Comunicazione
e comunità online

 
Intervista di Luca Oliverio a Giancarlo Livraghi su “Comunitàzione”
3 luglio 2003

 
Mi scuso, anche questa volta,
con i miei lettori abituali,
perché anche questa interviststa
in parte ripercorre argomenti
già trattati in libri o articoli.

Ma poiché domande come queste
sėricorrono spesso fra persone
che hanno esperienza della rete
forse non è inutile
pubblicare anche qui le risposte.
 



In una precedente intervista abbiamo parlato di comunicazione d’impresa. Oggi mi piacerebbe ragionare con lei sull’internet. Da diversi anni lei si occupa della comunicazione attraverso la rete. Cosa cambia rispetto ai media tradizionali?

Ho scritto un intero libro per tentare di rispondere a questa domanda. Si chiama L’umanità dell’internet. Credevo di riuscirci in un centinaio di pagine, ma poi mi sono accorto che ce ne volevano di più. Mi sono fermato a 380 perché se no l’editore avrebbe avuto uno svenimento. Poi ho continuato a pensarci, a cercare di imparare... e ho aggiunto parecchie cose online.

L’internet non è un “mezzo”. È un sistema, un complesso di risorse in cui si possono realizzare diverse forme di comunicazione. Non è “un mondo a parte”. Nessuno usa “solo” l’internet. Quando nascono nuovi sistemi di comunicazione, si aggiungono a quelli che c’erano – non li sostituiscono.

La rete può essere usata in tanti modi. Alcuni se ne servono solo come sostituto della posta o del fax – o per la ricerca di informazioni. Altri ne fanno un uso più ricco e complesso. Si tratta, come è giusto, di scelte individuali. Ognuno può farsi una rete su misura.


È vero. L’internet permette un’interazione maggiore, una fruibilità e una accessibilità ai contenuti personalizzabile. Ma come mai molte aziende si ostinano ad utilizzare l’internet come mezzo tradizionale, a strutturarlo come una vetrina, o peggio ancora, come un bigliettino da visita? Colpa delle web agency o di noi comunicatori?

Non credo che sia il caso di cercare “colpe”. Quando qualcosa non funziona, o le soluzioni non sono le più efficaci, ognuno deve prima di tutto riesaminare il proprio ruolo e assumere le proprie responsabilità.

Anni di montature, esagerazioni, immaginarie crescite “esponenziali”, ipotesi miracolistiche, avventure fallimentari, eccetera, hanno confuso la situazione. Ma quella fase è finita da almeno due anni. Ora è il momento di dimenticare le fantasie e concentrarsi sulle possibilità reali.


Ancora una volta salta fuori il problema della specializzazione e della professionalità. Cosa c’è che non va? Le scuole? I “maestri” che poi non lo sono tanto? O uno scarso impegno di comprensione?

Non è facile trovare buoni insegnanti in materie che si studiano seriamente da migliaia di anni. Ovviamente è molto più difficile nel caso di un’evoluzione recente. Se nessuno si considerasse “maestro”, e tutti ci dedicassimo di più a imparare dall’esperienza concreta, probabilmente avremmo meno chiacchiere e più fatti.

Un altro problema è che si è dato (e si continua a dare) troppo peso alle tecnologie e troppo poco ai valori umani. Una solida preparazione sui temi generali della comunicazione, così come li abbiamo imparati in tutta la storia dell’umanità, è la premessa necessaria per capire ogni sistema di relazioni umane – compresa la rete.

Un fatto interessante è che nella comunicazione online si riscoprono valori che non erano mai scomparsi, ma sembrano “secondari” in quella standardizzazione dei sistemi che è nata dall’era industriale. Non è un esercizio teorico, ma una constatazione pratica, parlare di coltivazione dell’internet e di valori antichi della nuova comunicazione.


Lei ha un osservatorio abbastanza ampio. Da più parti le si chiedono collaborazioni, aiuti e pareri. Anche noi lo abbiamo fatto spesso. La sua risposta a queste richieste, quale è, o meglio, cosa si sentirebbe di consigliare a chi volesse crearsi un sito?

Prima di tutto, occorre chiedersi: «ma ho davvero un motivo per aprire un sito? e qual è?». È strano, ma molti si presentano online senza avere un’idea chiara di perché lo fanno.

Se e quando si scopre che si ha un motivo preciso per andare online, occorre pensare prima ai contenuti, poi all’architettura (struttura del modo in cui vengono proposte le informazioni) e solo dopo agli aspetti “estetici”. (Vedi L’architetto e il giardiniere). Un buon sito deve essere prima di tutto funzionale. Le “apparenze” hanno scarso valore – e sono inutili, o nocive, se non servono a migliorare la funzionalità.

Inoltre occorre capire che un sito web (come ogni forma di comunicazione) difficilmente “nasce adulto”. Meglio all’inizio fare poco (ma farlo bene) e poi crescere gradualmente, man mano che si impara dall’esperienza.

Infine... è meglio non aprire un sito se non si hanno le risorse (soprattutto umane) per seguirlo, coltivarlo, farlo evolvere nel tempo.


Obiettivi, mission, target. In fondo allora, la comunicazione è sempre la stessa. Ma quale è il futuro dell’internet? Le comunità? L’accumulo sconsiderato di memoria? L’erogazione di servizi?

Non mi azzardo a fare profezie. Ma il fatto è che la rete esiste. E continua a crescere (anche se un po’ meno velocemente che in passato). Siamo ancora lontani da una “soglia di saturazione”.

Quanto ai servizi... non è questa l’unica sostanza della rete. L’internet è nata e cresciuta soprattutto come strumento di informazione e di dialogo. Se non si fosse sviluppata in quel modo, probabilmente non ci sarebbe la base necessaria per poterne fare anche un sistema di erogazione di servizi.

Naturalmente un buon uso dei sistemi di rete può aiutare a migliorare i servizi pubblici, come quelli delle imprese private. Ma la base non sta nelle tecnologie. Occorre che prima di tutto ci sia una vera cultura di servizio. E abbiamo esempi quotidiani di quanto sia mancante. Questo è un problema grave (anche indipendentemente dalla rete) che non si risolve se non con un impegno profondo e durevole nel tempo. Di cui, purtroppo, si vedono scarse tracce.

Quanto alle comunità e alla memoria... forse ci sono un po’ troppi argomenti diversi in una sola domanda....


Ha ragione. Forse sarebbe meglio se provassimo a snocciolare un po’ la cosa.
La memoria. Come viene modificata la memoria collettiva dall’internet?

L’accumulo di memoria? Non mi è chiaro che cosa si intenda con questo concetto. Fra le tante e diverse funzioni della rete c’è anche quella di conservare la memoria – e di renderla più facilmente accessibile.

Non vorrei riparlare, per l’ennesima volta, della mitica biblioteca di Alessandria o della “biblioteca di Babele” immaginata da Borges. Il fatto è che la rete è un sistema che permette più efficacemente di conservare tutto ciò che si vuole. E se una delle risorse online fosse distrutta la molteplicità della rete permetterebbe probabilmente di recuperare in buona parte i contenuti, conservati per qualche motivo da qualcun altro.

Il sistema, naturalmente, conserva di tutto. Dalle cose più preziose alle più sciocche e inutili. Quando ci troviamo davanti a montagne di spazzatura possiamo essere sconcertati – e chiederci perché mai si debba conservare quella roba.

L’invasività è un danno (oltre che una villania). Ma la conservazione della memoria è un bene. Perché ciò che a uno pare inutile può essere interessante per qualcun altro. E perché anche il più meschino dei dettagli può servire a interpretare meglio una situazione e una tendenza. Lo sanno bene gli archeologi, che anche dal più misero dei cocci possono imparare qualcosa su un’antica civiltà. Lo sanno anche gli analisti di tendenza, che in una notiziola di cronaca possono trovare un segnale più interessante di tante elucubrazioni teoriche.

Il problema, naturalmente, è come orientarsi nella molteplicità delle risorse. Ma non è così difficile come sembra. Con pazienza, attenzione e intuito si può arrivare non a “tutto”, ma a molto più di quanto fosse possibile con gli strumenti tradizionali.

La congestione informativa non è un problema nuovo. Era stata analizzata seriamente più di cinquant’anni fa – quando l’internet era solo un’ipotesi concettuale. La rete non l’ha creata, l’ha solo resa più evidente e percettibile. E ora, con la moltiplicazione dei sistemi e delle risorse, si è creata anche una congestione comunicativa. Ma quella è un’altra storia.


Ma la comunità non si basa solo sulla condivisione della memoria, ma anche della lingua, degli intenti, degli usi, delle leggi...

Le comunità umane sono sempre esistite, fin dalle origini della nostra specie. Ci sono anche nell’internet. Ma non tutto ciò che si fa o che accade in rete è una “comunità”.

Forse si fa un po’ di confusione fra “comunità” e “patrimonio comune”. Ci può essere una condivisione di conoscenze, di cultura, di storia, senza che questo si traduca in una comunità individualmente interattiva. Siamo sempre nell’eterno problema socratico – definire di che cosa stiamo parlando.

Possiamo dire che (come le comunità) il “patrimonio di conoscenze” è sempre esistito – anche quando non era ancora nata la scrittura e si trasmetteva “per tradizione orale” – o attraverso simboli, riti, gesti e comportamenti – o nei dipinti sulle pareti delle caverne.

Le comunità online non sono sostanzialmente “nuove”. Il cambiamento sta nella maggiore facilità del dialogo collettivo (di cui però non è bene abusare, come da vent’anni insegna la netiquette) – e nella possibilità di essere, o rimanere, in contatto indipendentemente dalle distanze geografiche. La rete ci permette anche di scoprire persone o comunità (per qualche motivo “affini” a noi e ai nostri interessi) di cui, senza questo strumento, non avremo mai avuto notizia. Qualcuna può essere agli antipodi, qualcun’altra a trecento metri da dove abitiamo.


In molti credono che la condivisione della memoria attraverso l’internet porterà una riattualizzazione delle micro comunità. Cosa c’è di vero? E di falso?

Più che vero o falso... devo confessare che questo concetto, per me, è incomprensibile. Le comunità (micro o non) sono state una delle prime realtà fin dalla nascita delle reti (anche quando non si chiamavano “internet”). Non stiamo parlando di un ipotetico futuro, ma di qualcosa che accade concretamente da vent’anni. C’erano comunità online prima che nella rete di formasse una base estesa di “conservazione della memoria”.

Insomma mi sembra che “comunità” e “memoria collettiva” siano due cose connesse fra loro, ma sostanzialmente diverse. Posso andare a esplorare (in biblioteca o in rete) le conoscenze disponibili sulla memoria della civiltà sumerica o minoica (e anche trarne insegnamenti sulla cultura e sull’umanità di oggi) senza per questo far parte di una comunità mesopotamica o cretese.


In un messaggio inviato a Mlist, a proposito delle comunità virtuali, lei diceva: «Non ho mai capito bene che cosa voglia dire “virtuale”. [...] In sostanza significa qualcosa che non c’è o la rappresentazione “finta” di qualcosa che c’è. [...] Le comunità online non sono “virtuali”. Non sono “finzione” né “rappresentazione”. Sono altrettanto reali di qualsiasi altra cosa che consideriamo realtà. [...] Se smettessimo di chiamarle “virtuali” forse anche il resto del mondo capirebbe un po’ meglio di che cosa si tratta». Ma allora la comunità virtuale cosa è? Un’invenzione mediatica? Pura evanescenza? O un modo di vivere la comunicazione attraverso l’internet?

Sarei tentato di rispondere, come Quelo, «la terza che hai detto». Le comunità online esistono. Molte non sono “solo online”. Il fatto è che non sono “simulazioni”. Non esistono in un immaginario “mondo separato”. Sono reali, fatte di persone in carne e ossa.

Nessuno ha mai pensato di chiamare “virtuale” una conversazione telefonica o uno scambio di corrispondenza. Possiamo ragionare su come una comunità che esiste “principalmente” online possa essere un po’ diversa da una che si basa “principalmente” su incontri in un luogo fisico. Le elucubrazioni su questo argomento sono spesso pretestuose... ma se si evitano divagazioni inutili o ipotesi irreali può anche essere interessante, talvolta, ragionarci un po’.

L’importante è sempre capire che la rete non è fatta di macchine, connessioni, software o protocolli. È fatta di persone.


E che fine fa la memoria? Baudrillard afferma che «la memoria, in combinazione con il presente, il passato e il futuro, oppure combinata al tempo tradizionale e storico, è costantemente rimessa in discussione in una realtà, in cui tutto si esaurisce nella circolazione immediata sulla rete» E allora le celebrazioni, le commemorazioni, i rituali, a cosa servono? Non erano utilizzati (e secondo me lo sono ancora oggi) per riattualizzare il passato riproponendolo alle generazioni vecchie e nuove perché non si dimenticasse?

Devo confessare che non ho mai letto Baudrillard, perché dalle molte citazioni che si trovano in giro ho l’impressione che il suo modo di pensare non mi interessi. Anche in questo caso, il ragionamento non mi sembra chiaro.

Se c’è una cultura del presente che bada solo all’immediato senza cercare di capirne le origini, non vedo come si possa pensare che sia nata dalla rete. Mi sembra più diffusa in sistemi di comunicazione dominanti da molti anni.

Se qualcuno vuole essere superficiale in rete, nessuno glie lo può impedire. Se qualcuno vuole approfondire, la rete è uno dei più utili strumenti per farlo. Pensare a una “cultura omogenea” dell’internet vuol dire non aver capito che cos’è la rete.


Abbandoniamo un po’ la sociologia e passiamo al pragmatismo. Oggi sull’internet ci sono milioni di siti web, ognuno offre servizi diversi, dagli spazi gratuiti alle zine specialistiche. Sembra che stiamo imparando ad utilizzare i media. Ma la strada per l’editoria personalizzata è ancora lontana, nonostante i mezzi lo permettano. Perché? Cecità delle organizzazioni di raccolta pubblicitaria? Degli editori? O quali sono le cause secondo lei?

Più di trent’anni fa... avevo visto, a New York, la presentazione di una tecnologia che permetteva di “personalizzare” un giornale. Non usava sistemi di networking – che a quei tempi erano sperimentali. Era un marchingegno (oggi diremmo una stampante) collegato a un televisore. Ogni abbonato poteva scegliere di ricevere solo certe parti di un giornale e non altre, secondo i suoi interessi (e naturalmente poteva anche ricevere notizie e aggiornamenti più veloci). Il sistema era tecnicamente funzionante. Non è mai stato applicato. Perché non c’era (come non c’è oggi) un’adeguata cultura e capacità editoriale.

La “personalizzazione” è un mito. Ed è molto difficile automatizzarla. Se, per fare un piacere a un amico, ordino un libro sulle formiche, non vuol dire che voglio essere bombardato di offerte variabili dai formicai domestici ai trattati sulle termiti. O magari da un venditore di insetticidi.

Basta dare un’occhiata allo spam circolante per capire che le presunte “profilazioni” o sono imbrogli o sono tentativi falliti. Non leggo quasi mai quella roba, ma ne ho capito abbastanza per sapere che in dieci anni di attività online non ho mai ricevuto un’offerta che corrispondesse a un mio interesse reale.

L’unica “personalizzazione” che funziona è quella che ognuno sceglie per sé. Cioè una persona attivamente decide di andare a cercare, o di chiedere, un certo genere di informazioni. Quando spedire un catalogo di semi o attrezzi per giardinaggio era un’operazione costosa, chi distribuiva quel materiale stava attento a non mandarlo a persone non interessate. Con la scusa che online “sparare nel mucchio” costa poco, si è diffusa la perversa abitudine di fare spamming su larga scala. Cosa che conviene ai truffatori ed è un problema per tutti gli altri.

Un sistema interattivo come l’internet permette a ognuno di cercare e scegliere ciò che vuole. Questa è l’unica strada per costruire significative relazioni online – che siano personali, culturali o commerciali. Il resto è aria fritta – quando non è una pestilenza che (credo e spero) non riuscirà a uccidere la rete, ma crea parecchio disagio. E diffonde quella comprensibile diffidenza che è il maggiore ostacolo a un sano sviluppo delle attività – commerciali, editoriali o di servizio.




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