Le imprese e la rete – oggi

Intervista di Luca De Nardo luca@i-dome.com
a Giancarlo Livraghi gian@gandalf.it
su I-dome – 30 giugno 2003


 
Come nel caso di altre interviste
i lettori abituali di questo sito, o dei miei libri,
possono trovare (almeno in parte)
“ripetitive” queste osservazioni.
Ma poiché molte imprese continuano
a farsi domande e a chiedere spiegazioni
forse è utile pubblicarle anche qui.
 



Sono molti anni che lei si occupa di cultura della rete valutandone i molti aspetti legati all’uso delle nuove tecnologie nella loro complessità: comunicazione, aspetti sociali, economici, quotidiani, “politici”...
Il filo conduttore delle sue riflessioni sembra essere la valorizzazione della componente umana e sociale insita nello sviluppo della rete, crede che si possa dire, oggi, che tale concezione sia stata assimilata anche da chi fa della rete il proprio business?

Naturalmente non si può generalizzare. Ma mi sembra che quella comprensione sia poco diffusa. E il problema non riguarda solo la rete. Per motivi che sarebbe troppo lungo riassumere qui, da parecchi anni è diventata epidemica (o endemica?) una concezione di business che tiene poco conto dei valori umani e sociali. Accompagnata da un concetto di “marketing” opportunistico, superficiale e invasivo – che è il contrario del “vero” marketing.

Ritrovare i valori – di impresa, di prodotto, di servizio, di relazione, di responsabilità – è uno dei problemi fondamentali nella necessaria ridefinizione del ruolo delle imprese. Online o non.


E come potrebbe un imprenditore sviluppare ed utilizzare un simile concetto nella realizzazione del proprio progetto online?

Dovrebbe pensare, prima di tutto, al suo ruolo verso tutti i suoi interlocutori (non solo per le vendite) e poi identificare se e come si collocano, in quella struttura delle relazioni, i sistemi di networking. Che non sono sempre o solo internet – e che non sono necessariamente web.

Questi concetti sono spiegati più ampiamente in un libro, La coltivazione dell’internet. È uscito nel 2000, ma mi sembra, più che mai, di attualità. Non ho mai creduto nella “bolla speculativa” (allora imperversante) e ancora meno credo oggi alle bizzarre e perverse conseguenze che ne derivano.


Una recente ricerca realizzata da Mate sostiene che le Pmi italiane siano entrate nella “seconda fase” dell’e-business, superando una presenza puramente istituzionale sulla rete. In base alla sua esperienza sente di poter avvallare tale affermazione e cosa secondo lei ha portato a tale maturazione?

La imprese (grandi, medie e piccole) stanno cominciando a capire che non ha senso stare in rete “solo per esserci” – e che alle attività online devono essere assegnati ruoli e obiettivi precisi. Ma siamo ancora lontani da quella “maturità” che può nascere solo dall’esperienza.


Per le Pmi l’internet rappresenta, tra gli altri vantaggi, la possibilità di espandere i propri orizzonti. Crede sia un’opportunità che le imprese nostrane sono pronte a cogliere, e i maggiori ostacoli sono – secondo lei – mancanza di risorse sufficienti, o di cultura aziendale adeguata?

Sono convinto che quella possibilità ci sia. E sono convinto che se le “piccole e medie imprese” italiane ritrovassero quello spirito che portò al cosiddetto “miracolo economico” cinquant’anni fa potrebbero fare, ancora oggi, cose straordinarie (come alcune, nonostante tutto, stanno facendo).

In quelle situazioni la rete può essere molto utile (“se non ci fosse l’internet bisognerebbe inventarla”). Ma è illusorio, e concettualmente sbagliato, pensare che si possano ottenere risultati partendo dalle soluzioni tecniche. Le tecnologie sono strumenti. Utili solo se sono la conseguenza, non la premessa, di strategie, processi, metodi, idee.

È non solo inutile, ma dannoso, comprare un’automobile se non sappiamo chi la guiderà, dove vogliamo andare e perché. Ed è inutile comprare una Ferrari se per il percorso che dobbiamo fare è più adatta una bicicletta – con il rischio non solo di sprecare denaro e di andare nel posto sbagliato, ma anche di qualche incidente grave se alla guida c’è qualcuno che non sa controllare il mezzo.

Questo non è solo un problema delle “piccole e medie imprese”, ma anche delle “grandi”. Vedi per esempio un articolo che ho pubblicato nell’agosto 2002 Il paradosso della tecnologia.


Spesso abbiamo letto suoi interventi sulla – sottovalutata – necessità di avviare un progetto online con la giusta “lentezza”; in cosa invece le aziende dovrebbero spingere sull’acceleratore?

Nel cogliere le occasioni favorevoli quando si presentano (online o non).

Ma comunque “spingere sull’acceleratore” è sbagliato e pericoloso se non si sa quale strada si stia percorrendo e dove si stia andando.

Non è detto che le soluzioni frettolose siano le più veloci e tempestive. Spesso accade il contrario. La fretta non è velocità, come ho spiegato nel capitolo 27 di L’umanità dell’internet.


Tornando all’internet come mondo delle relazioni, si nota spesso una forma di fraintendimento tra gli imprenditori che ritengono che essere online permetta loro di gestire relazioni con chiunque dovunque, sempre e comunque a costi zero e senza troppo sforzo. Cosa consiglierebbe a questi imprenditori?

Che devono smettere di credere alle favole. Se sono andati in rete con quelle illusioni, si sono dati un obiettivo impossibile (e ingestibile). Devono ripensare dalle radici i motivi per cui vale la pena di essere online.

Nulla è “a costo zero”. Tutto richiede impegno, dedizione, attenzione. E comunque – come ho detto e scritto mille volte – l’investimento più importante è in risorse umane e in costruzione di esperienza.


Quale, a suo parere, il ruolo delle comunità virtuali in ambito aziendale, perché molti imprenditori non ne percepiscono il reale valore? Forse perché nelle imprese italiane esistono poche “comunità” anche nella vita reale?

Non è solo un problema lessicale... secondo me capiremmo meglio se riuscissimo ad abolire (o almeno a usare con più criterio) la parola “virtuale”. Come ho spiegato varie volte... per esempio nel capitolo 16 di L’umanità dell’internet Parole e concetti da abolire o in un breve testo del giugno 2000 Le comunità online non sono “vituali”.

Non è pensabile alcuna cultura umana in cui non esistano comunità. E non è pensabile alcuna impresa, grande o piccola, che non operi in un sistema di comunità. (Vedi a questo proposito il capitolo 31 di L’umanità dell’internet e il capitolo 9 di Le imprese e l’internet). Ma si tratta di capire quali sono le comunità rilevanti in ciascun caso specifico, e qual è il ruolo dell’impresa in quel contesto. E si tratta di capire se e come sistemi di networking possano migliorare la qualità, l’efficienza e l’utilità di ciascuno di quei sistemi di relazione – nonché aiutare a gestire le sinergie.

Troppo spesso si usa in modo improprio il concetto di “comunità”. Si mette su un’area di dialogo, un forum, una mailing list, spesso senza avere le risorse e la capacità di gestirla... e ci si aspetta, chissà perché, che ne derivi qualche miracoloso risultato. La cosa non è così semplice. E soprattutto, anche in questo caso, occorre pensare prima agli obiettivi, ai valori reali e alle risorse umane... e solo dopo (se e quando servono) alle tecnologie. Dovremmo ricordare quella saggezza contadina che ci dice di non mettere il carro davanti ai buoi.


Le aziende hanno compreso e sanno gestire il nuovo ruolo che l’utente/consumatore ha ottenuto grazie alla rete, o ne sono ancora spaventate? Ne hanno motivo oggi come oggi?

Non hanno motivo di essere spaventate, ma hanno ragione di essere diffidenti. Ci sono state troppe impostazioni sbagliate, troppe illusioni “miracolistiche”. E ancora oggi ci sono in giro un po’ troppe soluzioni standardizzate, proposte superficiali, promesse che nessuno è in grado di mantenere.

La favola della “crescita esponenziale”, il mito dei “facili guadagni”, su cui alcuni si sono arricchiti e molti hanno perso, hanno creato un comprensibile disagio. Passata la sbornia, ci vuole tempo e pazienza per ritrovare lucidità.

Un “consumatore”, o cliente, più attento e meglio informato non è una minaccia per un’impresa che sa fare bene il suo mestiere. Può essere una risorsa, un alleato, un “promotore” volontario, se stabilisce con l’impresa un rapporto di reciproca comprensione e fiducia.


L’impressione, purtroppo sempre la stessa da anni, è che siano davvero pochi coloro che hanno compreso che il successo di un’impresa online non dipende solo dalle proprie risorse tecnologiche, ma anche da quelle umane. Ritiene vi siano competenze sufficienti tra il personale aziendale? E in questo senso quale ruolo e responsabilità ha l’informazione (o disinformazione) online?

Le competenze non si formano in un giorno, né in un anno. E oltre a costruire competenze vere occorre smantellare quelle false, che hanno avuto un allucinante sopravvento per troppi anni. Uscire dal marasma è possibile, ma occorre cambiare radicalmente prospettiva.


Quali pensa possano essere considerati i modelli di business online per il futuro? Una domanda sicuramente poco originale, ma qual è il suo rapporto con le numerose e spesso schizofreniche previsioni al riguardo?

Le previsioni sono così tante, e così diverse, che qualcuna, per caso, potrebbe anche avverarsi. Ma più che avventurarsi in profezie è utile calarsi nella realtà. Meglio dimenticare i “modelli di business” generici, “buoni per tutti e perciò utili a nessuno”. Occorre ripartire dalle basi e costruire su fondamenta ben radicate, non su illusioni campate per aria.


La rete è un sistema aperto, come lei stesso lo ha definito, tuttavia spesso nell’ambiente degli “addetti ai lavori” si tende ad identificarlo tout-court con portali aziendali, tecniche di marketing, new economy, dimenticando che la rete c’era prima e probabilmente ci sarebbe anche dopo.... Riuscire a valutarla come tale, quale vantaggio potrebbe offrire non solo a tutti i suoi fruitori, ma anche alle aziende stesse, anche in termini di marketing, di business? Penso ad esempio al difficile salto ad un’idea di condivisione della conoscenza aziendale come valore strategico e non indebolimento.

La rete è nata come sistema aperto e quella (nonostante i molteplici tentativi di “rinchiuderla”). è e rimane la sua natura. La bislacca idea dei “portali” ha portato a innumerevoli fallimenti... e perché mai un’impresa dovrebbe dedicarsi alla produzione di enciclopedie invece di concentrarsi su ciò che sa fare?

Che un intrico di ingestibili e torbidi pasticci si possa chiamare “nuova economia” (o “tecnica di marketing”) sarebbe comico se non fosse deprimente.

Quanto alla “condivisione della conoscenza”, il problema è complesso (e non riguarda solo la rete). Nessuna impresa vuol condividere tutto con tutti (per esempio può essere ragionevole che non voglia rivelare troppe cose, o troppo presto, ai suoi concorrenti).

Occorre quindi trovare un giusto equilibrio fra i “segreti di bottega” e la condivisione delle conoscenze. E alcune aree di condivisione hanno la comprensibile esigenza di essere “chiuse”, cioè riservate ad alcuni interlocutori (per esempio nel caso di co-evoluzione progettuale e operativa con fornitori o clienti).

Non sempre è possibile gestire questi rapporti attraverso reti elettroniche (e quasi mai si può fare “solo” in rete). Un’efficace gestione delle “condivisioni di conoscenza” (che possono essere anche “comunità”) può dare notevoli vantaggi, ma sarebbe sciocco non tener conto dei problemi di riservatezza e di sicurezza, che devono essere gestiti con molta attenzione.


Un suo giudizio sulla qualità dell’informazione online. Crede che il navigatore sappia che l’oligarchia a cui sembra spesso non potersi sottrarre è solo una piccola parte dell’informazione a cui può accedere?

Online c’è di tutto. E nella grande quantità è inevitabile che la qualità sia spesso scarsa. Occorrono quindi notevoli capacità (culturali prima che tecniche) per cogliere ciò che è utile e scartare ciò che non serve (o che, peggio, può confondere le idee).

Un problema diverso è quello dell’oligarchia, della crescente e assillante concentrazione e “omogeneizzazione” dei sistemi informativi e culturali. Una malattia grave, che non riguarda la rete, ma tutto il sistema dell’informazione e della conoscenza.

In un articolo per il New York Times del 25 luglio 2003 (a proposito di Orwell) William Gibson scrive: «oggi l’affidarsi al broadcasting è la definizione di una società tecnologicamente arretrata». E non solo “tecnologicamente”. La centralizzazione dell’informazione è soprattutto un danno sociale e culturale – e perciò anche economico.

La rete è, per sua natura, uno strumento per uscire da questa trappola. Ed è ovvio che ci siano continui tentativi di concentrarla, controllarla, ridurla all’obbedienza...


Pensa che gli utenti siano davvero maturi per scegliere consapevolmente ed in modo indipendente quale sia l’informazione di valore?

Ma chi è un “utente”? L’internet non è una rete di distribuzione dell’elettricità o del gas. Un “utente” è solo qualcuno che consuma energia, o usa il telefono, o l’internet – e se non paga la bolletta gli “tagliano i fili”. Le persone non sono “utenze”, sono esseri umani. E l’uso che facciamo della rete dipende soprattutto da noi.

Ci sono persone curiose, attive, attente, che non si accontentano di ciò che viene “propinato”, ma hanno la voglia (e trovano il tempo) di verificare e di informarsi meglio. Per quelle persone la rete è uno strumento in più, che (usato bene) può essere più utile di altri. Per chi si accontenta dell’informazione dominante, la situazione non cambia solo perché ha un collegamento online.


Paragonando la rete ad un sistema biologico, è normale attendersi anche qualche “malattia” o aspetto potenzialmente distruttivo. Quali sono a suo parere?

Le malattie ci sono – e alcune sono preoccupanti. Per esempio lo spamming, le invasività e la moltiplicazione delle truffe. Oltre agli incessanti tentativi di “centralizzare” la rete o di imporre filtri e controlli che spesso puzzano di censura. Ho scritto parecchie volte su questo argomento.... fra l’altro in un recente articolo Salute e malanni dell’internet.


La sua posizione rispetto a temi come privacy, spam, anonimato, libertà di espressione ed autorità che garantiscano la protezione di tutti gli utenti (compresi i bambini, adolescenti e tutti i soggetti più deboli). Si tratta di temi che ha trattato spesso e che come primo presidente di ALCEI conosce molto bene. Quali soluzioni, se pensa ve ne siano, propone? E’ utopistico pensare ad una forma di autoregolamentazione?

Quando si tratta di libertà di opinione e di informazione, le “regolamentazioni” sono sempre pericolose. Anche se travestite da “auto”. Per esempio è facile spaventare i provider e indurli a introdurre “spontaneamente” controlli e filtri indesiderabili.

Con il pretesto di “proteggere i minori” si sono condotte operazioni mostruose che hanno fatto tutto fuorché identificare i veri criminali (come è stato ammesso pubblicamente, con molti anni di ritardo, anche dalle autorità di polizia – vedi Le “crociate” sono finite?).

La proposta di “filtri” e “tate elettroniche“ non solo è inefficace e pericolosa, ma ha la grave conseguenza di “deresponsabilizzare” famiglie ed educatori. Il fatto fondamentale è semplice... non si lasciano i bambini da soli davanti a un televisore o a smanettare con un computer (anche se non collegato alla rete – alcuni giochi elettronici sono tutt’altro che educativi) così come non si mandano da soli ai giardinetti a ricevere caramelle da uno sconosciuto.

La coscienza, informata e consapevole, delle famiglie e degli educatori è insostituibile. Ed è su quella che ci si deve impegnare se vogliamo far crescere bene le nuove generazioni. È vero, purtroppo, che molti comportamenti sbagliati, o delittuosi, si trovano nelle famiglie o in istituti “educativi”. Ma quel grave problema non si risolve censurando o perseguitando l’internet. Non è in rete che genitori violenti o compiacenti, ambigui zii o pessimi “educatori”, trovano le loro vittime.

Per quanto riguarda lo spam, il commercio dei dati e le truffe... una migliore informazione al pubblico aiuterebbe, ma in questo caso sono favorevole anche a qualche ben mirato intervento delle autorità. Non occorre fare leggi ad hoc. Basta identificare gli spammatori e i truffatori (spesso le due cose coincidono) e metterli in condizione di non nuocere. Ed essere altrettanto severi nei confronti di chi invade la nostra vita privata o carpisce dati a tradimento (ma qui fra i “colpevoli” ci sono spesso i governi e i loro sistemi di polizia e spionaggio – nonché certe imprese il cui software è un po’ troppo diffuso).

Di questi problemi molto si dice, spesso a sproposito – ma poco o nulla si fa. Per non parlare di leggi mal concepite e peggio applicate, come quella italiana sulla “protezione dei dati personali”.


Una delle ultime tendenze, molto pubblicizzata dall’internet, è lo sviluppo dell’open source nella pubblica amministrazione come nelle aziende. Come giudica questo interesse per soluzioni a codice aperto, l’ennesimo trend “urlato” sulla rete o qualcosa di diverso?

È bizzarro che le soluzioni “aperte” (su cui, da sempre, è basata la rete) siano viste come una novità o un’anomalia, mentre un assurdo monopolio “proprietario” è considerato una cosa “normale”.

Sarebbe come se qualcuno, vissuto per anni in un lager, si trovasse con stupore a guardare il mondo di fuori. E immaginasse che la prima bottega che i incontra fosse il solo posto dove si può scegliere un panino invece della sbobba somministrata da qualche kapò.

Qualcuno ha il monopolio dell’alfabeto, della grammatica, delle note musicali?

Non ha senso che i sistemi di base (e le basi della conoscenza) siano proprietà di chicchessia. Né di un’impresa, né di un governo, né di qualsiasi particolare organizzazione.

Ciò significa anche rimettere in discussione il concetto di “diritto d’autore” – ma quello è un altro, e complesso, discorso.

Ci sono notevoli vantaggi, anche per le imprese, nell’uso di soluzioni opensource. Ma “il minimo indispensabile” è che ci siano sistemi “aperti” nella pubblica amministrazione e in tutti i pubblici servizi. Questo semplice concetto era chiaro da parecchi anni – e un po’ per volta sta cominciando a venire in luce – anche se è sbagliato, concettualmente e in pratica, ridurlo a una semplicistica contrapposizione fra Windows e Linux.

E naturalmente non si tratta solo di tecnologie elettroniche. Accessibilità e trasparenza sono esigenze fondamentali, troppo spesso tradite dagli apparati burocratici e da vari sistemi di potere.

Gli esempi sono infiniti. Per citarne un recente... i molteplici danni prodotti dai blackut elettrici sono inaccettabili e imperdonabili. Non solo perché quelle situazioni erano prevedibili, ma anche perché quando si è arrivati all’emergenza è mancata l’informazione.

Non solo ci sono stati molteplici danni quando la corrente è mancata senza preavviso, ma anche molti inutili disagi per interruzioni vagamente annunciate (senza spiegare quando e per quanto) e poi mai avvenute.

Un esempio, fra tanti, di irresponsabilità e mancanza di corretta informazione. Non a caso Sergio Romano in un “articolo di fondo” sul Corriere della Sera del 27 giugno 2003 ha usato questo esempio per spiegarci che siamo trattati da “sudditi” e non da cittadini. In quanti altri modi sta succedendo la stessa cosa?

Questo è uno fra i tanti esempi del potere della stupidità. Che continua a confermarsi come la più terribile forza disttruttiva in tutta la storia del genere umano.




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