timone Il Mercante in Rete
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Marketing e comunicazione nell'internet


Numero 64 – 26 luglio 2002

 

 
Consiglio a chi legge abitualmente il Mercante in Rete
di tener d’occhio la segnalazione delle

novità
per verificare se c’è qualcos’altro
che possa trovare interessante.
 

 


loghino.gif (1071 byte) 1. Editoriale: Il problema della lentezza


World wide wait, si diceva qualche anno fa, ironizzando sulla sigla www (world wide web) e sulla lentezza di molte cose online – specialmente siti web. Il “paradosso”, constatato da chi ha un po’ di anni di esperienza in rete, è che ci sono più rallentamenti oggi (con connessioni molto più veloci) che in passato (quando si usavano sistemi tecnicamente più lenti). Il fatto è che la velocità o la lentezza non dipendono solo dalle prestazioni di un modem o di una scheda digitale e dalla “larghezza di banda”.

Sembra che la “sarabanda della largabanda” si stia concludendo in farsa. Dopo aver fatto magniloquenti promesse di grandi investimenti in risorse strutturali per la cosiddetta “banda larga”... un po’ sottovoce nella calura estiva il governo italiano ha borbottato che a quei progetti dovrà rinunciare perché non ci sono i soldi. Intanto di broadband fiasco si parla, da parecchio tempo, anche nel resto del mondo (e l’argomento è ritornato di moda in seguito alle crisi di alcune grandi imprese di telecomunicazioni).

La storia si ripete. Altre (mal concepite) iniziative di supporto alla rete, annunciate da precedenti governi, si erano perse nei meandri della programmazione finanziaria. Ed è meglio così, perché sarebbero state uno spreco del denaro dei contribuenti (oltre che uno dei tanti “depistaggi” che allontanano l’attenzione dai problemi reali e dalle iniziative che sarebbero davvero utili). Vedi a questo proposito un breve articolo del dicembre 1998 Timeo danaos et incentiva ferentes con una “seconda puntata” nel maggio 2001. Sul tema della “banda larga” vedi un testo del gennaio 2002 Quei grandi tubi pieni di nulla.

Questa è una delusione per quei fornitori di “banda” che si aspettavano sovvenzioni e “incentivi” per vendere una commodity sovrabbondante e meno richiesta di quanto si aspettassero (chissà se i soldi mancano per errori di bilancio o perché sono andati in aiuto ad altri settori, fra cui l’automobile). Potrebbe essere un danno se in alcune parti del territorio, di fronte a esigenze reali di “banda larga” da parte di grandi organizzazioni pubbliche o private, ci fossero infrastrutture inadeguate.

(Fra i tanti elementi di confusione a questo proposito ci sono le statistiche – sulla cui esattezza non credo si possa scommettere – basate sul “consumo di banda” da parte di chi dispone di risorse broadband. Una di quelle analisi tautologiche in cui spesso si confonde la causa con l’effetto).

Ma per il resto l’abbandono di quelle sconsiderate strategie potrebbe essere un bene. Non solo per il risparmio di denaro pubblico, ma soprattutto perché meno attenzione su scelte sbagliate potrebbe farci sperare che ci si accorgesse finalmente di quali sono i fattori su cui vale la pena di concentrare l’attenzione (come la diffusione di una più realistica e umana cultura della rete, il miglioramento sei servizi, lo snellimento della burocrazia).

Abbiamo sentito affermazioni molto bizzarre, nate da quella incrollabile certezza che nasce dall’ignoranza e dalla superficialità. Per esempio «La banda larga è necessaria per l’interattività». Come se la rete non fosse nata efficacemente interattiva trent’anni fa, quando le attuali velocità di connessione non erano neppure immaginate.

No so se e dove si possano trovare informazioni sull’esito delle massicce campagne promozionali della Telecom Italia e di altri fornitori di connettività per vendere soluzioni ADSL. Né so quante delle persone che hanno acquistato quei servizi abbiano la percezione di essere approdate nel “paese delle meraviglie”. (Vedi L’inganno di Alice).

Non è questa la sede per entrare in analisi tecniche (e lascio gli approfondimenti a chi, da quel punto di vista, è molto più competente di me). Mi basta rilevare che sulla reale utilità delle tecnologie broadband ci sono molte perplessità. Per esempio un recente dibattito su Punto Informatico rivela una serie di disfunzioni, non solo per difficiltà di installazione, carenze di servizio, inadeguatezza dell’assistenza e abusi contrattuali. Ci sono anche constatazioni negative sulla reale “velocità” delle connessioni offerte. Persone che un anno o sei mesi fa guardavano con entusiasmo a soluzioni come ADSL ora, dopo averle sperimentate, sono deluse. Le prestazioni sono molto al di sotto delle loro aspettative.

Comunque... anche se quelle tecnologie funzionassero perfettamente rimarrebbe il fatto che sono poco diffuse. Ciò che sappiamo dalle ricerche è che circa il cinque per cento delle persone online in Italia dispone di un collegamento “ad alta velocità”. E che pochissime, fra quelle che non ce l’hanno, sembrano interessate ad acquistarlo.

Anche se miracolosamente la diffusione della “banda larga” raddoppiasse avremmo ancora il 90 per cento dei collegamenti con sistemi meno veloci. Servizi offerti in base alla disponibilità di broadband (se non sono connessioni dirette fra organizzazioni che hanno bisogno di scambiare grandi quantità di dati) sono destinate a lasciare deluse nove persone su dieci.

Ma il vero problema della lentezza è un altro. Molte delle persone online (da quelle più esperte ai nuovi arrivati) hanno spesso la percezione che la rete sia “lenta”. Per motivi che nulla hanno a che fare con la “larghezza di banda”.

Ciò che conta non è il “tempo assoluto“, né il tempo delle macchine. È il “tempo percepito” dalle persone – la cui misura può variare enormemente. Se stiamo facendo qualcosa di piacevole... minuti, ore o giorni possono essere troppo brevi. Se restiamo piantati davanti a un monitor quando un automatismo non fa ciò che vogliamo... pochi secondi sono un’attesa interminabile.

Un sito web (o un altro servizio online) non è “lento” solo quando è sovraccarico di immagini o di altri ingombri (il cui tempo di ricezione dipende da molti fattori, di cui solo uno è la velocità di connessione fra il lettore e il suo provider). È lento, fastidioso, irritante anche quando ci fa perdere tempo per tanti altri motivi. Perché non è abbastanza chiaro e fluido il percorso verso ciò che cerchiamo. Perché disturba la nostra percezione con grafiche non funzionali, con animazioni o altri ingombri, con invadenze di ogni specie (comprese quelle insopportabili finestre che si aprono a sproposito e tentano di depistarci). Eccetera.

Offrire connessioni fluide, veloci, gradevoli ed efficienti non è una questione di “larghezza di banda”. Si tratta soprattutto di architettura dei siti, di organizzazione dei contenuti, di usabilità, di gestibilità dei percorsi. Cose che non si realizzano con accrocchi tecnici o trucchetti miracolosi, ma con un attento, paziente, costante e dedicato impegno in quell’arte difficile e affascinante che è la comunicazione umana.


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loghino.gif (1071 byte) 2. Il problema del prezzo


Dopo tanti anni di dibattiti e discussioni (spesso farneticanti) sul cosiddetto “commercio elettronico” – mancano ancora chiarimenti su uno dei temi fondamentali: cioè come lo sviluppo di vendite e acquisti online possa influire sulla dinamica di prezzi e profitti.

Da almeno vent’anni (cioè molto prima che fosse largamente diffuso l’uso della comunicazione elettronica) si parla di uno spostamento dalla bilancia del potere verso chi acquista (sia che si tratti di “consumatori” di prodotti a larga diffusione o di imprese, grandi o piccole, che organizzano meglio i loro sistemi di acquisto). Con un uso esteso dell’internet era evidente, già sei o sette anni fa, che si aprivano nuove possibilità di verifica e di confronto e quindi aumentava (almeno in teoria) il cosiddetto customer empowerment.

Era perciò ragionevole, se non obbligatorio, porsi una domanda: la concorrenza si manifesterà soprattutto come un’aspra battaglia di prezzi o resteranno spazi significativi per i valori di qualità e servizio?
(Vedi Il problema del prezzo).

Prima di riproporre a quella domanda, e cercare (di nuovo) una risposta, mi sembra necessario constatare che ancora oggi la situazione è molto confusa. Mancano, nei fatti, verifiche chiare che vadano al di là di un singolo episodio o dell’esperienza specifica di una particolare impresa.

Ci sono situazioni, nel mondo delle “nuove tecnologie”, in cui è avvenuto il contrario. Pensiamo, per esempio, al monopolio del software – che è riuscito, e ancora riesce, a imporre prezzi smisuratamente più alti di ciò che potrebbe accadere in un mercato di “libera concorrenza”. Anche nel “hardware” è durato per molti anni (prima di entrare, almeno in parte, in un’inevitabile crisi) un sistema di “obsolescenza forzata” che portava alla sostituzione di macchine efficienti con altre inutilmente più “potenti” e complesse.

Nelle telecomunicazioni non c’è stata una diminuzione delle tariffe reali. Al contrario, con la diffusione della telefonia cellulare, si sono aperti spazi crescenti di “confusopolio” in cui sostanzialmente si paga di più per ogni attività di telecomunicazione, dalla semplice telefonata a varie forme di “trasmissione dati”. Se oggi molte di quelle imprese sono in crisi non è perché abbiano ridotto i prezzi, ma perché si sono esageratamente impegnate in avventure speculative basate su una frettolosa ingordigia e su su errori grossolani di “previsione” e di strategia.

Sappiamo che molte grandi aziende hanno usato soluzioni e-commerce non per le vendite, ma per gli acquisti – anche se non è chiaro quanto e come quei metodi siano serviti per ridurre i costi, migliorare i sistemi di scelta o (in un modo o nell’altro) aumentare la produttività.

Insomma il quadro rimane molto confuso – e alcune recenti teorizzazioni non aiutano a chiarirlo.

Per esempio un articolo nel numero di luglio 2002 di Social Trends riferisce le osservazioni di alcuni economisti americani, come Edward Learner, secondo cui «il notevole incremento di produttività generato dall’internet potrebbe essere anche il motivo per cui i guadagni delle aziende americane andarono a picco alla fine degli anni ’90» perché «l’internet contrae i profitti trasformando i guadagni, che in precedenza erano delle aziende, in risparmi che vanno direttamente nelle tasche dei consumatori».

Che qualcosa di simile possa essere accaduto negli Strati Uniti in alcuni settori, per esempio in quello alberghiero, è plausibile. Che se ne possano dedurre considerazioni generali è molto discutibile – e infatti quelle affermazioni sono contestate da altri economisti. Per esempio, nel caso specifico degli alberghi, Doug Henton osserva che «beneficiano dell’internet avendo la possibilità di riempire le stanze che altrimenti resterebbero vuote». Affermazioni altrettanto contraddittorie sono possibili in ogni settore o categoria d’impresa.

In generale, Florian Zettermeyer rileva che «l’internet aiuta in molti modi le aziende dando loro la possibilità di personalizzare i prodotti e di competete su un’area geografica decisamente più vasta». (Osservazione, quest’ultima, particolarmente rilevante per le imprese italiane e specialmente per le “piccole e medie”).

Un fatto fin troppo evidente è che la crisi del sistema finanziario, e di parecchie grandi imprese, è dovuta a tutt’altri motivi – compreso il fatto che l’uso di nuove tecnologie e le leggende sulla new economy non hanno affatto giovato ai clienti (in questo caso risparmiatori) ma hanno contribuito ad amplificare gli effetti del (tutt’altro che nuovo) spietato sfruttamento di quello che già in altri tempi era sprezzantemente definito il “parco buoi”.

È altrettanto evidente che gli effetti dei nuovi sistemi di comunicazione sull’economia e sulla società offrono ancora un quadro confuso, in cui è possibile (quanto inutile e deviante) affermare tutto e il contrario di tutto.

Nel quadro di specifici settori, e ancor più di singole imprese, la situazione (per fortuna) è assai meno complessa e inestricabile. Può darsi che sia proprio il timore di una “guerra dei prezzi” a tenere molte imprese lontane da un serio impegno in rete e a incoraggiare soluzioni cosmetiche e superficiali, fatte più di apparenze che di reale informazione o servizio. Ma è miope fingere che il problema non esista – o che possa essere perennemente eluso.

Immaginiamo che un’impresa, offrendo in rete i suoi prodotti o servizi, si esponga a una più diretta verifica di prezzo e valore. Immaginiamo che i suoi clienti, o almeno quelli più attenti e prudenti, dedichino il tempo necessario a verificare e confrontare prima di fare un acquisto. Se e quando il meccanismo funziona bene, ne nasce un ovvio vantaggio per il “consumatore”. Ma non un danno per l’economia – né per quelle imprese che sono in grado di offrire reali valori di qualità e servizio.

“Stare alla finestra” o usare la rete solo per confondere le carte può (in qualche caso) servire a rinviare il problema. Ma non è una soluzione. In questa come in ogni altra situazione dell’impresa la concorrenza dev’essere affrontata, capita, gestita come strumento per migliorare la propria offerta. E conviene, per quanto possibile, pensarci prima di essere presi alla sprovvista.

Un “modello ideale” (ma non lontano da possibilità concrete) ci dice che l’impresa, se usa bene le risorse di rete, può agire contemporaneamente su molte leve – di cui solo una è il prezzo all’acquirente finale. Può migliorare produttività ed efficienza, può ridurre i costi di distribuzione, può accrescere le economia di scala – eccetera. Può gestire e valorizzare più efficacemente tutti quei fattori di qualità e servizio che definiscono il concetto di “valore” (anche nella percezione di chi acquista) come qualcosa di diverso dal puro e semplice prezzo.

Come tutte le strategie forti, questa è concettualmente semplice. In pratica richiede impegno, attenzione, approfondimento, sperimentazione e verifica. Ma al di là di tutte le chiacchiere e le teorie mi sembra chiaro che è questa, e nessun’altra, la strada maestra per avere un maggiore vantaggio competitivo e per ottenere il successo usando anche (ma non solo) la rete.


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loghino.gif (1071 byte) 3. Poche parole sulla pubblicità online


Ogni tanto qualcuno mi chiede che cosa penso della pubblicità online. Il fatto è che c’è poco o nulla da dire – e che non è diverso da ciò che ho detto e scritto in passato.

Gli “operatori del settore” si sono esaltati troppo e troppo presto. Le delusioni erano inevitabili. Quando si è constatato che le cose non funzionavano si è ricorsi a rimedi sbagliati – che hanno peggiorato la situazione (come forme di “creatività” inadatte al sistema ed esagerate “invasività” che fanno solo danno).

Le “previsioni” generali sugli investimenti pubblicitari nel 2002 si sono rivelate sbagliate. Si parlava di una “minore crescita” mentre oggi informazioni confuse e contraddittorie oscillano fra la stasi e la diminuzione. I motivi sono semplici: c’era stata una crescita “gonfiata” nel 2000 e 2001 ed era inevitabile che la “bolla” si sgonfiasse. Ogni altra analisi o elucubrazione è aria fritta.

Si prevedeva, per la pubblicità online, un aumento percentualmente più alto (ma su dimensioni comunque molto piccole). Qua e là ci sono state varie dichiarazioni (in mezzo ai piagnistei sulla pubblicità in generale) che prevedevano uno sviluppo in “controdendenza” delle attività di comunicazione d’impresa online (che comunque non sono necessariamente “pubblicità”). Solo alla fine dell’anno, o più probabilmente all’inizio del 2003, sapremo se in quelle ipotesi ci fosse qualcosa di vero. Per ora siamo nella solita nebbia di affermazioni e ipotesi contrastanti. L’opinione più diffusa è che non solo non ci sia alcun aumento rispetto al “poco” degli anni precedenti ma la quantità e i prezzi della pubblicità online siano in diminuzione – quanto, o forse più, che nei mezzi tradizionali.

Il fatto sostanziale è che questo argomento interessa esclusivamente ai venditori di pubblicità. Per tutti gli altri il problema è di qualità, non di quantità. Finora la pubblicità online è stata fatta quasi sempre distrattamente, in modi inopportuni che imitano banalmente ciò che si fa nei mezzi tradizionali, con soluzioni apparentemente “brillanti” ma scarse di contenuto. Insomma male. Farla meglio non significa inventare nuovi “formati” o nuove fastidiose invasività. Significa fare promesse chiare (che si è in grado di mantenere) e presentarle in modo interessante e gradevole. Significa saper conquistare e mantenere fiducia (cosa resa piuttosto difficile da troppe attività online che non la meritano). Significa avere quelle risorse strutturali di servizio senza le quali la pubblicità è inutile (o è autolesionismo).

Se è fatta bene (cosa finora rara) la pubblicità online, come ogni altro genere di comunicazione, può funzionare. Controllare se i conti tornano (cioè se i risultati giustificano l’investimento) è molto più facile nell’internet che in qualsiasi altro ambiente. Credo che non ci sia altro da dire. Tutto il resto è solo un mucchio di chiacchiere – che sarebbe solo noioso se non continuasse a generare una fastidiosa confusione di idee.


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loghino.gif (1071 byte) 4. L’eclissi del buon senso


In quasi ogni cosa (non solo nel dibattito politico) la luce della ragione sembra spenta e offuscata dall’eterno contrasto di chi si sente in obbligo di dire che “tutto va bene” (il che, palesemente, è falso) e chi altrettanto meccanicamente ripete che “tutto va male” (il che, in molte situazioni, è vero – ma diventa poco chiaro e poco credibile se assume l’aspetto del “partito preso” o della ritualizzazione).

Non mi piace recitare il ruolo di Cassandra o del “grillo parlante” (anche perché così facendo si fa una brutta fine) e ancora meno mettermi nell’antipatica e presuntuosa posizione di chi afferma “l’avevo detto” (magari scegliendo, fra molte sue osservazioni od opinioni, quelle che sono state confermate dai fatti).

Togliamo di mezzo ogni considerazione personale. Compreso il fatto che, mentre alcune mie osservazioni di mesi o anni fa hanno trovato abbondante conferma, in altre cose ho sbagliato. Per esempio ero convinto, nel 1996, che la corsa verso la complicazione e i tecnicismi inutili si sarebbe fermata – e ci sarebbe stata una forte spinta verso la semplicità. (Vedi per esempio Il pendolo di Ermete e l’arte della leggerezza). Avevo avuto la prudenza di non porre un limite di tempo... ma il fatto è che dopo sei anni, e nonostante la dimostrata superiorità di soluzioni più semplici ed efficienti (e i clamorosi fallimenti di imprese che hanno puntato nella direzione sbagliata) continua in un’infinità di cose l’affollamento di complicazioni insensate e “fine a se stesse”.

Il fatto è che alcune cose erano evidenti, anni fa, a qualsiasi osservatore non superficiale. Come l’insensatezza delle proiezioni “esponenziali” e di molti business plan basati su ipotesi irreali, l’insostenibilità della speculazione finanziaria, l’inefficienza di panacee e ricette miracolose, l’assurdità di strategie frettolose – eccetera.

Quando qualcuno, come me, segnalava la palese falsità di quelle proiezioni e di quei progetti, si sentiva dare del “pessimista”. Come si sente definire, un po’ sprezzantemente, “ottimista” chi oggi (in base a una semplice osservazione dei fatti) rileva che non c’è e non c’è mai stata alcuna crisi dell’internet (vedi La crisi che non c’è) e che sono bugiarde le lacrime di coccodrillo di chi cerca pretesti e scuse per giustificare i propri errori (vedi L’arte perversa del piagnisteo).

Si può essere accusati di “luddismo” se si esprime qualche perplessità sulle capacità taumaturgiche delle tecnologie – o di ingenuità se si pensa che molti problemi si risolvano meglio con una buona organizzazione che con spese esagerate in risorse tecniche non necessarie. Mentre il valore pratico di quei ragionamenti è ampiamente confermato dai fatti (vedi Il paradosso della tecnologia).

Nella situazione di schizofrenia in cui ci troviamo, accade spesso di essere accusati contemporaneamente di “ottimismo” e di “pessimimo”. Dal che non si deduce che in medio stat virtus, ma che si tratta di cambiare radicalmente i modelli di analisi e i metodi di gestione. Rispetto alle opinioni (e alle strategie) dominanti occorre un’impostazione completamente diversa. Meno isterica, meno opportunistica, più concreta.

Non è “pessimismo” cercare di capire quali sono i problemi. Non è ingenuo “ottimismo” cercare un modo per risolverli. Ma nessun problema può essere risolto senza una buona dose di quell’aprioristico ottimismo che dice “è vero che i problemi sono molti e difficili, ma questo non è un motivo per rassegnarsi, bisogna cercare una soluzione”. Come faceva un leggendario, ma non immaginario, personaggio chiamato Brown.

Di questi argomenti parlo spesso, con persone nei settori più diversi di attività. Tutte, in un modo o nell’altro, sono perplesse (comprese quelle la cui posizione “ufficiale” è necessariamente agiografica, ma in privato sono un po’ più disponibili a rinunciare alla retorica d’obbligo). Tutte condividono la constatazione di un gran correre verso non si sa cosa, di una mancanza di obiettivi e strategie chiare. Tutte sono un po’ smarrite per la mancanza di soluzioni. Quasi tutte (e sempre più spesso) alla fine concludono con una semplice frase: «ci vorrebbe un po’ di buon senso».

La domanda a cui non trovo risposta è proprio questa. Nell’imperversante marasma di ipotesi sballate e di giustificazioni incredibili, che fine ha fatto il buon senso?

 

 

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