timone Il Mercante in Rete
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Marketing nei new media e nelle 
tecnologie elettroniche


Numero 35 – 30 giugno 1999

 

Questo è un "numero senza numeri". Da ciò che mi dicono e scrivono le persone che hanno la cortesia e la pazienza di seguirmi, noto che ci sono tre tendenze. Quella di chi apprezza solo le considerazioni qualitative – e si annoia con i dati. Quella di chi considera le analisi dei dati come il motivo più importante per leggere questa rubrica. E quella di chi (grazie) apprezza l'una e l'altra cosa. In questo numero accontenterò (o almeno spero) chi bada più ai ragionamenti qualitativi che alle analisi numeriche. Ma in un prossimo numero ritornerò sul tema "dati e statistiche". Ho alcune serie di informazioni interessanti, che sto cercando di analizzare e confrontare; ma è un lavoro lungo e complesso – anche se le deduzioni alla fine saranno, spero, semplici. Prego chi stava aspettando ancora un po' di numeri di avere ancora un po' di pazienza.

 

loghino.gif (1071 
byte) 1. Editoriale: È scoppiata la guerra dei portali


La guerra era già in corso da tempo. Ma ora è ufficialmente dichiarata. Per esempio, durante una giornata dedicata all'internet nell'aula magna dell'università Bocconi, il 16 giugno, c'è stato un momento di vistoso, quasi comico, imbarazzo. Cinque o sei grandi organizzazioni si erano minuziosamente preparate per dire "sono il più grande portale italiano". Dopo che i primi due avevano fatto la stessa affermazione, gli altri si trovarono in qualche difficoltà... chi disse orgogliosamente "non è vero, il più grande sono io"; chi invece disse "va bene, smettiamo questa gara di parole, deciderà il mercato; ma vorrei spiegare che cosa stiamo facendo". E chi tacque... per non scoprire le carte.

Una signora che conosce bene la rete, seduta accanto a me, bisbigliò "ma com'è questa storia, che tutti fanno tutto?" – e questa è forse la sintesi più efficace della situazione. Ma credo che il tema meriti qualche approfondimento.

Prima di tutto, che cos'è un portale? Tutti ne parlano, ma non è facile darne una definizione. Credo che la parola americana portal si traduca abbastanza bene con "portale". Infatti si tratta proprio di una grande, immensa porta, che cerca di essere l'unica via d'accesso al tempio, alla città, al mercato – o al paese delle meraviglie. L'ambizione di ogni "portale" è di essere ciò che America Online è per 15 milioni di americani: l'unico punto di accesso alla rete (dopo aver comprato Compuserve e Netscape probabilmente ritenterà, in un modo o nell'altro, di diffondere quest'idea anche nel resto del mondo; ma non senza incontrare parecchia concorrenza). Insomma il "portale" tende a dire: "Perché vuoi faticare a cercare cose in giro per la rete? Vieni da me, che ci penso io". E così costruire un "parco" di utenti che poi può vendere a chi li vuole raggiungere...

Bertoldo chiederebbe: "se sono tanti, come può ognuno essere l'unico portale?". Spesso i "bertoldi" hanno ragione. Nessuno può prevedere come andrà a finire questa guerra, ma una cosa è certa: non tutti riusciranno a ottenere tutto ciò che sperano.

I concorrenti in Italia sono parecchi; e delle provenienze più svariate. Qualcuno parte da una tradizione editoriale, qualcun altro da una base tecnologica. Tutti stanno cercando di "convergere" verso un'area che risulterà presto molto affollata. C'è il gruppo Repubblica-L'Espresso che dopo l'affermazione ottenuta con l'edizione online del quotidiano si estende a un'operazione multiforme , in cui riunisce non solo le altre testate del gruppo ma anche un motore di ricerca e un sistema di servizi online. C'è il gruppo RCS (Rizzoli – Corriere della Sera) che finora ha cincischiato con le sue attività online ma dichiara intenzioni non meno ambiziose. C'è Il Sole 24 Ore che da parecchi anni ha una presenza forte in rete e vuol diventare più che mai un punto di riferimento – non solo per l'economia. C'è Virgilio che ha la dichiarata intenzione di non essere solo un motore di ricerca, ma un grande "portale". C'è la Microsoft che, benché sia un po' l'ultima arrivata dopo anni di disinteresse verso la rete, sta ovviamente (e non da oggi) usando la sua leva sul software per cercare di impadronirsi anche del flusso dell'informazione: e ha dichiarato apertamente di volerlo fare anche in Italia. C'è la RAI, con intenzioni molto ambiziose – anche se il suo tentativo di costruire una facciata multifinestra per il suo servizio satellitare (trasmesso anche da Rai 3 in ore notturne) appare piuttosto goffo. Ci sono alcune parti della galassia Fininvest (Mondadori, Mediaset, Publitalia) che per ora si presentano come entità separate ma potrebbero convergere in un sistema, in qualche modo, integrato; intanto la Mondadori ha comprato Volftp (l'ultimo residuo del defunto impero Video On Line) che aveva già ottenuto per conto suo un ruolo rilevante. Ci sono operatori internazionali come Lycos e Yahoo che hanno aperto in Italia (in modo diverso, anche Altavista ha un'interfaccia in italiano ed è in corsa per la "raccolta pubblicitaria" sul nostro mercato). C'è la Omnitel che si propone con l'ipotesi (per la verità un po' bizzarra) di sviluppare la telefonia mobile come la principale, se non l'unica, fonte di accesso alla rete. C'è la Telecom che probabilmente sta ridefinendo le sue strategie – ma sarebbe molto strano se restasse fuori dal gioco, visto che come provider (Tin) controlla circa metà del mercato. Ci sono altri provider, specialmente i più "grossi", che faranno tutto il possibile per avere un ruolo significativo; compresa Italia Online, che già possiede Arianna, un motore di ricerca con ambizioni di "portale" (anche se forse non è facile capire dove si collochi quell'impresa nell'intrico delle fusioni e dei passaggi di proprietà). Ci potranno essere altre presenze; anche perché molti operatori procedono (come si fa anche in tanti altri settori d'impresa) a colpi di acquisizioni. Eccetera, eccetera...

Credo che sia impossibile prevedere "chi vincerà", anche perché non si è ben capito su quale terreno si svolgerà la battaglia. Vista la molteplicità dei contendenti, è chiaro che non potranno vincere tutti; o almeno alcuni dovranno accontentarsi di un'affermazione inferiore alle loro ambizioni. La "torta", per ora, è troppo piccola perché così tanti che si affollano intorno al buffet possano ritagliarne una "fetta" soddisfacente. Ma il gioco, in prospettiva, è molto più complesso. Ciò che vogliono fare i "portali", nelle loro svariate forme e interpretazioni, è occupare il territorio. Controllare i flussi e i percorsi, le strade e i ponti: così che qualcuno, in un modo o nell'altro, debba pagare un pedaggio.

Lo sviluppo della rete non è mai stato, e non sarà, omogeneo. Ma credo che si stiano delineando due grandi tendenze; non necessariamente contrapposte, ma intrecciate e "co-evolventi". Una che tende a riportare l'internet nel solco dei sistemi di comunicazione tradizionali: grandi e centralizzati. Non so quanto questa tendenza prevarrà, ma credo che sarà una delle componenti del sistema. In questa prospettiva si giustifica l'esistenza dei "portali". Alcuni estesi e generici, altri più mirati e specializzati. Con una gamma infinita di tipologie e di dimensioni, dal grandissimo al piccolissimo, e con una differenza di culture e di modalità che speriamo rimanga smisuratamente varia e mutevole, ricca di crescente diversità.

L'altra, più simile all'internet delle origini e oggi apparentemente in ombra, che mette il timone nelle mani delle singole persone. Veramente interattiva, e soprattutto attiva da parte di chi cerca il suo percorso individuale nella rete, il suo sistema di relazioni, i suoi canali di dialogo. Questa tendenza è tutt'altro che esaurita; ci sono "nuovi utenti" che, dopo essere entrati in quella che apparentemente era solo una grande biblioteca o una raccolta di cartoline, scoprono i canali di dialogo. E la forza inesauribile del "passaparola" continua ad aumentare il loro numero.

La coesistenza dei due sistemi non mi sembra, in sé, un problema. Se devo solo guardare il bollettino meteo o sapere qual è l'esito delle elezioni in Israele, posso servirmi del "portale" che mi è più comodo (sempre che, così facendo, non rischi di tirarmi addosso una bordata di spamming). Se voglio informazioni e scambi meno ovvi, è meglio che cerchi la mia strada. L'importante è che sia diffusa la conoscenza di tutti e due i modi di usare la rete. Perché chi si accontenterà del primo alla fine sarà la vittima. Più povero di risorse, di cultura, di stimoli, di scambi, di idee, di alternative. Di conseguenza, anche di denaro.

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loghino.gif (1071 
byte) 2. La crisi dei motori di ricerca

 

Se grandi gruppi finanziari si contendono a colpi di miliardi il possesso dei grandi motori di ricerca è perché pensano che siano, o possano diventare, "portali". Non perché funzionano come dovrebbero. La constatazione delle difficoltà in cui si trovano è quotidiana, per chiunque cerchi di usarli. In un articolo che ho scritto l'anno scorso ( Le vie della rete sono infinite) osservavo che anche nell'uso dei "motori di ricerca" capita spesso di imbattersi in qualcosa di interessante con un percorso che non è il più ovvio. Un esempio fra mille... pochi giorni fa ho ricevuto un messaggio da una persona che non conoscevo. Si chiama Stefano Casertano e mi ha gentilmente permesso di pubblicarlo.

I mefistofelici strumenti di selezione di un motore di ricerca, prendendo spunto dalla voce "bilancio+ospedali" mi hanno portato a conoscenza del tuo pamphlet. Alla quarta ora di infruttuosa navigazione, ormai assuefatto alle terrificanti e accattivanti proposte che ammiccavano da ogni finestrella telematica, ho abbandonato la ricerca universitaria e mi sono gettato a capofitto nella lettura. È stato molto interessante...

Il fatto è che le parole "bilancio" e "ospedali" non compaiono insieme in alcun documento sul mio sito. Il testo che Stefano ha trovato interessante parla di tutt'altro. Né il mio nuovo "amico di penna" né io abbiamo un'idea precisa di come quel search engine abbia trovato il percorso.

La situazione sta peggiorando. Il motivo è spiegato con una certa precisione in un articolo nel numero di giugno di Scientific American; firmato collettivamente da un gruppo di lavoro dell'IBM che si chiama Clever Project.

Ci sono centinaia di milioni di pagine nella world wide web. Secondo uno studio del NEC Research Institute di Princeton, New Jersey, il motore di ricerca con la base più ampia non ne raggiunge più del 16 per cento; l'anno scorso un'analisi dello stesso istituto diceva che era il 34 per cento. Nel 1998 si stimava che ci fossero 300 milioni di pagine web; oggi si pensa che siano più di 800 milioni. Secondo Clever Project ogni giorno se ne aggiunge un altro milione. Una "pagina" può essere un testo di poche righe o di molte centinaia di parole. Trovare tutto questo materiale e classificarne il contenuto è un'impresa enorme, che deve necessariamente essere delegata (in tutto o in parte) a sistemi automatici. Per quanto elaborati e raffinati possano essere quei sistemi, non hanno alcuna possibilità di essere "intelligenti" nel senso umano della parola. Sistemi "euristici" classificano i testi secondo la frequenza con cui compare una certa parola; ma questo non significa affatto che la graduatoria di rilevanza sia corretta. Per esempio (dice l'articolo) il libro Tom Wolfe The Kandy-Kolored Tangerine-Flake Streamline Baby verrebbe classificato da uno di quei sistemi euristici come altamente rilevante per la parola ernia, perché all'inizio del testo è ripetuta dozzine di volte; mentre il libro parla di tutt'altro. D'altra parte, ci sono testi dedicati a un argomento che considerano una parola-chiave così ovvia da non citarla quasi mai. Per esempio nella homepage dell'IBM non compare la parola computer.

Alle difficoltà che comunque esistono con qualsiasi testo si aggiungono talvolta le "astuzie" di chi introduce in una pagina (in modo palese o anche in forma "nascosta", cioè in parti del linguaggio HTML non visibili in una normale lettura) ripetuti "segnali" intesi a farsi trovare, e a collocarsi in un punto alto della classifica, con certe parole-chiave.

Il risultato è quello che tutti possiamo vedere. Se facciamo una ricerca molto "stretta", cioè con una definizione precisa che contiene almeno una parola poco diffusa, troviamo un numero limitato di testi (ma probabilmente non tutti quelli che riguardano l'argomento che ci interessa). Se usiamo una parola semplice abbiamo più probabilità di trovare ciò che cerchiamo, ma il numero di alternative disponibili può essere esorbitante.

In italiano è più facile, perché c'è meno materiale? Direi di no. Prima di tutto, sono pochi gli argomenti per cui può essere sufficiente una ricerca in italiano; anche su temi "nostrani" c'è spesso materiale interessante in altre lingue. E poi, per quanto piccolo rispetto al totale, il volume del materiale in italiano è già sufficiente per mettere in crisi i motori di ricerca.

Prendiamo un motore e chiediamo "Dante Alighieri". Trova 10.000 pagine; ma sono troppo poche... potrebbero esserci sfuggite molte cose. Infatti con la parola "Dante" da sola ne trova più di 200.000, con "Alighieri" 34.000. Con "inferno" 120.000, "Conte Ugolino" 60.000, "Beatrice" 200.000, "Pia de' Tolomei" 80.000 (se scriviamo dei invece di de' ne trova 1.700.000, perché "dei" non è solo una congiunzione, quindi anche un raffinato sistema sintattico non può riconoscerla come tale; e con una chiave breve come "pia" si rischia di trovare tutto ciò che contiene una parola che contiene quelle tre lettere, da "piano" a "copia"). Con "Francesca da Rimini" ne troviamo 1.200, che benché poche rispetto alle altre chiavi di ricerca sono già un'esagerazione; e naturalmente non sono tutte, perché in molti testi è chiamata solo Francesca. Con "Paolo e Francesca" la lista scende a 200 pagine, che sono palesemente troppo poche. Ci sono le soluzioni cosiddette "booleane" che permettono di raffinare la ricerca; ma anche con quelle l'impresa è tutt'altro che facile. Per esempio se chiediamo i testi in cui le parole "Paolo" e "Francesca" sono vicine (near) ci vediamo offrire 200.000 pagine. Naturalmente l'impresa è meno ardua se il territorio è più ristretto (per esempio se cerchiamo un commento su Dante di uno specifico autore). Ma in generale la ricerca in rete non è facile se non abbiamo un'idea abbastanza precisa di che cosa stiamo cercando – e di dov'è.

Inoltre, c'è il problema dei sinonimi. Con la chiave di ricerca "automobile" posso trovare una quantità enorme di informazioni, in inglese come in italiano. Ma oltre a doverci orientare in una massa già troppo abbondante ci mancherà molto materiale in cui si usa la parola "car" o "macchina" o "auto" e così via, moltiplicato per tanti sinonimi in tante lingue diverse. La parola "aircraft" è presente in un milione di pagine web; figuriamoci che cosa succede se aggiungiamo "airplane", "aeroplano", "aeromobile", "velivolo" eccetera...

E, come abbiamo visto, la "graduatorie" non ci aiutano; è abbastanza improbabile che ciò che ci interessa sia fra le "prime 20" o "prime 100" pagine nell'elenco. Insomma, è difficile. E con il numero sempre crescente di pagine online il compito dei motori diventa sempre più arduo.

Il gruppo di lavoro Clever Project sta studiando varie strade per rendere meno ingestibile la situazione. Per esempio un'analisi linguistica per migliorare la qualità delle analogie semantiche (cosa già difficile in inglese e piuttosto ardua se la si estende a una mescolanza di lingue diverse, compreso l'italiano). Gli autori infatti ammettono che un'efficace gestione dei sinonimi e dei contesti è un'impresa molto difficile.

Stanno sviluppando concetti interessanti, come quello delle mining communities: cioè comunità di persone che condividono specifiche aree di interesse e lavorano insieme per trovare, produrre e organizzare le informazioni. Naturalmente ci sono già molte comunità di questo genere nella rete, ma può essere un'idea cercare di catalogarle, renderle più facilmente reperibili, aiutarle a conoscersi fra loro, eccetera.

Stanno anche lavorando sul concetto di hyperlink. Il sistema è piuttosto complesso, ma in sostanza implica la scelta di fonti "autorevoli" per diversi argomenti o settori della conoscenza, che funzionino come "nodi" o "stazioni di smistamento" nel mare magnum del materiale disponibile. Ma gli autori dell'articolo non sembrano rendersi conto dei problemi culturali che stanno dietro a queste scelte. Non credo che il rischio sia un sistema "orwelliano" di spietata censura e rigido controllo dell'informazione, perché se qualcuno tentasse di farlo il gioco verrebbe scoperto; ma è inevitabile che nella scelta dei "nodi autorevoli" intervengano pregiudizi culturali.

Con lodevole candore, gli autori di Clever Project ammettono che il lavoro è appena all'inizio, che molti aspetti restano da approfondire, che il compito è difficile – anche perché la situazione è in continuo cambiamento.

Il problema della "congestione informativa" non è nato con la rete. Esiste, ed è oggetto di discussione e approfondimento, da molti anni. La disponibilità diretta di tanto materiale in rete lo ha solo reso più evidente. Ma oggi, con la rete, ci aspettiamo che in qualche modo il problema sia più facilmente risolvibile. E restiamo delusi quando "tocchiamo con mano" quanto sia difficile orientarsi nell'enorme quantità del materiale disponibile.

Quali saranno le soluzioni? Non lo so. Ma mi sembra necessario che siano più di una. Già oggi esistono, nel mondo, 800 motori di ricerca e non credo che il numero tenda a diminuire. Lo sviluppo più utile per il futuro mi sembra una crescente specializzazione, così che ciascuno possa scegliere i nodi e le fonti più affini alle sue esigenze. Ma credo che nulla, mai, potrà sostituire la curiosità personale e la ricerca di strade meno ovvie; e che nessuna soluzione tecnica, per quanto raffinata, potrà sostituire il filo sottile ma forte dei rapporti umani e la capacità individuale di scoprire, con ingegno, fantasia e un po' di fortuna, quei percorsi meno facili ed evidenti che sono spesso i più utili.

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loghino.gif (1071 
byte) 3. Il valore della fiducia

 

"Guarda com'entri, e di cui tu ti fidi" dice Minosse a Dante nel canto V dell'Inferno. La citazione non è scelta a caso. Spero che abbiano in mente questo verso, più che "lasciate ogni speranza", quegli operatori nel mondo dell'internet che usano metafore infernali. Sono parecchi... uno dei più ambiziosi "portali" italiani si chiama Virgilio; lo stesso nome aveva un pupazzo demoniaco che si offriva come guida alla rete in una trasmissione televisiva; un sito che mette in burla i motori di ricerca si chiama Caronte; non ho capito perché l'anno scorso la Tin, in una campagna promozionale, abbia scelto come simbolo un diavoletto. La rete, naturalmente, non ha nulla di diabolico; o almeno non più del mondo in cui viviamo, di cui è uno strumento e uno specchio. Ma quando ci si avventura in un terreno nuovo è spontanea una certa diffidenza.

Siamo così abituati a fidarci, nella nostra vita quotidiana, che spesso non ce ne accorgiamo. Quando entriamo in una gelateria, non chiediamo un certificato di commestibilità degli ingredienti. Se chiediamo a una persona sconosciuta un'indicazione stradale, ci aspettiamo che ci indichi il percorso giusto; e di solito la nostra fiducia è premiata. Abbiamo idee abbastanza precise (anche se non sempre giustificate) su quali sono le persone o le organizzazioni di cui ci possiamo fidare – e quali no. Ma in rete... entriamo in contatto con qualcuno che può essere all'angolo di casa oppure all'altra estremità del pianeta – e la differenza non è immediatamente percettibile. Qualcosa che abbiamo imparato fin dall'infanzia dice, dentro di noi: "non accettare caramelle da uno sconosciuto". Soprattutto, abbiamo la percezione di essere in un ambiente che non conosciamo bene. La nostra propensione alla fiducia scende, le nostre difese si alzano.

Eppure... è interessante notare come nel dialogo in rete molte persone siano disposte ad aprirsi, a fidarsi – anche di qualcuno che non hanno mai visto – più di quanto farebbero al primo incontro con la stessa persona in un altro ambiente. Perché hanno una sensazione di minor pericolo (c'è meno imbarazzo che in un incontro personale, si attenuano i ruoli e le differenze; e si ha la tranquillizzante percezione di poter uscire dalla situazione come e quando si vuole, con la semplice pressione di un tasto). Ma anche perché di quel "qualcuno" si sono fatte un'idea; in base a ciò che dice, a come pensa, al modo in cui si esprime e al contesto in cui avviene l'incontro. (L'articolo di maggior successo, fra tanti che ho scritto sulla rete, è intitolato L'anima il corpo; a distanza di più di due anni continuo a ricevere posta da qualcuno che l'ha letto in qualche angolo del mondo).

La situazione, ovviamente, è diversa quando si tratta di comprare o vendere qualcosa; o comunque in ogni transazione che va al di là del semplice dialogo. Se la fiducia è importante in ogni relazione d'impresa, lo è ancora di più nella rete. Naturalmente possiamo ottenere una certa fiducia in base a ciò che i nostri interlocutori già sanno di noi; è più facile, almeno all'inizio, stabilire la relazione se si è una marca conosciuta o se per altri motivi si ha un capitale precostituito di credibilità. Ma (ancor più che in altre situazioni) in rete non basta ottenere fiducia; bisogna conservarla. Come? Mantenendo ciò che promettiamo – e non promettendo ciò che non possiamo mantenere. Sembra banale, ma non lo è.

Un'impresa ha abitualmente un'idea precisa dei percorsi e delle relazioni; sa quali sono i controlli che deve esercitare, sulla propria attività e su quelle di altri, per soddisfare le esigenze dei suoi clienti. In rete, i fattori in gioco si moltiplicano e le difficoltà possono sorgere dove non ce le aspettiamo. Il nostro interlocutore non ha (come non l'abbiamo noi) una percezione chiara e immediata delle molteplici funzioni o disfunzioni tecniche, o errori umani, che possono inceppare qualcosa. Chi è responsabile? Chi ci ha messo la firma, cioè l'impresa "committente". Conquistare la fiducia in rete è un processo graduale e impegnativo. Perderla può essere cosa di un istante.

Quali sono i rimedi? Quelli su cui tendo a insistere ad nauseam. La sperimentazione, l'esperienza, il controllo – e la disponibilità al dialogo. Il dottor Lucio Carli dirige l'attività online della Fratelli Carli – che da quasi novant'anni vende olio d'oliva (oltre a parecchi prodotti "attinenti") con consegna a domicilio; da tre anni usa anche l'internet. Quando lo incontrai, non molto tempo fa, in un convegno, mi mostrò con sincero entusiasmo un messaggio di critica, ricevuto per e-mail da un suo cliente. Perché con entusiasmo? Perché gli aveva segnalato un problema, di cui l'impresa non si era accorta; e così gli dava la possibilità di risolverlo.

Vale la pena di entrare in questa specie di campo minato? Avventurarsi in un territorio seminato di rischi imprevisti, dove ottenere e mantenere fiducia richiede una continua attenzione? Secondo me, si. Perché si impara molto; e perché chi per primo saprà ottenere la fiducia dei clienti online avrà costruito le basi di un forte vantaggio competitivo. Ma non è qualcosa che si possa improvvisare, né sistemare una tantum con una soluzione standardizzata. La fiducia si coltiva con tempo e pazienza, con un impegno continuo; con la qualità, con il servizio e con una gestione attenta delle relazioni.

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loghino.gif (1071 
byte) 4. Il valore della relazione

 

Ho ascoltato e letto molte diverse e contrastanti spiegazioni del leggendario successo di Amazon. Compresi i dubbi di chi fa notare che finora quell'impresa non ha fatto profitti; o dichi esprime perplessità sulla quotazione del suo titolo in borsa. Ma un fatto rimane: Amazon non è solo la più grande libreria online del mondo, ma è considerata in assoluto la più grande impresa di vendita in rete – e l'esempio più noto di successo nel "commercio elettronico". Era una piccola impresa quando ha "aperto i battenti" online nel luglio 1995. Oggi ha un catalogo di 4,7 milioni di libri e serve 10 milioni di clienti in 160 paesi, con un fatturato di 400 milioni di dollari. Sono un cliente di quella libreria da anni e credo di sapere qual è il motivo fondamentale del suo successo.

La strategia di Amazon è una puntuale, attenta, costante attenzione alla relazione con i suoi clienti. Non vorrei ripetere quanto ho già detto due anni fa sulla qualità del loro servizio. Se non per confermare che, nonostante la gigantesca crescita, sono riusciti a mantenere quella qualità di relazione; come confermano mie esperienze anche recenti e quelle di parecchie persone che conosco.

Dai libri, l'attività di Amazon si sta allargando ad altri settori. È naturale. La fiducia, la qualità di relazione che ha con milioni di clienti è una base solida che può reggere la costruzione di altri edifici: purché lo stesso livello di servizio sia mantenuto in ogni nuovo sviluppo.

Potrei raccontare parecchie esperienze, con altri fornitori, molto meno felici; come, in parte, ho già fatto. Ma preferisco cedere la parola, ancora una volta, a uno dei miei autori preferiti. Nel suo articolo Customer service (21 giugno 1999) Gerry McGovern dice:

L'e-commerce è più impegnativo di quanto si può pensare. Si parla dell'internet come di un fantastico strumento commerciale che permette di vendere al mondo intero a costi enormemente ridotti. Troppo facile per essere vero? Si, lo è. Molti sovrastimano largamente l'internet come strumento di commercio, mentre sottostimano i costi di una vera operazione commerciale online. Non si diventa "e-commerce enabled" mettendo su un sito con un server sicuro. Non basta essere "on the web" per diventare miracolosamente un'impresa globale e far sparire improvvisamente – magicamente – tutti i problemi della vendita in mercati stranieri – o anche solo nel mercato interno. Smettiamo di sognare e guardiamo la realtà. Uno studio condotto in 11 paesi da Consumers International e pubblicato nel giugno 1999 dice che "benché comprare beni sull'internet possa dare vantaggi ai consumatori offrendo convenienza e scelta, ci sono ancora molti ostacoli da superare prima che i consumatori possano acquistare in rete con fiducia". Negli esperimenti condotti da questi osservatori, l'8 per cento dei prodotti ordinati non è mai arrivato. Solo il 32 per cento dei siti esaminati offre informazioni su come protestare se qualcosa non va. Secondo un altro studio, pubblicato in giugno da Net Effect, il 67 per cento delle persone interessate a dare acquisti in rete rinuncia all'idea per la mancanza di un efficace "customer support" in tempo reale; e solo il 5,7 percento fa un ordine. Sempre in giugno, la Federal Trade Commission americana ha diffuso un suo studio su 200 siti web in 18 paesi. Ha constatato che solo il 26 per cento dei siti dava indicazioni sulla restituzione dei prodotti e solo il 9 per cento sui termini di annullamento dell'ordine. "Se le persone non si sentono sicure e tranquille con il commercio elettronico, non useranno l'internet e tutte le rosee previsioni sullo sviluppo commerciale della rete non si avvereranno" ha osservato il ministro americano del commercio, William Daley. Non basta vendere per sviluppare le vendite, come sanno bene tutte le imprese di successo. Perciò mi sorprende che persone normalmente ragionevoli perdano la testa quando si tratta di e-commerce. Parlano animatamente di quante occasioni apre e di come ridurranno i costi a un centesimo di quelli attuali. Si, l'occasione c'è; è grande e aperta. Ma sembra che ogni imprenditore e il suo cane si stano precipitando a cercare di approfittarne. È un mondo di cane-mangia-cane – meglio stare attenti. L'internet non è la pietra filosofale. I costi sono costi. Ciò che succede con la rete, come nell'information technology, e che i costi non si eliminano, si spostano. L'IT in certe aree ha ridotto i costi, ma ha ridotto anche la fedeltà dei clienti; così aumenta il costo di trovare nuovi consumatori. L'internet fa la stessa cosa. Ci sono imprese che investono milioni e milioni (di dollari) per costruire e mantenere le loro marche nell'affollato ambiente online. Possono aver bisogno di meno personale per gestire i siti web; ma chi lo sa fare costa caro ed è difficile trovarlo. L'automazione non è tutto. Come dimostra efficacemente lo studio di Net Effect, le persone desiderano comunicare con altre persone prima di fare un acquisto. Se l'e-commerce non diventa reale (cioè umano) le relazioni con i clienti saranno il suo tallone d'Achille.

Perché una citazione così lunga? Perché il percorso dell'analisi, ricco e complesso, porta a un'inevitabile conclusione: la relazione è ciò che conta. E anche perché ci conferma che il problema non è solo italiano. Il gigante (reale o immaginario) del "commercio elettronico" mondiale ha ancora i piedi d'argilla. Il gioco è aperto, quasi nessuno ha le idee chiare; solo Amazon e pochi altri hanno una reale, consolidata esperienza.

C'è un'obiezione, che ho sentito spesso. Siamo in Italia; non è facile quotare in borsa un'impresa in perdita e mettersi a riparo dai rischi con parecchi miliardi in banca. Dobbiamo far tornare i conti. Come possiamo permetterci di dare a milioni di clienti un servizio così efficiente (e costoso) come quello che offre Amazon?

Si è già parlato, fin dal primo numero di questa rubrica, dei motivi per cui le imprese italiane possono, più di altre, avere un successo in rete. In sostanza, secondo me, un fatto è chiaro: siamo davanti alla classica equazione problem-opportunity . Con il notevole vantaggio che la dimensione è flessibile. In rete ognuno può definire il suo ambito di azione; costruire una sua rete su misura. Che non è una "nicchia", ma un vero e proprio mercato.

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loghino.gif (1071 
byte) 5. Il valore delle comunità

 

Da quattro o cinque anni, man mano che la diffusione dell'internet assumeva la portata dei "grandi numeri", l'attenzione si è andata concentrando sui (presunti) fenomeni "di massa" – e sembrava perso di vista quello che è sempre stato il tessuto portante delle reti telematiche: le comunità. Ora sembra che il concetto sia venuto di moda, come strumento di marketing; ma credo che l'argomento vada approfondito con una certa attenzione – esenza dimenticare ciò che si è imparato nell'ormai lunga esperienza delle comunità online.

L'idea delle comunità come strumento per la comunicazione d'impresa cominciò a diffondersi dopo la pubblicazione di un libro di cui ho già parlato quasi due anni fa: Net Gain di John Hagel e Arthur Armstrong. Si diffuse il concetto che it takes a village to make a mall ("ci vuole un villaggio per aprire un mercato"). In sintesi, la tesi del libro è che è che le comunità in rete "sono una cosa ottima per l'umanità e quindi anche una cosa buona per il business".

Il concetto di "gestione di comunità" sta cominciando a diffondersi anche da noi (anche se finora mi sembra di vedere più discussioni teoriche che efficaci applicazioni pratiche). Per esempio Elena Antognazza, che gestisce mktg, uno dei gruppi di discussione italiani in tema di "web marketing", dedica particolare attenzione a questo argomento. Vedi il suo articolo Il marketing relazionale: introduzione alle comunità di interessi.

Ci sono vari modelli tecnici e strutturali di comunità online, che esistono da dieci o vent'anni. Liste di dialogo, newsgroup, BBS, "liste civiche", community network, eccetera. Anche la piattaforma world wide web può essere usata efficacemente per costituire e organizzare comunità: cioè non è detto che un "sito web" debba essere solo una vetrina, una biblioteca o un catalogo. Può essere (e in molti casi è) un punto di riferimento per una (o più di una) comunità online.

C'è un fatto ovvio, ma non mi sembra inutile ribadirlo – e cercare di approfondirlo un po'. Il concetto di comunità è vecchio come il mondo. Non è immaginabile alcuna società umana che non sia un tessuto di comunità. Si incrociano (ciascuno di noi fa parte di parecchie comunità diverse) ma ognuna ha un'identità propria. Possono essere aggregati labili, che durano poche ore o pochi giorni; o sistemi di relazione consolidati e ritualizzati, che durano secoli o millenni. Possono avere una struttura formale e una gerarchia, o essere aggregazioni spontanee senza un "centro" apparente. Che cosa accade in rete? Le stesse cose.

Ognuno di noi gestisce quotidianamente, anche quando non se ne accorge, diversi sistemi di comunità. Qui vorrei soffermarmi (perché ne derivano precise conseguenze pratiche) sul concetto di "gestire". Molti lo intendono in senso gerarchico: il compito di gestire è di chi occupa un livello "alto" in una gerarchia e si riferisce a chi sta al di sotto di quel livello. Credo che sia utile e importante intendere il concetto in modo diverso. Conosco parecchi dirigenti d'impresa che mi spiegano come la parte più impegnativa del loro lavoro non sia gestire i "dipendenti" ma i livelli più alti dell'organizzazione. Attenti studiosi delle relazioni umane spiegano che un'amicizia (anche un amore) ha bisogno di essere "gestita" – cioè nutrita di attenzione e cura – se vogliamo che cresca e ci dia tutta la ricchezza di cui è capace. Questo genere di affettuosa gestione (ho scelto intenzionalmente un aggettivo emozionale) è importante in tutte le comunità umane; e specialmente in quelle online, dove manca la presenza fisica.

Non tento una "classificazione" delle comunità online, che potrebbe essere semplicistica (quindi inadeguata) o troppo complessa. Anche perché qualunque sia lo schema dell'esistente ognuno può avere un'idea nuova o definire una comunità "su misura"; e spesso è proprio questa la soluzione migliore. Ma credo che alcuni criteri generali possano essere utili.

  • Ci sono due visioni "estremistiche". Quella di chi pensa che una comunità sia automaticamente distrutta o corrotta se interviene una presenza commerciale; e quella di chi crede che basti organizzare comunità "di comodo" – insulsi salotti nell'angolo di un negozio, o tutt'al più sistemi di "fidelizzazione" che, per quanto elegantemente si possano vestire, sono poco più che "raccolte punti" (come per esempio i "club" delle linee aeree). La strada giusta non è una "via di mezzo" fra questi due estremi ma una concezione completamente diversa: in cui da un lato si capisca che un apporto "commerciale" può essere utile (anche, ma non solo, perché porta denaro); dall'altro che una comunità "asservita" perde valore e credibilità – sostanzialmente muore o si trasforma in uno sterile sottoscala.
  • Si può entrare in una comunità esistente o crearne una ex novo. Nell'uno e nell'altro caso bisogna essere rispettosi. Non essere "invasivi" se entriamo in un territorio che ha già una sua cultura. Non essere "prepotenti" se organizziamo qualcosa che sarà tanto più utile quanto più sarà capace di vivere di vita propria e trovare percorsi e sviluppi che non avevamo previsto.
  • Una comunità deve essere libera. Tutti i partecipanti devono avere pari diritti, tutte le opinioni devono essere rispettate (anche quelle scomode) ed è bene che ci sia spazio per l'innovazione e l'imprevisto. Ma ciò non significa anarchia totale. Occorre una definizione di identità (la cosiddetta policy) che stabilisca qual è l'area di interesse e quali sono le regole di comportamento. Occorre una persona responsabile che gestisca, con rispetto ma fermezza, l'andamento del dialogo, per evitare deviazioni, dispersioni, complicazioni e inutili appesantimenti. Cioè quello che da sempre, nelle liste e nei newsgroup, si chiama "moderatore"; e quel sistema di "buona creanza" e rispetto reciproco che, fin dalle origini della rete, si chiama netiquette.

Quando si organizza una comunità online (o si entra in una comunità esistente) è meglio non pensare subito, né prevalentemente, a "vendere". Una comunità non è lo scaffale di un negozio o una bancarella di "offerte speciali". È una preziosa fonte di informazioni, verifiche e idee. Un modo per costruire relazioni, dare servizio, coltivare rapporti di familiarità e fiducia. Non è uno scherzo dire che una comunità viva e attiva è un gruppo di persone che lavora gratis per noi. Ma dobbiamo ricordare che nulla, mai, è del tutto gratis: quelle persone devono ricevere qualcosa in cambio. Conoscenza, esperienza, informazione. E magari, qualche volta, anche un segno tangibile della nostra riconoscenza. Non voglio mettere limiti alla fantasia... ma è opportuno, secondo me, che questi riconoscimenti siano ad personam e che si evitino le più banali ovvietà, come un cd-rom "fondo di magazzino" o il quarantacinquesimo tappetino per il mouse.

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loghino.gif (1071 
byte) 6. Non siamo tutti uguali

 

In attesa di qualche approfondimento, che vedremo in un prossimo numero, sull'utilizzo della rete in Italia, questi sono alcuni semplici dati che riguardano la situazione negli Stati Uniti. Non conosco la fonte originale, né la ricerca su cui si basano; la tabella è stata presentata, nel già citato convegno del 16 giugno, da Carlo Malaguzzi, che dirige la Internet Division di Microsoft Italia.

  Giugno 1996 Aprile 1998 Dicembre 1999
Tecnologici 24 % 11 % 11 %
Esploratori 24 % 12 % 14 %
Ludici 22 % 15 % 14 %
Riluttanti 16 % 29 % 20 %
Pragmatici 14 % 33 % 41 %

La classificazione, evidentemente, è molto semplificata. I modi di utilizzare la rete, e gli atteggiamenti delle persone che la usano, sono infinitamente diversi e difficilmente riducibili a cinque o dieci "categorie". Ma pur nella sua schematicità (e benché riguardi una situazione molto diversa da quella italiana) questa analisi ci dice alcune cose interessanti.

È abbastanza ovvio che i "tecnologici", che erano una parte importante (anche se non del tutto preponderante) del mondo della rete ai tempi delle origini, diminuiscano in percentuale man mano che l'uso si estende.

La categoria degli "esploratori" può comprendere persone molto diverse. I più o meno immaginari "maniaci della rete" cui ho accennato un anno fa quando parlavo del navigatore inesistente. Cioè quelle persone che si aggirano lungamente e vagamente alla ricerca di "non si sa cosa"; che secondo un'opinione diffusa sarebbero la maggioranza delle persone in rete, mentre sono una piccola e labile minoranza. Ma in questa classificazione entrano anche persone di tutt'altra specie, cioè quelle che usano attivamente la rete in modo preciso e mirato per ricerca, dialogo e partecipazione. Il confine fra questi comportamenti non è preciso; i "navigatori" vaghi dopo un po' di tempo abbandonano, oppure si trasformano in "esploratori" più avveduti. Benché siano pochi (meno di una persona su sei – probabilmente in Italia, per ora, molto meno di una su dieci) i veri "esploratori" sono una categoria importante, che merita attenzione. Indipendentemente dalla numerosità, sono un nucleo rilevante, soprattutto quando vogliamo sviluppare una comunità o comunque stabilire un vero dialogo interattivo.

I "ludici" sono pochi – e la percentuale è in diminuzione. Sono anche, credo, effimeri: la fase di "gioco" (come uso prevalente della rete) può durare mesi o forse anni, ma presto o tardi finisce. Mi sembra curioso che gran parte delle informazioni e dei commenti sulla rete si concentri su questo tipo di comportamento.

I "riluttanti" sono ancora parecchi, nonostante la familiarità con la rete che si è diffusa nei paesi più avanzati. Questa componente (spesso, fra l'altro, meno dichiarata di quanto sia davvero) ha un peso più rilevante nei paesi più arretrati, come il nostro. Mi sembra che questa categoria (o meglio i vari e diversi atteggiamenti che la compongono) meriti un'attenzione particolare. Capire quali valori convincerebbero queste persone ad acquistare più familiarità con la rete può portare a scoperte e innovazioni molto significative per tutti.

La crescita dei "pragmatici" mi sembra l'elemento più importante di questa classificazione. Probabilmente è e sarà questa la componente più forte, per numero e per potere d'acquisto. Poco interessati a una generica "navigazione", poco disposti a perdere tempo, ma fortemente interessati a informazioni e proposte precise che corrispondano ai loro interessi e alle loro esigenze. Offrire ciò che vogliono (e mantenere la promessa) non è facile, ma può essere molto redditizio.

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Lista dei link

Alcuni lettori mi hanno fatto notare che stampano il testo prima di leggerlo e quindi non possono andare direttamente, durante la lettura, ai link offerti online. Per comodità di chi legge offline, ecco una lista dei riferimenti citati in questo numero.

Spamming http://gandalf.it/mercante/merca2-htm#heading04
Le vie della rete sono infinite http://gandalf.it/garbugli/garb27.htm
Clever Project http://www.almaden.ibm.com/cs/k53/clever.html
L'anima e il corpo http://gandalf.it/garbugli/garb08.htm
Fratelli Carli http://www.oliocarli.it
Il diavoletto e altri misteri http://gandalf.it/mercante/merca17.htm#heading03
Amazon http://www.amazon.com
Amazon in Europa http://www.amazon.com.uk e http://www.amazon.de
Una piccola storia di cinque libri http://gandalf.it/mercante/merca5.htm#heading05
Tecnologie e servizio http://gandalf.it/mercante/merca30.htm#heading02
Customer service http://www.nua.ie/newthinking/archives/newthinking327/
Essere italiani in rete http://gandalf.it/mercante/merca1.htm#heading04
Debole Italia... ma grandi possibilità http://gandalf.it/offline/off01.htm
Un'idea nuova e antica: "Mianet" http://gandalf.it/mercante/merca12.htm#heading04
L'importanza delle comunità http://gandalf.it/mercante/merca8.htm#heading04
Mktg http://www.mktg.it/
Il marketing relazionale http://www.mktg.it/marketing_relazionale.htm
L'intramontabile BBS http://gandalf.it/gargugli/garb11.htm
Netiquette http://gandalf.it/net/netiq.htm
Stiamo dimenticando la netiquette? http://gandalf.it/gargugli/garb17.htm
Il navigatore inesistente http://gandalf.it/mercante/merca21.htm#hading01

 

 

 

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