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letterIl Mercante in Rete
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Numero 25 - 31 agosto 1998 |
Cito volentieri, ancora una volta, uno dei miei autori preferiti: Gerry McGovern (di
cui ho riportato interessanti osservazioni qualche mese fa, nei numeri 13 e 14 di
questa rubrica). Nel suo articolo del 24 agosto The Myth of the individual affronta un problema che mi sembra importante. Da alcuni decenni sentiamo parlare spesso della fine del mondo "massificato" dellera industriale, di una crescita della diversità e dei valori individuali; ma continuiamo a vivere in una cultura in gran parte banale e disperatamente ripetitiva (o almeno così rappresentata e pilotata dai grandi "mezzi di massa" e dalla loro sempre più piatta omogeneità su scala globale). Ecco che cosa dice, a questo proposito, Gerry McGovern:
Anchio, come Gerry McGovern, non sono anti-americano. Ci sono molte cose dellAmerica che ammiro, che mi piacciono, che mi divertono; come ce ne sono molte che sarebbe meglio non imitare troppo pedestremente. Quelli che mal sopporto sono gli pseudo-americani di casa nostra; compresi gli anti-americani che, con una lattina di coca-cola in una mano e un panino-hamburger nellaltra, "dicono male" dellAmerica senza saperne gran che e mal copiando, o peggio traducendo, le critiche già fatte da qualcuno oltre oceano. Ma torniamo al tema dellindividualità. Si dice che gli italiani siano individualisti; in parte è vero, se non altro "per difetto". Rovinati da duemila anni di malgoverno, abbiamo una scarsa coscienza civile. Se questo è un disastro sociale, ha un risvolto positivo: la nostra capacità di "cavarcela", di gestire limprevisto, di trovare strade e modi di agire là dove chi ha una mentalità più rigida arriva in ritardo. La cultura dellomogeneo, del ripetitivo, la negazione delle differenze è un terreno che ci è poco favorevole. Lo coltiviamo quotidianamente, nellimitazione e nellaggregazione, nella passività che accetta e amplifica i modelli e i miti. Da questa prigione dobbiamo liberarci se vogliamo essere competitivi nelleconomia e nella cultura del mondo. La rete è unoccasione senza precedenti per dare spazio allindividuale, al diverso, al "piccolo"? Credo proprio di si. Ma è abbastanza ovvio che, anche in rete, i grandi sistemi omogenei, ripetitivi e concentrati stanno facendo tutto il possibile per prendere il sopravvento, e in parte ci sono riusciti. Il problema è che sul quel terreno quasi nessuno, in Italia, ha la possibilità di competere. Credo che per tutti sia un bene coltivare la diversità e lindividualità. Per noi, è necessario. |
Mi sono chiesto molte volte perché sia proprio in Finlandia il più intenso uso della
rete. Ho sentito varie spiegazioni, di cui la più semplice è che fa freddo, quindi è
meno facile incontrarsi in giro. Forse può essere un fattore, ma non credo che sia il
più importante; ci sono paesi freddi, come la Russia, dove luso della rete è molto
meno diffuso. La bassa densità di popolazione è un motivo rilevante; infatti vediamo una penetrazione elevata della rete negli altri paesi scandinavi, in Canada, in Australia, eccetera. Ma ci sono paesi densamente popolati con uso intenso della rete come lOlanda. Credo che ci siano altre spiegazioni. Ecco che cosa dice, per esempio, il mio amico David Casacuberta, che è appena ritornato a Barcellona dopo un ennesimo soggiorno in Finlandia.
Purtroppo non conosco la Finlandia. Ci sono stato solo una volta, per pochi giorni e solo a Helsinki. I (non molti) finlandesi che conosco corrispondono a questa descrizione; e mi sono decisamente simpatici. Non so se sia giusto definirli "timidi", ma ho sempre considerato la timidezza come un segnale di qualità; spesso è lo stile di persone sensibili, intelligenti, con unumanità profonda e una grande capacità espressiva che si rivela quando si superano le barriere di un dialogo neutro e convenzionale. (Mi viene in mente anche che gli italiani hanno un carico fiscale non inferiore a quello dei finlandesi; ma il nostro stato fa un uso molto peggiore dei nostri soldi). Unaltra osservazione sullo stesso argomento viene dallIrlanda. Ecco che cosa scrive Sorcha Ni hEilidhe in un articolo del 12 agosto su NUA:
Insomma sembra che il motivo per cui linternet è così diffusa in Finlandia sia il carattere dei finlandesi. La loro superiorità tecnica è una conseguenza, non lorigine, del loro comportamento. Questa storia, secondo me, ha una morale. Quando cerchiamo di capire qualcosa della rete (come di ogni altro sviluppo tecnologico) troviamo sempre che le componenti più importanti sono umane e culturali. Con un pizzico di "volontà politica": cioè la capacità di un governo (e di un sistema culturale, sociale ed economico) di capire le esigenze dei cittadini e di fare ciò che è necessario per soddisfarle. Forse dovremmo imparare dai finlandesi. Meno chiacchiere insulse, meno schiamazzi e parole al vento, più scambi di sentimenti e di esperienze umane, più corrispondenza scritta... e uno stato che usi un po meglio il denaro dei contribuenti, magari anche cercando di far crescere la rete invece di reprimerla e imbavagliarla o farla sembrare, come fa con ossessiva insistenza la televisione pubblica, un covo di "pedofili" e di maniaci. |
Non vorrei ripetere per lennesima volta i motivi per cui non mi sembra
importante cercare di misurare il numero di "utenti" internet e le
ragioni per cui non considero molto attendibili, né comparabili, i vari sistemi con cui
si cerca di stabilire quanti sono. Ho sempre pensato che non si possa stabilire una relazione diretta fra il numero di host internet e il numero di "utenti". Ma forse sbaglio. Cè chi sostiene che una correlazione esiste; e che in giro per il mondo ci sono "circa" quattro o cinque utenti per ogni host. La tesi è un po strana, perché se fosse vero negli Stati Uniti ci dovrebbero essere fra 95 e 120 milioni di "utenti" mentre chi ha cercato di contarli dice che sono fra 30 e 70. Ma nel resto del mondo sembra che la correlazione non sia insensata (se pensiamo a una definizione estesa di "utente"). È vero che alcuni domain .com, .net o .org hanno proprietari non americani (così come possono essere, e infatti talvolta sono, americani i proprietari di domain .it). Ovviamente non cè alcuna relazione "obbligatoria" fra lidentità nazionale di un domain e la macchina "fisica" su cui opera e neppure con la sede della persona o organizzazione che lo gestisce. Sappiamo che pampurio.com può essere in Italia, così come pampurio.it può essere in Finlandia; unorganizzazione di Torino o di Toronto può avere un domain pampurio.to (isola di Tonga). Per esempio wmtools.com, che ospita questa rubrica, appartiene a unimpresa di Gallarate e funziona su un server a Bologna; il domain gandalf.it, che è legalmente e sostanzialmente italiano, funziona su un server nelle Baleari. Ma se si approfondisce un po il problema si capisce che in totale i host "apparentemente americani", o comunque con una sigla diversa da quella della loro identità nazionale, non sono più del due o tre per cento: quindi il calcolo non cambia in modo rilevante. Con tutte queste premesse e riserve... proviamo a vedere, per curiosità, quanti "utenti" ci sarebbero, se questo calcolo fosse accettabile, nei 29 paesi che secondo lultimo censimento mondiale avevano più di 50.000 host (esclusi gli Stati Uniti) e nelle grandi aree geografiche (esclusi Stati Uniti e Canada). Per i paesi europei ci sono due numeri: il primo basato sullanalisi "mondiale", laltro sui dati dellarea Europa-Mediterraneo (che sono un po diversi e più aggiornati).
È un calcolo un po arbitrario... ma il risultato è curiosamente vicino alle cifre cui si arriva con altri metodi. |
Le vicende giudiziarie fra la Microsoft e le autorità americane si trascinano in un
seguito di vicende complesse, in cui emergono qua e là temi che vanno oltre il caso di
una singola azienda. Nathan Newman di NetAction, in un articolo del 20 agosto, spiega che il giudice Thomas Penfield Jackson della U.S. District Court ha ordinato alla Microsoft di consegnare i "codici sorgenti" di Windows ai rappresentanti legali dello stato, così che possano determinare se la società "ha usato le strutture interne del codice per espandere illegalmente il suo monopolio". Cosa che ha suscitato violente proteste della Microsoft. Questa situazione, dice larticolo, mette in evidenza il fatto che un sistema operativo segreto è incompatibile con le esigenze legali e di innovazione della nuova economia. Lascio agli esperti di legge lapprofondimento degli aspetti giuridici. Ma ciò che mi sembra evidente è che si mette ancora una volta sul tavolo un problema di fondo. I temi della nuova economia, così efficacemente inquadrati nellarticolo di Kevin Kelly di cui ho pubblicato un riassunto lanno scorso, mettono laccento sui valori delle conoscenze condivise e dello scambio di informazioni; e limportanza delle soluzioni aperte è fondamentale per lo sviluppo delle nuove tecnologie e in particolare della rete. Osserva Nathan Newman:
Sono convinto che nel mondo di oggi il concetto generale di "proprietà intellettuale" e "diritto dautore" debba essere rivisto. Il tema si pone con particolare intensità e urgenza nel settore del software, e specialmente dei sistemi operativi e della connessione in rete, dove la segretezza e "chiusura" delle tecnologie è un danno grave per tutti e porta non solo a una carenza di innovazione ma a quella scadente qualità, inefficienza e inutile complessità di programmi e sistemi con cui siamo costretti a vivere. Non è facile capire se, come e quando il problema sarà risolto. Potrebbero influire le iniziative di concorrenti intelligenti, le scelte di grandi istituzioni o (come in questo caso) lintervento della magistratura o di autorità normative. Per ora si stanno aprendo solo piccoli spiragli, si stanno combattendo battaglie legali e commerciali che sembrano gigantesche ma sono scaramucce marginali rispetto alla sostanza del problema. Non ci resta che sperare che qualche fessura si allarghi abbastanza per far crollare qualcuno dei muri che si oppongono alle soluzioni più efficienti o per aprire una strada a chi è in grado di offrirci soluzioni migliori. Ecco alcune fonti di approfondimento su questo tema, pubblicate in un numero speciale di Web Review e citate nellarticolo di Nathan Newman: Measuring the Impact of Free Software What's New in Free and Open Source Software The Origins of Free and Open Source Software Ci sono anche due interessanti articoli che avevo già citato lanno scorso: The Cathedral and the Bazaar di Eric Raymond e il rapporto alla OReilly Perl Conference Information Wants to be Valuable. Altre osservazioni a questo proposito si trovano sul sito NetAction. |
Un antico proverbio dice "chi lascia la via vecchia per la nuova...". Chi ha
avuto la pazienza di leggere i numeri precedenti di questa rubrica sa che ho imparato a
diffidare delle innovazioni tecnologiche, specialmente se non corrispondono a esigenze
reali e verificate. Un articolo pubblicato il 24 agosto da Antóin O Lachtáin (anche questo viene dallIrlanda) In Praise of Lo-Tech spiega con molta chiarezza la situazione.
Insomma si riconfermano due princìpi. Il primo è che linnovazione tecnologica è davvero utile solo quando corrisponde a esigenze reali e rilevanti e linnovazione (o tecnologia) "fine a se stessa" spesso fa più danno che bene. Il secondo è che sistemi semplici, compatibili, aperti e condivisi funzionano molto meglio dei sistemi inutilmente complessi o comunque chiusi. |
Sono sempre più perplesso su tutta una serie di neologismi che infestano
lelettronica e la rete; in particolare su termini confusi come "virtuale"
o "multimediale" (o qualsiasi parola che cominci con "ciber" o, peggio
ancora, con "cyber" che non è solo un errore di ortografia). Ma cè una parola che (anche se suona un po comica) ha un significato serio: ipertesto. Sembra che molti la intendano come un modo per associare testo, immagini, suoni e (volendo) anche animazioni. Infatti può fare anche questo. Ma leterno culto delle apparenze tende a mettere in ombra la qualità più importante di questa risorsa: lorganizzazione delle informazioni. Mi perdonino gli esperti se dico cose, per loro, risapute; e se non sono molto preciso sugli aspetti tecnici. No ho alcuna intenzione di entrare nei dettagli della tecnologia (un manuale pubblicato a puntate da Repubblica per spiegarli occupa 600 pagine). Vorrei solo accennare ad alcuni fatti fondamentali che secondo me dovrebbero interessare a tutti, non solo agli "addetti ai lavori". Il concetto di "ipertesto" è nato ventanni prima della tecnologia oggi più diffusa (HTML cioè HyperText Markup Language, che è lossatura della World Wide Web) e può benissimo sopravvivere a quella e ad altre tecniche specifiche. Già oggi si comincia a usare un metodo con possibilità più estese, XML (Extensible Markup Language) che ognuno può modificare e adattare secondo le sue esigenze; tanto è vero che alcune comunità scientifiche hanno sviluppato linguaggi specifici per le loro discipline, come Math Markup Language per la matematica e Chemical Markup Language per la chimica: che permettono di scrivere (e leggere) formule algebriche o strutture molecolari senza doverle trasformare in "immagini". Cè anche MusicML, che permette di conservare (e trasmettere) composizioni musicali sotto forma di "testo". Forse può interessare ai "non tecnici" questo fatto: ciò che noi vediamo come testo è, per il computer, una massa di dati senza senso; mentre sono "linguaggio" per il software quelle istruzioni, espresse (come il testo) in caratteri "alfanumerici", che noi non vediamo quando leggiamo con un browser un testo in HTML o quando scriviamo o leggiamo con qualsiasi word processor. Ma qual è il punto fondamentale, che interessa a ogni utilizzatore della rete, a chi legge come a chi propone contenuti? È la struttura dellinformazione; quella che spesso viene chiamata (e mi sembra giusto) larchitettura di un sito (come di ogni struttura organizzata dei contenuti, che si trovi su un singolo computer o su un sistema di rete, su un cd-rom o su qualsiasi altro supporto). Dal punto di vista tecnico, loperazione non è banale; richiede competenza ed esperienza. Ma la parte più importante (e più difficile) è lorganizzazione concettuale dei contenuti. Una struttura "ipertestuale" permette una profondità "potenzialmente infinita" di informazione e documentazione, che può essere collocata in una "gerarchia" complessa su n livelli. Inoltre i link permettono di collegare trasversalmente i contenuti, passando da un settore allaltro dove ci sono nessi rilevanti; e nel caso di un sito web permettono collegamenti "esterni" ad altri siti che offrano approfondimenti o contenuti "attinenti" al tema. Il problema è: come dare la massima quantità possibile di informazioni e notizie con la massima facilità di accesso? Un sito web, o qualsiasi altro sistema "ipertestuale", è tanto più utile quanto più è complesso (cioè ricco di informazioni a vari livelli di approfondimento) e quanto meno appare complesso e difficile al lettore. Conciliare le due esigenze (profondità di contenuto e facilità di accesso) è tuttaltro che facile; anche perché occorre saperlo fare dal punto di vista del lettore e non di chi fornisce i contenuti. Ma è fondamentale: sta proprio in questo la superiorità di una struttura "ipertestuale" rispetto a ogni altra possibile forma di comunicazione. La qualità del servizio offerto ai lettori è uno dei principali fattori di successo di un sito online. |
Come ho già detto molte volte... uno dei motivi per cui lo sviluppo della
rete in Italia è ancora arretrato è la continua diffusione di notizie terrorizzanti.
Pochi giorni fa parlavo con un imprenditore che fa da tempo, e con successo,
"commercio elettronico". Vende bene allestero; poco o nulla in Italia.
Senza che io avessi minimamente accennato allo scandalismo sulla rete, mi ha detto: Sa,
in Italia... con tutte queste storie sulla pedofilia.... Non mi stancherò mai di
ripetere (almeno fino a quando la persecuzione finirà) che il continuo stillicidio di
notizie terrorizzanti sulle nuove tecnologie di comunicazione non giova allo sviluppo
civile, culturale ed economico del nostro paese e tantomeno al business
online. Fra tanti... ecco un episodio recente. Sono ben note, a chi sa comè fatto un giornale, le malefatte dei "titolisti", che spesso stravolgono il significato di un articolo. Ne ha riparlato recentemente anche Umberto Eco in una delle sue "bustine". È il caso di un articolo uscito su Repubblica il 31 agosto a firma di Annalisa Usai e con il titolo Internet è sottaccusa. Fa ammalare di tristezza. Parla dellennesima ricerca in cui qualcuno cerca di dimostrare che linternet fa male alla salute. Naturalmente molto discutibile, non tanto per la dimensione del "campione" (169 persone a Pittsburgh) quanto perché, come sa chi ha avuto occasione di approfondire cose del genere, si può "dimostrare" con una ricerca che qualsiasi cosa è "ansiogena" e produce tristezza. Lesperienza quotidiana ci dice che la vita non è facile; anche le cose più gioiose possono avere risvolti un po tristi. E se ci si mette di mezzo uno psicopatologo... Larticolo è abbastanza equilibrato. Conclude con questa osservazione: Tora Bikson, studiosa a capo di molte ricerche sul rapporto tra Internet e partecipazione civile ... suggerisce sarcastica quella che potrebbe essere la causa della depressione delle 169 cavie dello studio. Secondo la Bikson, dopo aver navigato per due anni nellintero web, quei 169 signori potrebbero essersi chiesti: "Cosa ci sto a fare a Pittsburgh?". (Sono stato a Pittsburgh e capisco il punto di vista di Tora Bikson). Ma il titolista e limpaginatore che ha aggiunto disegnini con teschio e tibie (e con leterno stupido ritornello della "pedofilia") hanno stravolto completamente il senso del testo. (Lo stesso tema è stato ripreso dalla RAI in un telegiornale, con toni drammatici e funerei... sembra proprio che le reti televisive pubbliche e private non perdano mai un pretesto per spargere terrore e desolazione sullinternet). Sarebbe interessante capire perché Repubblica, che ha una forte presenza online, continui a pubblicare cose di questo genere. Non perché così "si tira la zappa sui piedi". Se la notizia fosse rilevante, il "dovere di cronaca" dovrebbe prevalere sugli interessi delleditore. Ma questa notiziola è di scarsissimo rilievo... ci sono infinite cose, molto più interessanti, da dire sullinternet. Possibile che ancora oggi tanti editori e giornalisti (della carta stampata e della televisione) abbiano paura della rete, cerchino tutti i modi per "demonizzarla" e per spaventare i loro lettori o spettatori? Possibile che non capiscano come questa perenne insistenza sui presunti "mali" della rete è uno dei motivi della nostra grave arretratezza nei nuovi sistemi di comunicazione? E che si possono creare molti più posti di lavoro con un uso intelligente della rete che con i macchinosi e inefficaci provvedimenti che stanno architettando i nostri politici? |