grandi e piccole, di consulenza e servizio. Mentre è difficile farsi pagare decentemente per il lavoro, complesso e impegnativo, di organizzare bene un sistema di comunicazione in rete, è abbastanza facile ottenere compensi esorbitanti per “grafica” appariscente quanto banale – che si può produrre molto più facilmente di come sembra.

Vale la pena di ragionare su questa faccenda? Per il fatto specifico, penso di no. Ma è un esempio di come si possano costruire, su ogni sorta di argomenti, smisurate e fasulle montature. Se, come sembra, questa si sta sgonfiando, quante altre ne vedremo nascere e crescere senza alcun significativo fondamento? Magari per contribuire di nuovo a qualche bufala più generica, come per esempio un immaginario “internet tre” o “web 2.1” o “vattelapesca numero x”?


2007 – la bolla si sgonfia

Il 13 agosto 2007 è uscito a pagina intera su La Repubblica un articolo di Jaime d’Alessandro intitolato Tanta pubblicità, pochi abitanti, quel bluff chiamato Second Life. Finalmente. Qualcuno ha “fatto i compiti” e si è accorto di quanto fossero false le informazioni diffuse? Non esattamente – o almeno non in Italia. L’articolo, correttamente, cita la fonte: un’analisi pubblicata nel numero di agosto di Wired, come vediamo poco più avanti.

secondlife
 
Questa è l’immagine da Second Life
che appare nell’articolo di Repubblica

L’articolo di Repubblica comincia così.

Second Life? Ormai vive sulla carta stampata. L’originale, quello aperto in rete nel 2003 dalla Linden Lab, è un luogo solitario pieno di cattedrali nel deserto sempre vuote. Diecimila isole, campionario di edifici strabilianti messi in piedi da multinazionali di ogni dove per attirare orde di consumatori, tutte o quasi abbandonate.

E più avanti spiega il motivo per cui si è scoperta la magagna.

E pensare che aziende del calibro di Coca Cola, Nike, Ibm, Microsoft, Nissan, Sony (per citarne solo alcune, la lista completa prenderebbe un paio di pagine), hanno speso milioni per costruire le loro splendide e desolate sedi virtuali in Second Life. Si va dai 10.000 dollari per una presentazione e un concerto, al mezzo milione all’anno per un’isola superaccessoriata e colma di grattacieli sfavillanti. Almeno stando al prezzario della Electric Sheep o della Milions of Us, specializzate nel business delle costruzioni virtuali.

Cioè per più di un anno si è continuata a “gonfiare la bolla” – e solo quando nel mondo delle grandi imprese, che avevano avuto la dabbenaggine di investire in quell’avventura senza verificarne né le dimensioni, né il funzionamento, si è “improvvisamente“ capito quanto ci fosse di falso.

L’articolo su Wired di Frank Rose How Madison Avenue Is Wasting Millions on a Deserted Second Life spiega come i presunti “otto milioni di abitanti” in realtà non siano più di trecentomila, che si riducono a molto meno quando si tratta di frequentatori “abituali”. E nelle “isole” o altri ambienti fastosamente e costosamente costruiti da centinaia di imprese i visitatori si contano in poche decine di unità.

secondlife
 
Un’illustrazione di Eddie Guy
nell’articolo di Wired

Almeno cinquanta grandi imprese – dice l’articolo – si sono avventurate in quel mondo virtuale, spendendo milioni di dollari. Isole, arcipelaghi, piazze, palazzi, negozi, uffici. È come se improvvisamente ci fosse ossigeno sulla luna, nessuno vuole mancare. Cioè la spinta non viene da una ragionata valutazione delle possibilità, ma da un’oscura e confusa “paura di non esserci”.

Fin da quando, più di un anno fa, Business Week aveva pubblicato un articolo entusiastico, i giornalisti si sono precipitati ad acclamare Second Life come se fosse l’improvvisa realizzazione del metaverse immaginato quindici anni fa da Neal Stephenson in Snow Crash. Purtroppo la realtà non corrisponde a quelle fantasie.

I sostenitori di Second Life dichiarano crescite astronomiche, con il numero di “residenti”, o meglio di avatar creati, che supera i sette milioni. Linden Lab dice che le persone coinvolte, dalle origini a oggi, sono quattro milioni. Un milione nell’ultimo mese. Circa trecentomila nell’ultima settimana, di cui un terzo negli Stati Uniti.

Siamo ovviamente lontanissimi dai “sei miliardi di avatar” della leggenda diffusa nel 2006. Ma, anche su dimensioni meno fantasiose, ogni volta che si approfondisce l’argomento i numeri diventano sempre più piccoli. Che sia quattro milioni il numero totale di persone che sono “passate di lì” nel corso degli anni, ovviamente non vuol dire che siano “abitanti” – e neppure “visitatori abituali”. Quelli che vanno su Second Life con una frequenza significativa sono molto meno numerosi – e dispersi un una moltitudine di aree, ciascuna con poche presenze, molte del tutto trascurate.

Quando si arriva ai territori di singole imprese, i numeri sono minuscoli. Il negozio Sears nell’isola di Ibm registra un “traffico” di 281 persone. Il padiglione della Coca-Cola ne conta 27. Eccetera (per non parlare dei molti che sono irreperibili – o comunque deserti). Miseri risultati per un “mercato globale” e per investimenti di milioni di dollari.

Forse queste “rivelazioni” eviteranno che istituzioni italiane, come il Comune di Milano, vadano insensatamente a sprecare il denaro dei contribuenti in quelle inutili attività. Ma pare che stupidaggini di quel genere siano già state fatte da parecchi, come l’Università di Torino, la Regione Toscana, un Istituto di Cultura del nostro Ministero degli Esteri, diversi personaggi politici, varie persone più o meno “celebri” – e così via. Tutti “incantati” dalle sballate notizie e dai dati assurdi pubblicati dai giornali, tutti assai poco attenti nel verificare in quale arido deserto andassero a costruire le loro disabitate dimore.

Fra i (purtroppo tanti) esempi italiani c’è anche quello che vediamo in questa malinconica immagine. Mostra l’ingresso di un “palazzo”, con sontuose stanze, proposto in second life dal gruppo Espresso-Repubblica.

palazzo Espresso

Evidentemente l’editore aveva creduto alle cifre fantasmagoriche pubblicate dalla sua rivista. L’ironia della sorte è che, più tardi, un’altra sua testata spiega quanto fosse mal concepito un investimento di quel genere.


La fabbrica delle bufale

In una generale assenza di autocritica da parte del sistema dei mass media, che è il principale artefice di questo squallido disastro, cito volentieri una “lodevole eccezione”. Nello stesso numero di La Repubblica (13 agosto 2007) compare anche un commento di Gabriele Romagnoli I vizi virtuali degli umani, che contiene queste osservazioni.

Il dubbio che, come già la corazzata Potemkin, anche Second Life potesse rivelarsi una “boiata pazzesca” era affiorato insieme con l’emersione mediatica del “fenomeno”, parola che da sola genera allarme. Qualunque cosa lo diventi è solitamente vicina alla propria fine, sta per corrompersi e banalizzarsi.

E più avanti continua così.

Bastava un sondaggio personale ed efficace.

«Sei mai stato su Second Life?»
«Si, certo»
«E poi?»
«Ho creato l’avatar, ho gironzolato, mi sono annoiato e non sono tornato più»

Nel 99 % dei casi (scrivente incluso).

Ecco allora il sospetto che l’immensa popolazione dei residenti fosse composta per lo più da fantasmi. Che seppure milioni di persone delegano la gestione della propria vita a un folle, non potessero esistere otto milioni di folli che delegavano la propria vita a un avatar.

Second Life è stata gonfiata dalla stampa. Non è, lo sappiamo per certo, il primo caso e non sarà l’ultimo. Questo è soltanto esemplare.

L’articolo continua con una serie di esempi di cose false, gonfiate, deformate dalla stampa e, in generale, dai “grandi mezzi di informazione”. Meno male che qualcuno, qualche volta, se ne accorge – e ha l’onestà di scriverlo.

Questa vicenda è una conferma evidente di quella necessaria diffidenza verso gli inganni dei numeri i cui motivi sono chiaramente spiegati in Mentire con le statistiche. Ma è anche una prova di quanto siano futili e ingannevoli le “mode” che spesso danno importanza a ciò che non ne ha, mentre ignorano cose meno appariscenti e più significative.

Per uscire da questa palude non basta qualche occasionale sfogo, come il grido liberatorio di Fantozzi sulla “corazzata Potemkin”. Se una bolla si è sgonfiata, altre rimangono – e chissà quante ne potranno nascere da numeri immaginiari, fantasie trionfalistiche o altre distorsioni.

Naturalmente non tutti gli sviluppi recenti sono “bolle vuote”. Alcune hanno uno sviluppo solido e credibile, anche se esistono da poco tempo. Per esempio You Tube (che è nato nel 2005 ed è usato davvero da milioni di persone) e altri sistemi per la diffusione di video in rete.

Ma qui entra in gioco un altro errore: pensare all’internet partendo dalla televisione. E cioè immaginare che, quando aumentano le possibilità di scambio di materiale “audiovisivo”, la rete diventi una cosa diversa da quella che è sempre stata – e così sia nato qualcosa che si possa definire “web due”. Un concetto indistinto e confuso che (almeno per il momento) continua a circolare, benché sia sostanzialmente privo di senso.





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