le imprese e l'internet



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Il valore delle comunità

Da quattro o cinque anni, man mano che la diffusione dell’internet assumeva la portata dei “grandi numeri”, sembrava che la rete potesse essere considerata come un fenomeno “di massa” – e che si fosse perso di vista quello che è sempre stato il tessuto portante delle reti telematiche: le comunità. Molti “nuovi arrivati” in rete, seguendo l’onda dell’informazione diffusa, al primo incontro con la rete badano solo agli aspetti più superficiali della world wide web: pensano che l’internet sia solo un grande ripostiglio di informazioni e di varie amenità. Tutt’al più capiscono l’utilità della posta elettronica, di cui (all’inizio) si servono solo per lavoro o per la corrispondenza con pochi amici. Ma poi, gradualmente, scoprono quali sono i valori più importanti: il dialogo, lo scambio, l’interattività – e le comunità.

Le comunità online esistevano (anche in Italia) dieci anni prima che si diffondesse l’uso dell’internet; continuano a esistere e a moltiplicarsi. Il fatto relativamente “nuovo” è che si comincia a capire come possano essere utili anche per le attività d’impresa in rete.

Nel 1997 uscì un libro: Net Gain di John Hagel e Arthur Armstrong. Cominciò a diffondersi il concetto che it takes a village to make a mall (“ci vuole un villaggio per aprire un mercato”). In sintesi, la tesi del libro (poi sviluppata anche da altri) è che le comunità in rete «sono una cosa ottima per l’umanità e quindi anche una cosa buona per il business». In un’intervista John Hagel diceva:

Fin dall’inizio della rete le comunità online erano un evento sociale spontaneo. Ciò che le persone fondamentalmente desiderano è comunicare fra loro e creare comunità continuative. Ma questo rappresenta anche un’occasione commerciale. In sintesi: “la comunità precede il commercio”. Nella cultura della rete c’era la nozione che in qualche modo comunità e commercio fossero in contrasto; che fosse inevitabile, introducendo il commercio, danneggiare la comunità. Questo è vero, se lo si fa male, in modo deformante; ma, se lo si fa in modo ragionevole e rispettoso, il commercio può rafforzare la comunità, mettendosi al suo servizio.

Ci stiamo avviando verso una forte reazione contro la web. I progetti sono stati sviluppati da grandi imprese e investitori convinti che queste prime attività devono diventare “grandi business” in poco tempo. Ma l’aspetto incompreso dei modelli a ritorno crescente è che si deve attraversare un periodo di costruzione molto lenta prima di arrivare a una crescita accelerata. Le aspettative erano troppo alte.

Se confronto quanto denaro viene investito nella tecnologia come tale, e quanto poco impegno c’è nel capire le dinamiche sociali – come si evolve il comportamento umano in questi ambienti – c’è un enorme e sconcertante squilibrio. Eppure così tanto dipende proprio dal fattore umano.

Ci sono vari modelli tecnici e strutturali di comunità online, che esistono da dieci o vent’anni. Liste di dialogo (mailing list), newsgroup, BBS, “liste civiche”, community network, eccetera. Anche la piattaforma world wide web può essere usata efficacemente per costituire e organizzare comunità: cioè non è detto che un “sito web” debba essere solo una vetrina, una biblioteca o un catalogo. Può essere un punto di riferimento per una (o più di una) comunità online.

Il concetto di comunità è vecchio come il mondo. Non è immaginabile alcuna società umana che non sia un tessuto di comunità. Si incrociano (ciascuno di noi fa parte di parecchie comunità diverse) ma ognuna ha un’identità propria. Possono essere aggregati labili, che durano poche ore o pochi giorni; o sistemi di relazione consolidati e ritualizzati, che durano secoli o millenni. Possono avere una struttura formale e una gerarchia, o essere aggregazioni spontanee senza un “centro” apparente. Che cosa accade in rete? Le stesse cose. Ma con possibilità pratiche di organizzazione e di comunicazione che non erano mai state disponibili prima della nascita della “comunicazione elettronica interattiva”.

Ognuno di noi gestisce quotidianamente, anche quando non se ne accorge, diversi sistemi di comunità. Qui può essere utile soffermarsi sul concetto di “gestire” – perché ne derivano precise conseguenze pratiche. Molti lo intendono in senso gerarchico: il compito di gestire è di chi occupa un livello “alto” in una gerarchia e si riferisce a chi sta al di sotto di quel livello. Credo che sia utile e importante intendere il concetto in modo diverso. Conosco parecchi dirigenti d’impresa che mi spiegano come la parte più impegnativa del loro lavoro non sia gestire i “dipendenti” ma i livelli più alti dell’organizzazione. Attenti studiosi delle relazioni umane spiegano che un’amicizia (anche un amore) ha bisogno di essere “gestita” – cioè nutrita di attenzione e cura – se vogliamo che cresca e ci dia tutta la ricchezza di cui è capace. Questo genere di affettuosa gestione (è appropriato l’uso di un aggettivo emozionale) è importante in tutte le comunità umane; e specialmente in quelle online, dove manca la presenza fisica.

Non c’è lo spazio in questo documento per una “classificazione” delle comunità online, che potrebbe essere semplicistica (quindi inadeguata) o troppo complessa. Anche perché qualunque sia lo schema dell’esistente ognuno può avere un’idea nuova o definire una comunità “su misura” – e spesso è proprio questa la soluzione migliore. Ma può essere utile riassumere alcuni criteri generali.

  • Ci sono due visioni “estremistiche”. Quella di chi pensa che una comunità sia automaticamente distrutta o corrotta se interviene una presenza commerciale; e quella di chi crede che sia utile organizzare comunità “di comodo” – insulsi salotti nell’angolo di un negozio. La strada giusta non è una “via di mezzo” fra questi due estremi ma una concezione completamente diversa: in cui da un lato si capisca che un apporto “commerciale” può essere utile (anche, ma non solo, perché porta denaro); dall’altro che una comunità “asservita” perde valore e credibilità – sostanzialmente muore o si trasforma in uno sterile sottoscala. Si può entrare in una comunità esistente o crearne una ex novo. Nell’uno e nell’altro caso bisogna essere rispettosi. Non essere “invasivi” se entriamo in un territorio che ha già una sua cultura. Non essere “prepotenti” se organizziamo qualcosa che sarà tanto più utile quanto più sarà capace di vivere di vita propria e trovare percorsi e sviluppi che non avevamo previsto.


  • Una comunità deve essere libera. Tutti i partecipanti devono avere pari diritti, tutte le opinioni devono essere rispettate (anche quelle scomode) ed è bene che ci sia spazio per l’innovazione e l’imprevisto. Ma ciò non significa anarchia totale. Occorre una definizione di identità (la cosiddetta policy) che stabilisca qual è l’area di interesse e quali sono le regole di comportamento. Occorre una persona responsabile (“moderatore”) che eviti eccessive dispersioni fuori tema (off topic), ingombri inutili, discussioni personali prive di interesse generale o litigi (flame); tenga sotto controllo eventuali tentativi di spamming; eccetera. La “moderazione” può essere a priori (il moderatore legge e controlla tutti i messaggi prima che siano messi online) o a posteriori (tutto va online automaticamente e il moderatore interviene solo dopo, cercando di persuadere e orientare – ma anche se necessario cancellando o correggendo ciò che è già stato diffuso). La soluzione più efficiente è spesso la prima, ma (ovviamente) ha due difetti: il carico di lavoro per il moderatore – e il sospetto che possa trasformarsi in censura.


  • Quando si organizza una comunità online (o si entra in una comunità esistente) è meglio non pensare subito, né prevalentemente, a “vendere”. Una comunità non è lo scaffale di un negozio o una bancarella di “offerte speciali” – né un’operazione promozionale basata su sconto o servizi gratuiti. È una preziosa fonte di informazioni, verifiche e idee. Un modo per costruire relazioni, dare servizio, coltivare rapporti di familiarità e fiducia. Non è uno scherzo dire che una comunità viva e attiva è un gruppo di persone che lavora gratis per noi. Ma dobbiamo ricordare che nulla, mai, è del tutto gratis: quelle persone devono ricevere qualcosa in cambio. Conoscenza, esperienza, informazione. E magari, qualche volta, anche un segno tangibile della nostra riconoscenza.


  • Una comunità viva e forte è un sistema in cui tutti guadagnano. Cioè ogni partecipante ne trae un vantaggio. È un sistema sostanzialmente “autogestito”, nel senso che l’attività spontanea dei partecipanti e lo scambio di idee e di informazioni ne è il tessuto fondamentale. Ma non è priva di governo. Un punto di riferimento è necessario; e chi sta al centro del sistema, anche se lascia a tutti i partecipanti la massima libertà e non “impone” mai il suo punto di vista o i suoi interessi, ne trae un beneficio maggiore di tutti gli altri.


  • Ci sono comunità in cui avvengono vere e proprie transazioni economiche. Uno degli sviluppi più interessanti della network economy è la possibilità di vendite, acquisti o scambi (“baratti”) di beni e servizi in un sistema di interazioni molteplici e “autogestite”, in cui ognuno (persona o impresa) può negoziare come vuole e definire i termini delle transazioni. Ma, per quanto importante, questo è solo uno dei molti modi in cui il sistema funziona. Le comunità possono essere molto rilevanti anche quando non svolgono al loro interno attività commerciali ma arricchiscono i loro partecipanti con lo scambio di informazioni.



A questo proposito vedi anche
i capitoli 31 e 49 di L’umanità dell’internet



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Questo è il capitolo 9 (di 32)
del libro Le imprese e l’internet
di Giancarlo Livraghi e Sofia Postai
L’indice si trova su
http://gandalf.it/upa/
 


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