La comunicazione
ieri, oggi... e poi?

 
Intervista di Luca Oliverio a Giancarlo Livraghi su “Comunitazione
23 dicembre 2002

 
Questa intervista è un po’ insolita,
perché mi sono state fatte domande
che sconfinano, in parte,
dagli argomenti cui è dedicato questo sito.

D’altro lato mi scuso, anche questa volta,
con i miei lettori abituali,
perché in parte ripercorre argomenti
già trattati in libri o articoli.

Ma poiché domande come queste
si sentono fare spesso, in diverse occasioni,
forse non è inutile
pubblicare anche qui le risposte.

Benché alcune domande
si riferiscano a vicende individuali,
spero che il significato delle risposte
vada oltre le esperienze
(come tali, poco interessanti)
di una sola persona.
 



Lei si laurea in filosofia. Come le viene in mente di fare il comunicatore?

Si tratta di capire che cosa si intende per filosofia. Per me (e per i “buoni maestri” che ho avuto la fortuna di seguire) si tratta di metodologia del conoscere – cosa evidentemente e strettamente connessa con la comunicazione. Comunque mi ha sempre affascinato il tema (e il problema) della comunicazione umana.


Un filosofo comunicatore, dunque. Ma in quegli anni, mi sbaglio o nasce anche il corso di laurea in sociologia in Italia?

Non lo ricordo esattamente... credo che, press’a poco, sia così. Ma non so quanto sia utile la moltiplicazione di facoltà specialistiche (oggi non c’è solo sociologia, ce ne sono molte di più su vari aspetti della società e della comunicazione). Anche nel precedente ordinamento si studiava, di fatto, sociologia. Cioè psicologia, storia, antropologia, eccetera, erano materie di studio nelle facoltà “umanistiche”. Anche la geografia, se non ci si limita a un banale nozionismo, è una scienza culturale.

Ai giovani che mi chiedono un’opinione consiglio sempre di evitare prigioni specialistiche e di farsi una cultura estesa, molteplice, ricca di varietà. I “pezzi di carta” come lauree e diplomi servono a poco. Ciò che conta è il patrimonio culturale che ognuno riesce a costruirsi. Bisogna saper imparare non solo nelle aule scolastiche ma anche in una varietà, soggettiva e “contaminata”, di letture ed esplorazioni – e nella realtà quotidiana della vita e degli incontri umani. (Vedi per esempio Da chi ho imparato).


Quanto le è stato utile, per la pratica del lavoro, studiare filosofia?

Molto. Per i motivi che ho già spiegato. Ma è molto importante anche la curiosità, la “passione”, il desiderio di capire come le persone pensano e i motivi del loro comportamento. Devo dire però che mi sento estraneo al mestiere della pubblicità (e in generale della comunicazione) così come è praticato da molti, specialmente oggi. Il lavoro che ho fatto (e che per certi aspetti continuo a fare) è profondamente estraneo alla cultura delle apparenze e agli esibizionismi di troppa gente malata di protagonismo.

Può sembrare strano, ma la pratica della comunicazione in funzione di obiettivi concreti (anche banali, come la vendita di un prodotto “di largo consumo”) mi ha aiutato a capire il comportamento delle persone, il loro modo di pensare, di essere, di agire. E con questo (se siamo capaci di ascoltare) possiamo arricchire anche il nostro “patrimonio filosofico”.


Lei è entrato nel mondo della pubblicità negli anni sessanta. E quelli sono anni strani per tutto il mondo. Si sentono gli echi del 36 spagnolo, delle due guerre mondiali eccetera... ma che senso aveva scrivere la pubblicità in quegli anni? Cioè come si scriveva? Con il cuore alla libertà e lo stomaco che brontolava?

Sono più vecchio di quanto immagina. Ho cominciato negli anni cinquanta. Erano anni “fortunati”, perché stavano prendendo forma metodi di comunicazione più seri e più approfonditi di quelli praticati quando si credeva che la comunicazione d’impresa potesse essere solo “di immagine” o “di prestigio”.

Perché quegli anni le sembrano “strani”? Forse perché non li ha vissuti. A me sembrano molto più strane alcune manie, fobie e pregiudizi di oggi. Erano gli anni del dopo-dopoguerra. Era ancora fresca la scoperta della libertà, della democrazia, il respiro di poter dire, pensare e scrivere ciò che si vuole, il sollievo di essere usciti dagli orrori della guerra, la nuova scoperta di un “benessere” (anche materiale) che in tutta la storia era sempre stato riservato a pochi e che cominciava a diventare più diffuso.

Erano gli anni del cosiddetto “miracolo economico italiano”. Gli anni in cui un’economia che era sempre stata non solo povera, ma anche protezionistica, doveva (almeno in parte) reinventarsi. Era logico imparare i metodi che si erano evoluti in paesi più “avanzati” e così si cominciò a parlare di “marketing” – anche se i più svegli di noi (non vorrei sembrare arrogante se mi metto in questa categoria) sapevano che non si trattava di copiare, né di usare a casaccio terminologie “esterofile”, ma di capire il significato di quelle esperienze – per riviverle e “reinventarle” nella nostra realtà.

Mi trovai allora, senza saperlo (l’ho capito solo dopo), sulla cresta dell’onda. C’era una tendenza, una “marea”, che portava alla ricerca di persone di un certo tipo – che avessero le preparazione culturale necessaria per capire la comunicazione e la capacità concreta di metterla in pratica. Chissà... se non ci fosse stata una “attrazione culturale” che cercava persone come me... forse avrei fatto un altro mestiere. Ci chiamavano copywriter (arrivò anni dopo la stupida moda di definirci “creativi”, cosa che mi ha sempre fatto ridere e un po’ irritato).  Accadde che noi copywriter, senza volerlo e quasi senza saperlo, prendemmo il sopravvento. Eravamo noi a definire le strategie, valutare la comunicazione, insomma tracciare la direzione del percorso e definire i metodi per raggiungere l’obiettivo. Dopo parecchi anni di “gavetta”, alcuni di noi si trovarono, senza averlo mai chiesto né desiderato, a fare i manager, cioè a dirigere le agenzie... e i risultati sono stati, spesso, molto positivi.

Da quei tempi le cose sono molto cambiate. Non in meglio. Naturalmente mi faccio una continua autocritica (non sarai mica uno stupido vecchio nostalgico?) ma proprio perché ho verificato le cose con molta attenzione ai fatti, e continuo a farlo, sono sicuro che c’è un deterioramento grave – in corso da più di vent’anni. (Avevo scritto un articolo su questo argomento nel 1995 Mala tempora currunt e da allora le cose non sono migliorate – anzi sembra che continuino a peggiorare).


Per riassumere il periodo, prenderei in prestito “canzone del maggio” di De Andrè – e lei?

Qui c’è una differenza culturale (e “generazionale”).  Per lei sono tempi di leggenda, che si possono riassumere in una canzone. Per me sono vita vissuta, con tutte le complicazioni del reale.

Quell’epoca è passata. Ci sono (e ci saranno) altri inverni – dobbiamo pensare ad altre primavere. Parole e pensieri di quella canzone (come di altre scritte cento o mille anni prima) si potrebbero riprendere e reinterpretare nella realtà di oggi. Ma dobbiamo viverle come fatti e possibilità, non come nostalgiche memorie.

E se vi siete detti
non sta succedendo niente .....
provate pure a credervi assolti
siete lo stesso coinvolti. .....
Voi non avete fermato il vento
gli fate solo perdere tempo.

Non badiamo a che senso avessero quelle parole allora. Cerchiamo di capire che cosa possano voler dire nella realtà di oggi.


Ma in quegli anni, a nessuno di voi è venuto in mente che, come dice Pound “la pace nasce dalla comunicazione”?

Non so come interpretare quell’affermazione. Certo la guerra non giova alla comunicazione (non solo quando è combattuta con le armi, o anche in ogni altra situazione di schieramenti accanitamente contrapposti) – e la “buona” comunicazione è uno strumento di pace (quando si dialoga bene è meno probabile che venga la voglia di ammazzarsi a vicenda).

Di questo è sempre cosciente chiunque si occupi seriamente di comunicazione – non solo oggi, non solo ai tempi ormai lontani in cui ho cominciato a fare quel lavoro, ma anche cento, mille o cinquemila anni fa. Ma è un argomento complesso, che non credo si possa riassumere nello spazio di una breve intervista.

Nel suo bel libro Psicanalisi della guerra (1970) Franco Fornari spiegava che uno dei modi per evitare una guerra “guerreggiata” è sfogare i nostri istinti competitivi in altri generi di “conflitti”, che non siano né sanguinari né violenti. E oggi?


Si , mi scuso. La sto trascinando su un sentiero storico-politico. Il primo grande evento mediatico è stato l’assassinio di Kennedy. È lì che molti politici hanno capito l’importanza della televisione e della comunicazione in generale?

Non direi. L’assassinio di Kennedy è stato un evento tragicamente importante (“mediatico” o non) di cui a tutt’oggi non abbiamo una spiegazione chiara. Ma ci sono stati “fenomeni mediatici” rilevanti molto prima di quello. Sono tanti... per citare uno dei più vistosi (ma non certo il primo in ordine di tempo) potremmo parlare dello sbarco sulla luna. Tutti a quel tempo erano convinti che ci sarebbero state colonie umane sulla luna, e almeno uno sbarco su marte, prima della fine del secolo. Se non è accaduto non è perché fosse una percezione infondata, né perché siano mancate le risorse tecniche... questa è una delle tante prove del fatto che prevedere il futuro è molto difficile (e che la volontà e la capacità umana di fare le cose sono molto più importanti delle tecnologie).

La comunicazione è stata fondamentale per tutte le culture umane fin dalle origini della specie. Il potere, in tutte le sue forme, ha sempre cercato di controllare la comunicazione. La novità della nostra epoca è la comunicazione diffusa (il telegrafo, il telefono, poi la radio, la televisione... molte più persone che sanno leggere e scrivere...).  E anche la molteplicità della comunicazione (la possibilità di ascoltare voci diverse, non solo quella di pochi “autorizzati a comunicare”).  Il processo verso la comunicazione estesa (non solo mass media) si stava sviluppando già nel diciannovesimo secolo, ma (in particolare in Italia) ha avuto un impulso maggiore dopo la seconda guerra mondiale. Ora stiamo, almeno in parte, tornando indietro... con eccessiva concentrazione, appiattimento e banalizzazione di tutto il sistema.

(A proposito dell’evoluzione storica dei sistemi di comunicazione e di informazione, vedi la cronologia che si trova in appendice alla versione online di L’umanità dell’internet).


Si, certo; Mussolini lo aveva già compreso, come Watson e Stalin. Eppure c’è gente in Italia, Francia, Canada che usa i mezzi di comunicazione per altri intenti, più alti e nobili. Mi riferisco a Brassens, Dylan, Cohen, De Andrè . La pubblicità quando ci arriverà?

Mussolini (che aveva fatto il maestro di scuola e poi il giornalista) sapeva quanto è importante la comunicazione. Ma la usava in senso repressivo, togliendo respiro a ogni voce di dissenso. L’estremo della comunicazione centralizzata, deformante e fanatizzante fu l’uso di tutti i mezzi (in particolare della radio) da parte di Goebbels. Ma poi fu proprio la radio uno degli strumenti della sua sconfitta... quand’ero bambino, durante la guerra, ascoltavamo le trasmissioni (anche in italiano) di radio Londra, per capire ciò che la radio italiana (e naturalmente anche la stampa) ci nascondeva.

La pubblicità aveva capito benissimo, proprio nel periodo in cui ci ero entrato, che la comunicazione si può usare “per fini alti e nobili”. Non solo c’era pubblicità specificamente dedicata a quei temi, ma anche la più banale pubblicità commerciale voleva essere, e spesso era, corretta. Non era un modo di dire o un’apparenza ipocrita, ma una realtà quotidiana per molti di noi, credere nel rispetto verso le persone, nella forza della “verità ben detta”, nel fatto che è effimero e pericoloso trattare la gente da stupida. (Vedi Il circolo vizioso della stupidità).

David Ogilvy (riferendosi a prodotti acquistati prevalentemente da donne e parlando a un pubblico che era prevalentemente maschile) disse con piena convinzione la famosa frase: «Il consumatore non è uno stupido, è tua moglie». E poi per tutta la vita continuò a ripeterla (ad nauseam, come diceva lui) e a praticarla con vero e sincero impegno. E così, “nel mio piccolo”, ho sempre fatto anch’io. Con risultati pratici che dimostrano come non si tratti solo di un impegno morale, ma anche di un metodo concretamente efficace.


Da chi parte l’idea di Pubblicità Progresso?

Dall’America. C’era da molti anni una cosa simile negli Stati Uniti. Era logico pensare che fosse una buona idea farlo anche in Italia. Sono stato fra i primi a crederci e me ne sono occupato attivamente – insomma sono uno dei “fondatori” – e fu l’agenzia che dirigevo a fare la prima campagna di quella serie (con ottimi risultati, concretamente misurabili).  Non sempre, poi, sono stato d’accordo con ciò che “Pubblicità Progresso” faceva, o su come venivano realizzate le campagne... ma l’idea era ed è giusta. Del resto, anche indipendentemente da quella specifica istituzione, molti di noi si sono occupati (volontariamente e gratis) di campagne di pubblica utilità. Ancora pochi giorni fa mi hanno invitato, di nuovo, a ragionare sull’argomento insieme a un gruppo di associazioni del volontariato.


Il primo spot crea tensione. Poi, una serie infinita di bellissime sceneggiature. Cosa è successo alla pubblicità sociale di oggi? Non conosce l’origine storica di questo genere comunicativo? (che dice, anziché comunicativo lo possiamo parlare di genere pubblicitario?)

Che cosa intende per “bellissime sceneggiature”? Se non funzionano, se non sono chiare sulla sostanza, sono “bellissime” solo per chi le fa o se ne compiace (vedi Se non funziona non è “creativo”).

La “pubblicità sociale”, purtroppo, spesso manca di chiarezza nei suoi obiettivi. Sono troppi, e deprimenti, i casi in cui la si fa per autocompiacimento, per generica espressione di “buoni sentimenti”, per “farsi belli” o per altri motivi che nulla hanno a che fare con la ricerca di risultati concreti. Sarebbe un discorso lungo... ma l’importante è capire che perché abbia vera dignità (ed efficacia) dev’essere molto più precisa e trasparente.

Quanto all’origine storica... possiamo risalire fino ai tempi più remoti. Non credo che si possa parlare di un “genere comunicativo” (e tantomemo di un “genere pubblicitario”).  Si tratta di comunicazione – e la pubblicità è solo uno degli strumenti. Ancora di più che in situazioni commerciali, la pubblicità (o altra forma di comunicazione) è poco utile, anzi può essere dannosa, se non è parte di un insieme e coerente con i comportamenti.


Ecco. Oggi siamo coscienti di essere nell’epoca della comunicazione, in una società che esiste solo se viene comunicata... e ci verrà raccontato da Berger e Lukmann, ma anche da Neveau e Youngblood sostiene che la “costruzione della realtà” si ottiene tramite la conversazione continua. Ma quando ci si è resi conto di tutto ciò?

Senza entrare in una esegesi degli autori... guardiamo i fatti. Continuiamo a dirci che siamo nell’era della comunicazione, ma stiamo disimparando a usarla bene. L’idea che si sia nell’era dell’immagine, nel senso che la realtà non conta e la rappresentazione è tutto, non solo è falsa, ma è stupida e perniciosa. Immaginare di vivere nei teatrini delle apparenze vuol dire avviarsi verso qualche dura sorpresa quando si va a sbattere contro la realtà.


Come la avete presa, nel conoscere che eravate i “costruttori” della realtà?

Non mi sono mai trovato, e non mi trovo oggi, a farmi questa domanda. Per il semplice motivo che non ho mai sognato di essere un “costruttore della realtà”. Né io, né tutti i migliori con cui ho lavorato nel mestiere della comunicazione, si sono mai fatti illusioni del genere. E non abbiamo mai pensato che una situazione come quella potesse essere desiderabile. Come diceva vent’anni fa Bill Bernbach, «siamo entrati nell’era dei fasulli». In questa pseudocultura non mi riconosco – e credo che si debba fare tutto il possibile per uscirne, se non vogliamo essere i manipolatori del nulla e andare incontro a qualche amaro risveglio quando non potremo più cullarci nell’intontimento.


Ebbene, sl. Basta con le domande storiche. Le va di seguirmi in un po’ alla caccia di polemiche?

Preferirei di no... la “caccia alle polemiche” è uno sport che non mi interessa. Secondo me basta guardare i fatti e cercare di interpretarli per dire cose che nulla hanno di polemico, ma sono inevitabilmente irritanti per la cultura del fasullo di cui siamo circondati.


No, non la voglio trascinare in un dialogo distruttivo. Dopo aver ricostruito un po’ la comunicazione degli ultimi cinquant’anni, anche se rapidamente, ora vorrei che lei mi aiutasse a comprendere il presente e il destino della comunicazione. Ad esempio: cosa ne pensa della televisione di oggi? e della pubblicità?

Della televisione di oggi penso tutto il male possibile. Anche se non è mai giusto “fare di ogni erba un fascio” – in un panorama televisivo desolante talvolta c’è qualcosa di buono. La televisione “generalista” è sostanzialmente morta, ma mancano (o sono scarse) le alternative e quindi ci tocca convivere per ancora chissà quanto tempo con quel cadavere ambulante. Naturalmente non è “colpa della televisione”. Il mezzo può essere usato in tanti modi. Lo si sta usando male... si tratterà di vedere chi e quando imparerà a usarlo meglio.

Penso male anche di gran parte della pubblicità di oggi. E lo stesso pensano tutte le persone competenti che conosco. In parte la responsabilità è di chi produce pubblicità onanistica e priva di contenuti, di un imperversante e sciocco manierismo (vedi Siamo malati di manierismo).  Ma molto dipende dalla crisi di identità e di gestione delle imprese, che credono di poter rimediare con un gioco di specchietti alla mancanza di strategie e di proposte concrete. Naturalmente in questo marasma ci sono le eccezioni, cioè le cose ben fatte, con prodotti o servizi significativi – e quando ci sono ottengono quasi sempre successi concreti.


Lei ha conosciuto Ogilvy. Quindi chi più di lei può...

Conoscevo le idee di David Ogilvy, e le applicavo, anche molti anni prima di lavorare con lui. Non è l’unico “maestro” ad avere insegnato (e praticato) bene il mestiere della comunicazione, ma è uno dei più interessanti e stimolanti.

Quando cominciò la nostra collaborazione, in un breve messaggio di benvenuto, scrisse: «tu e io siano copywriter e questo è ciò che conta». Fra le sue qualità c’era proprio quella di saper scrivere, in un inglese così vivo e brillante che spesso mette in difficoltà i traduttori.


Sa, oggi grazie (o per colpa?) di Ogilvy, non facciamo altro che seguire dei lay-out precostruiti. La nostra creatività si esprime entro questo quadro. Io lo trovo affascinante; come comporre della musica. Si hanno sette note, sette pause, sette chiavi e un’infinità di soluzioni.

Se David Ogilvy fosse vivo si infurierebbe a sentir parlare di “layout precostruiti”. Il suo modo di pensare (che somiglia al mio e a quello di tanti altri che hanno studiato e praticato il mestiere con serietà e approfondimento) non ha nulla a che fare con “modelli prestabiliti” o altre formule ripetitive. È vero che in alcuni dettagli (un certo tipo di annunci stampa) si era identificato qualche criterio di impaginazione efficace (così come nel rinascimento si parlava di “proporzione aurea”).  Ma è sciocco credere che si tratti di regole rigide – o di scuse per non pensare. Quando qualcuno gli chiedeva “regole”, David Ogilvy rispondeva: «not rules, fools, tools». Che tradotto, più o meno, significa «non fate i cretini, non sono regole, sono strumenti».

Siamo sommersi (ormai al di là della noia, fino all’ossessione) in una palude di squallidi manierismi, di banali e noiose imitazioni. Non solo in pubblicità. E siamo così rincretiniti che quella roba viene definita “creativa”.


Levy ci ha raccontato di arche intelligenti e della possibilità di nuove comunità. Lei come lo vede il futuro dell’internet?

Non faccio profezie. L’internet è un sistema complesso in cui ci sono, e ci saranno, molti diversi modi di comunicare. Non posso riassumere in poche righe ciò che penso sull’argomento. Quando ho cercato di spiegarlo in un libro (che è uscito con il titolo L’umanità dell’internet) credevo di cavarmela con poco più di cento pagine... mi sono fermato a 380 perché se no l’editore avrebbe avuto uno svenimento. Molte altre cose sono pubblicate in questo sito. In sostanza la rete è un sistema biologico – ed è fatta di persone, non di tecnologie o di protocolli. (Vedi La società connessa, un sistema biologico e tutta la prima parte di L’umanità dell’internet). Il futuro della rete dipende da come le persone la useranno.


E il futuro della comunicazione è l’internet?

Il futuro della comunicazione è nel modo in cui usiamo e useremo tutti i sistemi, compresi i più antichi – e forse qualcuno che non abbiamo ancora inventato. Nessun nuovo modo di comunicare ha mai eliminato quelli esistenti. L’internet non è un mondo a parte, è un elemento di un insieme.


Perché tante “e-cose” falliscono?

Perché sono mal concepire e peggio realizzate. Sono fallite anche tante cose “non e” – e ne vedremo fallire parecchie altre. Non c’è alcuna crisi dell’internet – c’è una crisi profonda della cultura e dei sistemi d’impresa. (Vedi La “crisi” che non c’è e i dati sullo sviluppo della rete in Italia, in Europa e nel mondo).


Lei, allora, ci consiglierebbe di continuare per la strada della comunità?

Le comunità sono un elemento fondamentale della cultura umana fin dalle origini. Questo è vero (e importante) online come offline. Ciò non vuol dire che ogni cosa online debba trasformarsi in una comunità – né che sia ragionevole concepire come “comunità” qualche piccola attività online che è solo un sottoscala promozionale. (Vedi Che cos’è una comunità online e Le comunità non sono “virtuali”).

Organizzare, gestire, tener viva una comunità è un mestiere difficile e molto impegnativo. Non è il caso di cimentarsi in un’impresa del genere se non si ha il tempo, la capacità e la dedizione che sono necessarie per farlo bene.


Un filosofo francese, Mafesoli, è convinto che il futuro è il ritorno al tribale, al glocale. Quindi è veramente nelle comunità che nasce la forza, la speranza e il futuro?

Mi scuso per l’ignoranza... non conosco Mafesoli. Ma è un fatto (e l’ho scritto molte volte) che la comunicazione in rete ci aiuta a riscoprire radici antiche. Non si tratta di ritornare a epoche pre-industriali, ma di riscoprire i valori (che sono in noi) delle culture agricole (e pre-agricole, cioè nomadiche) che riprendono respiro, dopo l’appiattimento della monotonia omogeneizzante, in una cultura potenzialmente meno ripetitiva e più ricca di diversità. (Vedi I valori antichi della nuova comunicazione).

Quanto ai neologismi confusi e ambigui come “glocale” – mi sembra più semplice evitarli che perder tempo a cercar di capire che cosa possano voler dire.


La ringrazio e prima di lasciarla un’ultima domanda... La comunicazione potrà sostituire mai la forza bruta, lo schiaffo, la guerra? e il denaro?

Se avessi una risposta semplice e chiara a questa domanda sarei il più grande filosofo del nostro tempo. Non mi faccio illusioni così presuntuose. E anche se la sapessi non sarebbe facile riassumerla in poche righe.

Gli etologi ci insegnano che anche in altre specie animali la comunicazione è uno strumento per evitare o attenuare conflitti sanguinosi. È sempre stato così, fin dalle origini della nostra specie – anzi fin da prima. La pura e semplice abbondanza di comunicazione non risolve alcun problema. Si tratta di qualità, non di quantità. E qui la cosa diventa difficile, perché copiare, imitare o obbedire è facile... pensare è molto più impegnativo.

Il denaro può essere importante (specialmente quando manca).  Ma nonostante la religione isterica del denaro, che è diventata una specie di integralismo fanatico, anche oggi molte importanti relazioni e transazioni umane non sono basate su sistemi “monetari”. Se l’adorazione del dio denaro è un culto stupido e pericoloso, non è neppure vero che il denaro sia diabolico. Come tante altre cose, è solo uno strumento. Dovremmo imparare a usarlo bene – e ricordare sempre che è un mezzo, non un fine.

Quando dico queste cose mi sento spesso accusare di “moralismo”. A parte il fatto che dimenticare del tutto l’etica non è sano, neppure da un punto di vista economico... la realtà che ci circonda dimostra come lo strapotere delle acrobazie finanziarie conduca a catastrofi concrete, compreso il fallimento di imprese, di nazioni e (se continuiamo di questo passo) dell’intero sistema. È ora di svegliarci, prima che sia troppo tardi.





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