Un’insolita “biografia”
 
Il 15 novembre 2004 l’Art Directors Club ha eletto
Giancarlo Livraghi alla hall of fame della “creatività”
(insieme a Roberto Baggio e a Enrico Ghezzi).
Questa è la motivazione.



Toh, un collega che sa leggere e scrivere


Saper leggere e scrivere in più lingue (strategie, headline, bilanci, libri di successo) agli albori dell’advertising italiano non faceva parte del kit dei capi d’agenzia. Per chi ha voglia di fare un fast rewind, ecco la storia di un’eccezione.




Una volta la chiamavano réclame. Erano gli anni dell’ohlàlà, dei ménage, dei pied-à-terre. Esterofilia prima versione. Nelle edicole, sui muri e negli oblò da 18 pollici di allora, la nostra anima del commercio era ancora ispirata ai bonmots.

Poi successe il finimondo. Con l’arrivo del marketing e delle marchette quizzarole, di colpo la réclame era démodée. Insieme ai jeans e alla macchina da scrivere con pallina, era arrivata la pubblicità.

Da un giorno all’altro, gli studi grafici si facevano chiamare agenzia. Quando i pistola più veloci sparavano ancora slogan con la rima, i busèt dei colleghi con i pennarelli venivano nobilitati in lay out. Erano i primordi del restyling: i salotti buoni s’erano trasformati di colpo in saloon.

Nonostante i nostri condomini rimanessero recintati coi fusilli in ferro battuto, gli architetti avevano scoperto il design. Sfoggiare tra i ninnoli un Brionvega (al posto del solito telefunchen) era come brindare alla modernità con l’acqua calda on the rocks.

Mentre negli annunci e alla televisione i nostri Cavalieri del Lavoro nero continuavano a investire i loro danee in imitatori, ciclisti, canterini e calimeri, le agenzie finivano sempre più nelle ragnatele multinazionali. Per superare il bricolage dialettale e i proverbi della nonna, la nuova parola in codice era «network».

Ma per attuare questa mutazione, in Italia mancava un’importante materia prima: i manager. Molte agenzie erano guidate da jolly fasotutomì che chiamare manager sarebbe stata un’iperbole un tantino generosa. Le loro letture preferite erano gli estratti conto e il libretto rosso della Michelin. Ignorare le lingue straniere era un handicap che finiva alla seconda buca.

Ma nelle loro squadre primavera giocava anche qualche fantasista. I copywriter di buone riletture, s’accorgevano alla svelta che negli annunci premiati a New York i titoli non iniziavano sempre con la parola «new» e gli art director che non temevano i caratteri forti non si cibavano solo di Toblerone tondo chiaro corpo dieci.

Da Londra arrivavano segnali ancora più irrequieti. I cambiamenti di quei suoni, gonne e scostumi erano talmente radicali che, dalle nostre parti, diventavano persino chic. Avevamo importato una swinging parody: i Rokes suonavano un rok dei buoni pentimenti, i letterati se le cantavano in un gruppo chiamato Equipe ’63, i fighter del nostro free cinema tenevano i pugni sempre ben raccolti in tasca.

Fine del backstage.




L’abbiamo presa una po’ alla larga per parlare di un collega che, a quei tempi, aveva impostato un’ora legale tutta sua mettendo avanti le lancette di almeno dieci anni.

Giancarlo Livraghi era, ed è rimasto, un prototipo. La produzione del suo modello non è mai diventata di serie. Forse perché l’autore aveva un brutto vizio: le sue letture non si riducevano ai listini di Quattroruote o ai menu dei ristoranti.

Anche se non scriveva «creativo», «club», «cultura» con la c maiuscola, s’aspettava che un pubblicitario non finisse mai di studiare. A ogni inizio di una nuova campagna, nelle pedane delle sue agenzie Livraghi alzava l’asticella.

Sebbene avesse guidato un’agenzia fino a farla diventare la più grande del paese e fosse stato anche presidente dell’associazione di categoria, non bazzicava i luoghi comuni del potere. Le club house dove si gioca al ciappanò fiscale, i foyer con la beneficenza con spacco lungo, le tribune vip degli stadi in avanzata decomposizione mediatica, lo annoiavano.

S’era laureato in filosofia. Non è che disdegnasse le scienze esatte, ma la voglia di capire gli universi che s’annidano nelle nostre teste, l’aveva presto portato ad anteporre l’illuminismo ai riflettori nelle aule di un processo o di una sala operatoria.

Aveva iniziato la sua carriera come copywriter nella piccola CPV, che alcuni anni dopo sarebbe diventata la più grande agenzia in Italia. Anche se poi avrebbe scritto alcune memorabili front page dell’advertising, il vizio di fare il copy non l’avrebbe più abbandonato. Livraghi ha sempre preferito la semplice parola writer, la qualifica ex divinis di «creativo» non gli è mai andata giù.

Nonostante la sua avversione per quella eight letter word, presto i suoi capi avrebbero aggiunto al suo ruolo l’appellativo Direttore – affidandogli responsabilità che lui non aveva mai chiesto e che non si limitavano al “reparto creativo”.

Allora le filiali italiane delle agenzie internazionali erano guidate da uomini d’affari, tutti più o meno affaristi. Fare annunci e tv-commercial per clienti e cittadini svegli, era l’ultimo dei problemi. Il fanfarone fanfaniano che a quei tempi comandava la tivvù di Stato – il biblico Ettore Bernabei del kitsch osservante e praticante – così dava il suo imprimatur alle campagne sceme: “Gli italiani che guardano la tv sono 18 milioni di coglioni”. Era un Auditel ante litteram, a trazione diccì integrale.

Nel 1966, l’anno in cui i malfamati capelloni avevano salvato il patrimonio artistico di Firenze dalla poltiglia dei boiardi pubblici e privati, i capi mondiali del gruppo Interpublic avevano deciso di affidare a Livraghi le sorti della McCann-Erickson in Italia.

Maccome, un creativo a capo di un’agenzia internazionale?

E invece, scrivendo e scherzando, in soli cinque anni la sua sigla sarebbe diventata la numero uno. Grazie a quel risultato, Livraghi era promosso presidente del comitato new business continentale nonché responsabile dell’intera area Europa Sud. Dopo altri quattro anni veniva trasferito nella sede centrale mondiale a New York come Executive Vice-President della McCann-Ericksion International.

Nel 1980, quando un altoatesino altissimo e purissimo compì la prima solitaria dell’Everest, il levissimo Livraghi avrebbe effettuato una scalata altrettanto clamorosa: tornò in Italia come socio di maggioranza della Livraghi Ogilvy & Mather, che in pochi anni avrebbe moltiplicato il suo fatturato a livelli ottomila.

A voler fare i precisini: di trenta volte.

Elencare i clienti con i quali ha condiviso i suoi successi, sarebbe un doppio gioco: da un lato le graduatorie della rivista Forbes, dall’altra moltissimi nomi nazionali.

Forse Livraghi racconterebbe quei risultati con un understatement, alla “Think small” – il mitico paradosso del suo collega Bill Bernbach il quale, come il socio David Ogilvy, era pure lui un writer/fondatore di un’agenzia che avrebbe messo sottosopra le tradizioni del settore.

Quando s’era appena fischiato l’inizio del secondo tempo della nostra repubblica e gli italiani cominciavano a fare l’ola per la discesa nei campi di Milanello, Livraghi preferì cambiare gioco. Tanto, anche nella versione riveduta e scorretta, il dolce stil novo avrebbe solo omologato il déjà-vu. Siccome la pubblicità è sempre in perfetto sync con le pulsazioni della società (specie se quotata in borsa), Livraghi aveva appena fatto in tempo a schivare il dominio di un’inedita parolaccia: il nuovo termine buttadentro per il conformismo Italian style era «trendy».

Guarda caso, già parecchi anni addietro (cioè molto prima di tutti noi), Livraghi s’era accorto che la comunicazione personale, istituzionale e commerciale si sarebbe presto integrata con sistemi e canali mai visti e ascoltati prima.

L’internet (Livraghi lo scrive con un bell’articolo davanti, come la radio, il marketing, la televisione), dieci anni fa non era ancora l’odierna estensione capillare dell’io e dei vari sistemi collettivi. Non solo Livraghi aveva azzeccato il meteo della comunicazione moderna, ma si rimise subito a studiare e, come aveva sempre fatto, a scrivere e riscrivere cose nuove.

Ha pubblicato centinaia di articoli e saggi sulla comunicazione, sul marketing e, of course, sull’internet. Ha scritto alcuni bestseller che nessun laureando bocconiano può schivare – se ci tiene a prendere un voto sopra il 100:

Quest’ultimo tema è il frutto della sua passione più duratura: i cretini. Il barista affarista leghista che si dimentica sempre lo scontrino, il gazzettaro ultrà che la fa nel Cesso del Biscardi, il ricreativo pubblicitario continuamente attaccato alla sua Harley-Ericsson, un qualsiasi sottogregario portasporta di un governicchio di commercialisti e bottegai – tutti questi gigimarzulli della new age dei danee, gli imbecilli del direi, del miconsenta, dell’occhèi, Livraghi li ha studiati e classificati come un esperto di genetica.

Chi vuole un assaggio di ciò che presto leggeremo, in modo più organico, in quel libro, vada su http://gandalf.it/stupid/ e sarà rapito da una cangiante roadmap della stupidità. È una lateral section di un mega salto laterale di Giancarlo Livraghi – un sito che dovrebbe essere inserito d’ufficio in ogni programma scolastico.

Gandalf.it è un grande selfservice di lumi sempre accesi nella selva oscurantista diramata da chi ci vuole sempre più rimbambiti. Vi si parla in modo basic di cultura, marketing, etica, imprese, storia, filosofia, ci sono un sacco di dati e statistiche, raccolte di articoli e saggi a centinaia, il tutto targato (I) + (GB) + (E).

Gandalf è un one man show coordinato e aggiornato con incredibile cocciutaggine da Livraghi. Visto che parla l’inglese altrettanto fluently come noi facciamo col dialetto word, nel suo department store del pensiero c’è persino un dizionario delle parole inglesi che usiamo upside down.

Qualche esempio: se un giorno entrate da Harrod’s per acquistare qualcosa di very British da mettervi addosso, non chiedete di vedere dei «golf» – da loro sono sempre bucati 9 o 18 volte. Se insistete sul «dressing» all’inglese, vi chiederanno con che gusto preferite la salsa. E se, last but not least, volete provare un elegante «smoking», con un sopracciglio appena, appena alzato vi sarà indicato un cartello dove si vede una sigaretta fumante con una bella croce sopra.

Sorridere piace pure a Livraghi. Semplicemente preferisce farlo senza l’audio hahaha.

Mettiamola così: se proprio deve subire la nostra standing ovation, ci guarderà con la tipica indulgenza di chi, durante una carriera eccezionale, ne ha sentite e previste tante.


Till Neuburg

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L’Art Directors Club italiano è un’associazione culturale di professionisti nel campo della comunicazione e della pubblicità: art director, copywriter, registi, graphic designer, web designer, fotografi e illustratori. Così definisce la sua Hall of Fame: «galleria degli eroi, pantheon della creatività e della comunicazione, nomi eccellenti, diversi per campo d’attività come per approccio e filosofia». Fra gli eletti negli anni precedenti ci sono Alberto Alessi, Altan, Renzo Arbore, Armand, Gillo Dorfles, Elio e le Storie Tese, Giorgetto Giugiaro, Milton Glaser, Mario Monicelli, Ennio Morricone, Bruno Munari, Fernanda Pivano e Franco Maria Ricci.




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