Offline Riflessioni a modem spento


Facciamo
un passo indietro

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novembre 2003



  Giancarlo Livraghi

gian@gandalf.it
 
Per altre osservazioni vedi
il mercante in rete
e altre rubriche online
e due libri:
  La coltivazione dell’internet  
e L’umanità dell’internet
 
 

 



Da molto tempo (come sanno i lettori di questa rubrica e di altre cose che scrivo) sono convinto che sia necessario trovare un momento di pausa, nella continua rincorsa della fretta, per cercare di capire dove si sta andando. “Fermati e pensa” è un criterio di buon senso, troppo spesso dimenticato, che permette di evitare un’infinità di errori e di vicoli ciechi. Sembra una perdita di tempo, ma è vero il contrario: la fretta del poi è spesso la conseguenza della poca chiarezza con cui ci si avventura in percorsi mal tracciati.

Ma un continuo accumulo di fatti, esperienze e situazioni ci dice che non è più sufficiente. Occorre una revisione profonda dei modi di pensare, progettare e agire. Perché sulla strada del press’a poco e della fretta immotivata si è andati troppo avanti. Non solo manca la cartografia del “dove andiamo”, ma si sono perse anche le mappe del “da dove veniamo” – e soprattutto la nozione del “perché siamo qui e che cosa ci stiamo a fare”.

Si fa un gran parlare di “nuovo” mentre cresce con fastidiosa insistenza l’odore di stantio. Le presunte novità ammuffiscono prima che si sia potuto capire che cosa fossero e a che cosa dovessero servire. Le innovazioni autentiche, quando ci sono, rischiano di annegare nella palude del vecchio riciclato o del nuovo inutile e fasullo.

Sono evidenti da parecchio tempo i danni prodotti dal circolo vizioso della fretta. C’erano vistosi disastri quattro anni fa – quando erano apparse in questa rubrica brevi osservazioni intitolate La gatta frettolosa fa i gattini ricchi?  Alcune di quelle gatte si sono trovate in serie difficoltà con le loro cucciolate di gattini ciechi. Qualcuna è scappata col maltolto. Altre hanno ottenuto dalle frettolose speculazioni i mezzi per ributtarsi in labili e discutibili avventure. Ma quella folle rincorsa ci ha tutti impoveriti. Non solo di risorse, ma anche di idee e di valori.

Eppure la fretta imperversante non accenna a rallentare. Continua l’affanno nel tentativo di rattoppare ciò che si guasta perché mal concepito. O di inventare “novità” che di nuovo hanno assai poco – e soprattutto mancano di qualsiasi solida e durevole utilità.

Su quel percorso disordinato, che è diventato un indecifrabile labirinto, si è continuato a girare come topolini impazziti per troppo tempo e con troppi tortuosi sbandamenti. Non basta più dire “ritroviamo le basi” o “fermiamoci a pensare”. Prima di poter guardare avanti, per tracciare una rotta che non sia una cieca deriva nel gorgo delle correnti, occorre voltarsi indietro.

Dobbiamo capire perché stiamo navigando nella nebbia. Riscoprire l’uso della memoria. Trovare gli strumenti (più concettuali che tecnici) per capire dove siamo, perché siamo arrivati lì e dove vogliamo andare. Dobbiamo provare lo sgomento di accorgerci che abbiamo perso le radici e che molte sperate “innovazioni” si stanno rivelando rami secchi. Perché senza quella momentanea sofferenza, senza una voglia vera di capire e di ritrovare l’orientamento, la perdita di identità può diventare irreversibile.

A proposito dell’internet... sei anni fa comparvero in libreria, per la terza volta, alcune mie osservazioni sull’argomento. In un libro che parlava, più in generale, di comunicazione d’impresa. Non ancora un intero volume... si trattava di una lunga sezione (quasi un libro a parte) intitolata L’infanzia di un mondo nuovo. Ne nacquero alcuni dibattiti che riguardavano la prima parola. “Infanzia”? Qualcuno sosteneva che le cose si muovessero molto velocemente, che si stesse arrivando con ritmo “esponenziale” a una precaria maturità. I fatti dimostrano che stavano vaneggiando. Altri, con più credibilità e costrutto, parlavano di adolescenza. Con i relativi brufoli, disorientamenti e crisi di identità. Alla luce dei fatti... sappiamo che si tratta, ancora oggi, di infanzia, o tutt’al più di adolescenza – o forse di una “fase di transizione” di cui non è facile immaginare l’esito.

Può essere infantile, o adolescenziale, la fase di sviluppo di qualcosa che ha trent’anni? Ovviamente si. Le evoluzioni culturali hanno cicli variabili, spesso più lunghi della vita di una persona o di poche generazioni.

Ma il mio dubbio, oggi, è sulla seconda parte di quella definizione. Si tratta di un “mondo nuovo”? Credo di aver sbagliato, come molti, nel credere che l’evoluzione dei sistemi di informazione e comunicazione potesse portare, in tempi relativamente brevi, a cambiamenti più radicali di quelli che stiamo vivendo. Non perché fossero ipotesi campate per aria o sviluppi impossibili. Ma perché i percorsi sono, inevitabilmente, tortuosi e turbolenti. E perché le resistenze dell’abitudine sono più profonde di quello che sembrano.

Dicono che la televisione ha cinquant’anni. Non è vero “in assoluto”. Sistemi per la trasmissione di immagini erano stati concepiti nel diciannovesimo secolo. I primi esperimenti di televisione risalgono al 1925 (a colori nel 1929). Le prime trasmissioni erano state realizzate in pratica nel 1939. Ma è vero che la diffusione della televisione è cominciata dopo la fine della seconda guerra mondiale – e che (dopo cinque anni di sperimentazione) le trasmissioni regolari in Italia cominciarono nel 1954 (nello stesso anno ci furono i primi collegamenti in “eurovisione”).

(Su queste e altre discontinuità nello sviluppo dei sistemi di informazione e comunicazione vedi la “cronologia” in appendice all’edizione online di L’umanità dell’internet).

Da allora che cosa è cambiato? Poco. Rispetto alle origini abbiamo avuto una “copertura”, da tempo completa, del territorio nazionale. Abbiamo avuto l’introduzione del colore, una limitata moltiplicazione dei canali, una limitata possibilità di accedere “via satellite” a emittenti straniere. In sostanza la televisione è incredibilmente simile a quella che era cinquant’anni fa – con alcuni preoccupanti, quanto evidenti, fenomeni di involuzione e deterioramento. Siamo lontani da quella trasformazione profonda, quella “televisione a cinquecento canali”, che potrebbe darci uno strumento molto diverso da ciò che abbiamo conosciuto finora. E, nonostante le chiacchiere, non c’è alcuna indicazione reale di un’evoluzione in quel senso.

La diffusione dei mezzi di comunicazione “in tempo reale” e potenzialmente “globali” (a partire dal “telegrafo senza fili” nel 1901 e dalla radio nel 1920 – in Italia nel 1924) ha portato un cambiamento profondo, di cui non abbiamo ancora imparato a capire del tutto le conseguenze. Ma ci sono voluti più di cinquant’anni perché raggiungesse una qualche “maturità” (che per molti aspetti sembra una preoccupante stasi, se non una precoce vecchiaia) .

Quanto all’internet... non voglio ritornare su ciò che ho detto e scritto forse troppe volte. È evidente che siamo in una fase di preoccupante involuzione – e non è facile capire quale sia la via d’uscita. Credo e spero che tutti quei guasti non possano distruggere le radici, i veri valori della rete. Ma li annebbiano, li rendono insensatamente difficili, li ingombrano con ogni sorta di invasività, trappole, fastidi e malfunzionamenti.

È un fatto evidente, anche se trascurato, che la cosiddetta “rete globale” raggiunge, press’a poco, il cinque per cento dell’umanità. E che in un paese come l’Italia, dove l’internet è accessibile a “quasi tutti”, da due anni c’è un debole afflusso di nuove persone online – come dimostrano anche i dati riassunti nel numero precedente di questa rubrica. In parte per i troppi fastidiosi ingombri e impicci tecnici (che non si risolvono, ma anzi peggiorano, con la “banda larga”). Ma soprattutto per un problema culturale. Ciò che la rete oggi offre non è interessante per molte persone. Perché mancano risorse e servizi davvero utili e funzionali. O perché, quando ci sono, la “cultura dominante” non aiuta a capirne il valore e l’utilità.

Mi sembra indispensabile (non solo nel mondo della comunicazione, ma in ogni genere di attività) “fare un passo indietro”. In due modi. Uno generale. Per capire meglio le origini – e i percorsi che ci hanno portato alla situazione di oggi. E così tracciare linee più nitide e meno confuse per il cammino da qui in avanti. L’altro, non meno importante, in ciascuna situazione particolare – di ogni impresa, organizzazione o persona. Per uscire dalla nebbia, ritrovare le radici e l’identità, definire con più chiarezza le intenzioni. Liberarci dal vortice autodistruttivo della fretta e muoverci in avanti con più convinzione e meno insicurezza.

Appena superato qualche scricchiolio iniziale... è un esercizio interessante, spesso affascinante, tutt’altro che sgradevole o noioso. Porta serenità e chiarezza. E aiuta molto a tracciare con meno esitazioni, meno errori e più determinazione la strada verso un “nuovo” davvero utile e fertile. Non è vero che “manca il tempo”. Il tempo che quel “passo indietro” ci farà risparmiare nei “passi avanti” successivi, oltre al grande miglioramento di qualità, vale molto di più di quanto ci può costare l’impegno nel capire meglio in quale percorso siamo e dove vogliamo andare.




C’è un nesso di analogia fra questo articolo e le osservazioni,
diverse ma “complementari”, in Le ambiguità dell’innovazione.


 

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