timone Il Mercante in Rete
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Marketing e comunicazione nell'internet


Numero 69 – 11 ottobre 2003

 

 
Consiglio a chi legge abitualmente il Mercante in Rete
di tener d’occhio la segnalazione delle

novità
per verificare se c’è qualcos’altro
che possa trovare interessante.
 

 


loghino.gif (1071 byte) 1. Perché meno frequente


Questa rubrica non ha mai avuto una frequenza fissa. Ma i lettori abituali sanno che da un paio d’anni esce più raramente. Sono un po’ sorpreso anch’io nell’accorgermi che sono passati sei mesi dalla pubblicazione del numero 68.

Non si tratta di “pigrizia” o distrazione – né del fatto che, come sempre, il tempo è scarso, per il sovrapporsi di vari impegni. Né dell’afa opprimente di una lunga estate, che rendeva difficile la concentrazione e incoraggiava a stare lontani dall’emissione di calore dei computer.

Un fatto curioso è che, nonostante l’evoluzione di un sito che offre anche molti altri contenuti (e un continuo afflusso di persone nuove che, in un modo o nell’altro, ne scoprono l’esistenza) un nucleo forte di lettori preferisce ancora concentrarsi sul “mercante in rete”. La spiegazione più plausibile è che sia una conseguenza della “continuità storica”. Infatti questa è l’unica, fra le varie rubriche in questo sito, che continua ininterrottamente (anche se con frequenza variabile) dall’inizio del 1997.

Ma perché, mi chiedono alcuni di quei “fedeli” lettori, la frequenza è diminuita?  I motivi sono almeno tre.

  • Uno, ovviamente, è che argomenti e ragionamenti trovano posto in altri articoli (vedi offline e tre rubriche) ed è inutile ripeterli qui.
     
  • Un altro è che ci sono sempre meno novità interessanti. Ogni giorno si pubblicano varie notizie proposte come “nuove”. Molte sono “rifritture” di cose vecchie. Altre sono davvero nuove, ma irrilevanti. Poche meritano più di una fugace attenzione, pochissime segnano una reale innovazione o un cambiamento significativo. Il mondo sembra affondare sempre di più in una sconcertante monotonia, una desolante ripetitività (ritorno, più avanti, su questo argomento).
     
  • Infine... c’è una sensazione di stanchezza. Non ho cambiato idea sui valori autenticamente innovativi dei nuovi sistemi di comunicazione.  Ma quel potenziale, finora, si è realizzato solo in parte – e poco o nulla (se non una crescita dimensionale) si è aggiunto a ciò che già avevamo constatato dieci ani fa.

La moltiplicazione di tecnologie sempre più complesse e ingombranti non ha minimamente arricchito i valori culturali della rete. Al contrario, è un elemento di distrazione e confusione che tende a deprimerli o “annegarli” in una palude di ripetitiva monotonia. Mi trovo, anche per questo motivo, a dedicare meno attenzione a un “mondo nuovo” che sa di vecchio – e a ripensare ai valori più generali dei sistemi di comunicazione e di evoluzione culturale. Per trovare, anche in quella prospettiva, una sempre crescente percezione di monotonia (quando non si tratta di preoccupante deterioramento).

Ricevo spesso domande la cui risposta è stata data chiaramente, da me o da qualcun altro, parecchi ani fa (in non pochi casi un po’ di ricerca bibliografica troverebbe fonti significative di molti secoli, se non millenni, passati). Sempre più raramente leggo (nella corrispondenza privata come in tutti i sistemi di comunicazione) qualcosa di nuovo – o qualcosa che stimoli a pensare in modo diverso.

Sono anche stanco di ripetere le stesse cose. Non voglio annoiare i miei lettori ritornando su ciò che era evidente, cinque o dieci anni fa, a ogni osservatore attento, ma è stato per troppo tempo ignorato dai cultori delle megalomanie e delle promesse irrealizzabili. Di quelle sciocchezze stiamo ancora pagando il prezzo. Ma serve a poco ripeterlo in queste pagine. L’importante è che, nei fatti, si impari a percorrere strade più ragionevoli e concrete.


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loghino.gif (1071 byte) 2. Il nuovo che non c’è


Il mondo, così come ce lo racconta il sistema informativo dominante, è disperatamente noioso. Fatti importanti, spesso gravi, annegano in una desolante ripetitività – fino a creare una “abitudine al peggio” che spegne ogni desiderio di miglioramento. Ci si rifugia nella routine (che è spesso noiosa e deprimente). O (cosa migliore, ma un po’ troppo rassegnata) si cercano vie di fuga – nella vacanza, nei rapporti famigliari e nelle amicizie private, nello svago o (per fortuna c’è anche questo) nell’approfondimento culturale.

Questa esasperante monotonia non è solo un ennesimo sintomo di quella “omogeneizzazione” dei sistemi informativi che conosciamo da parecchi anni e che continua ad aggravarsi – con una conseguente, sclerotica banalità dei sistemi culturali dominanti (compresi gli apparati scolastici e universitari). Purtroppo è anche un sintomo di “ottusità collettiva”. Siamo frastornati dalla sovrabbondanza di informazione, preoccupati delle quotidiane difficoltà, incapaci di capire e interpretare tendenze più ampie o di cogliere i segnali di vera novità, che esistono, ma sono luci disperse difficilmente distinguibili nelle abbaglianti luminarie della ripetitività dominante.

Siamo pericolosamente propensi ad assoggettarci, a considerare “normale” qualsiasi sciocchezza (o pericoloso errore) solo perché la tendenza più diffusa è a “fare così”.

Dovremmo imparare a non fidarci delle finte novità. E ancora meno delle cose “vecchie” che erano sbagliate all’inizio e con diabolica perseveranza continuano a peggiorare.

La giustificazione, ossessivamente ripetuta, è che non c’è il tempo di pensare. Come se pensare non fosse un modo per risparmiare errori e complicazioni inutili – e così non solo migliorare i risultati e la “qualità della vita”, ma anche risparmiare un’infinità di tempo sprecato in percorsi sbagliati o nel mettere una tardiva toppa a ciò che si era, fin dall’inizio, mal concepito.

Da che mondo è mondo, non sono solo i sapienti e i filosofi a dire “fermati e pensa”. Lo sa e lo insegna anche chi si occupa seriamente di organizzazione o di praticità dei metodi. La continua corsa verso “non si sa cosa” e l’imperversare delle finte novità ci stanno togliendo la capacità di pensare. Questa sclerosi non solo ci fa dimenticare le lezioni (spesso di piena attualità) imparate del passato, lontano o recente. Ci toglie anche la capacità di capire il “nuovo”, nei rari casi in cui qualcosa di nuovo sta davvero nascendo.


Altri aspetti di questo argomento sono sviluppati in due articoli.
Facciamo un passo indietro
Le ambiguità dell’innovazione


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loghino.gif (1071 byte) 3. La scomparsa di “Aol”


Una notizia è passata inosservata. Il 18 settembre 2003 le tre lettere AOL sono scomparse dal nome di una grande concentrazione che ritorna a chiamarsi solo Time Warner. È la conclusione “formale” di un graduale processo che ha visto diminuire, all’interno del gruppo, l’influenza e l’importanza di quella che tre anni fa sembrava esserne la componente più forte e dinamica.

Accade quasi sempre che si dia peso trionfalistico alle fusioni e concentrazioni e che si trascurino le notizie dei problemi che le affliggono e dei risultati spesso fallimentari.

Una ventina di anni fa, quando stava cominciando l’accelerazione esasperata di questi fenomeni, circolava una storiella. «Quanto vale il tuo cane?»  «Dieci miliardi». «D’accordo, affare fatto, ho due gatti da cinque miliardi l’uno».

Cani e gatti, poi, non vanno d’accordo e non riescono a “integrare” le loro diverse identità e culture.

America OnLine nacque nel 1985, quando l’internet non era ancora un sistema largamente diffuso. Era uno dei “BBS commerciali” che si stavano affermando in quegli anni. Riuscì ad assorbire il suo più forte rivale, Compuserve, che esisteva dal 1979. Ha ancora oggi, negli Stati Uniti, una base abbastanza ampia di “utenti” (mentre ebbero scarso successo i tentativi di estendere la sua presenza su scala internazionale).

Era una piccola struttura rispetto a un gigante come Time Warner (che era già il risultato di varie fusioni). Ma quando nel 2000 una grottesca sopravvalutazione del valore azionario di AOL portò a quella che sembrava una “conquista” di Time Warner, tutto il mondo finanziario e di business pensò che si trattasse di una cosa seria – e di un sintomo del predominio delle “nuove tecnologie”. Quella percezione contribuì a far crescere in mezzo mondo un’infinità di speculazioni avventate e fallimentari.

Il caso AOL-Time-Warner è solo uno dei più noti in un’infinita serie di situazioni analoghe. Sembra tutt’altro che finita la kermesse delle fusioni e concentrazioni. Che sono spesso solennemente annunciate e applaudite, mentre rimangono quasi sempre nell’ombra le successive separazioni e le inevitabili crisi di identità di aggregazioni male assortite.

Errare humanum, perseverare diabolicum. Ma sembra che l’onda demoniaca delle manipolazioni finanziarie non riesca a esaurirsi. E che dalle molte catastrofi che ne derivano nessuno voglia trarre una lezione.


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loghino.gif (1071 byte) 4. Che cosa vuol dire “velina”


Per chi non è interessato alle etimologie, questa può sembrare una quisquilia lessicale. Ma spesso nell’uso del linguaggio si rivelano fenomeni culturali non irrilevanti. Si parla di “veline”, intese come ragazze più o meno succintamente vestite che accompagnano con qualche balletto ogni sorta di programmi televisivi o altri generi di spettacolo. La cosa è tutt’altro che nuova, ma oggi ha assunto il carattere di un’abitudine fissa, di un “obbligo” che (per quanto attraenti possano essere le fanciulle scelte per questo ruolo) finisce col diventare stucchevole.

Ma quasi nessuno si ferma per un attimo a chiedersi perché si chiamino “veline”. C’è un motivo preciso. Quindici anni fa, alle origini della fortunata trasmissione televisiva Striscia la notizia, le ragazze arrivavano su pattini a rotelle portando foglietti che istruivano i conduttori su che cosa dovevano dire. Si ironizzava così su un antico termine del gergo giornalistico.

C’era, un tempo, la “carta carbone”. Per fare più di due copie si usava la “carta velina”. Così la “velina” è un testo distribuito (da chi ha il potere o le leve di controllo per poterlo imporre) alle redazioni dei giornali,

Si dice che quella fosse un’usanza ai tempi del fascismo, quando c’era il famigerato “minculpop” (ministero della cultura popolare). Ne dobbiamo dedurre che le veline non ci sono più, se non sotto forma di gradevoli apparizioni femminili?  Sarebbe incredibilmente ingenuo.

Le istruzioni non sono più riprodotte con la carta carbone e la carta velina. Ma ci sono. Se qualcuno dice «voglio vedere le veline» non sempre significa che voglia “lustrarsi la vista” con la contemplazione di gambe e altre parti del corpo femminile. Può darsi che stia cercando di capire, dal tipo di notizie diffuse e dal modo in cui sono presentate, quale marionettista stia “tirando i fili” e con quali intenzioni lo faccia. Con un po’ di attenzione l’esercizio non è molto difficile. E può essere illuminante.

 

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