Il potere della stupidità
Kali

La stupidità della pubblicità
(e come si può guarire)


Intervista di Paola Panarese a Giancarlo Livraghi
 
gennaio 2010

Risposte a dodici domande per il libro
Quel che resta della pubblicità

libro
(dicembre 2011)
 

Disponibile anche in pdf
(migliore come testo stampabile)

Questa intervista è stata curiosamente “riscoperta” due anni e mezzo più tardi – diffusa online in vari contesti, con molti consensi – fra l’altro riproposta nel blog dell’Adci il 22 giugno 2012


1.   Lo scenario contemporaneo, socio-culturale e di mercato, in cui opera la pubblicità, è cambiato molto rispetto a un passato non troppo remoto. Quale crede che sia il fattore di cambiamento che più ha condizionato o sta condizionando lo sviluppo della comunicazione di marketing?

La stupidità. Non solo perché molta pubblicità è banale, stucchevole, superficiale. Ma per motivi più seri e profondi. Nel mondo della pubblicità si sono fatte, e si continuano a fare, molte cose sbagliate e sciocche. Ma la causa principale del declino (e istupidimento) sta nella cambiata prospettiva delle imprese.

Con l’esplosione della finanza speculativa, le strategie di breve periodo e il “facile arricchimento” di pochi (a scapito di investimenti di qualità e di serio impegno nell’identità d’impresa) anche la comunicazione è diventata futile e superficiale.

Non è un caso che tutti e due i degradanti fenomeni siano cominciati negli “anni ottanta”. Con vari generi di “crisi” che sarebbero state evitate se qualcuno avesse fatto qualcosa per correggere la situazione prima che arrivasse a un inevitabile tracollo.

Si è diffuso anche (non solo in pubblicità) un concetto deviante di “immagine”, di predominio dell’apparenza sulla sostanza, che continua a essere una malattia deformante di tutta la cultura, non solo dello spettacolo e della “spettacolarizzazione” della comunicazione (pubblicitaria o non).


2.   Da molti anni, ormai, si sente parlare di fine o morte della pubblicità (tradizionale). Qual è la sua opinione a riguardo?

Sono sciocchezze. Lo dimostra un fatto semplice: se qualcuna di quelle profezie, che circolano da circa vent’anni, fosse fondata, la pubblicità (tradizionale o non) sarebbe morta da un pezzo.

La previsione di “fine della pubblicità” è tutt’altro che nuova. Per esempio, nel 1916, James Walter Thompson vendette la sua agenzia di pubblicità a Stanley Rasor, perché era convinto che non ci fossero possibilità di sviluppo. Settant’anni dopo, nel 1987, l’agenzia (che Thompson aveva comprato nel 1877 per 500 dollari – circa 10 mila al valore di oggi) divenne preda di uno speculatore “ostile” per 566 milioni.

Lasciamo perdere i funerali e i profeti di sventura. Spesso quelle sibille dicono così perché hanno qualcosa da vendere. Presunte “novità” la cui reale utilità o efficacia resta da dimostrare. O cose tutt’altro che nuove, ma imbellettate nel tentativo di sembrarlo.

Molto del cosiddetto “nuovo” in realtà è una rifrittura di cose vecchie. Certo, ci sono e ci saranno strumenti e metodi davvero nuovi. Ma per capire quali sono, e come è utile usarli, è necessario avere radici profonde nella comprensione della natura umana e della qualità della comunicazione. Che non cambiano in un anno o in un secolo. Ci sono concetti fondamentali che erano chiari più di duemila anni fa e che molti cosiddetti “esperti” sembrano non avere mai capito.


3.   Cosa pensa, poi, del dibattito relativo alla fine del marketing?

Si stanno dicendo (e purtroppo facendo) cose pericolosamente confuse. C’è una profonda eclissi del marketing (vedi Il tentato suicidio del marketing). Peggiorata dal fatto che molte cose chiamate “marketing” non somigliano neppure remotamente a una seria strategia di mercato, di prodotto e di marca.

Così, in molti contesti, “marketing” è diventata una parola oscena. Di quel falso e bugiardo pseudo marketing è desiderabile la fine.

Vale la pena di divertirsi a inventare qualche parola “nuova”? Credo di no. Già circolano troppi neologismi che servono solo a confonderci le idee. L’importante è ritrovare il vero significato di marketing. Insieme a un’autentica cultura di servizio.

Vale la pena di riscoprire il marketing, quello vero? Credo che sia necessario. Certo, è impegnativo. Richiede costanza, disciplina, coerenza. E una continuità nel tempo estranea alle culture frettolose del “breve”. Con l’aria che tira, i primi bordi sono di bolina.

Ma, proprio perché è diventata rara, può essere una risorsa fondamentale per chi sa andare controcorrente rispetto alla degenerazione di oggi. Cioè rientrare nella forte corrente a favore che è sempre stata la forza portante dei più sani e durevoli sviluppi. Magari anche spendendo un po’ meno in pubblicità mal concepita e peggio realizzata, in attesa di aver capito come si possa fare in modo più efficace.


4.   Nello specifico, crede che quella che viene variamente chiamata stupidità del sistema pubblicitario, autoreferenzialità o sopravvalutazione della dimensione creativa rispetto a quella strategica, possa essere considerata una causa plausibile delle difficoltà dell’attuale pubblicità?

Si. Ed è un problema grave. Una brutta parola, tremendamente vera, è proprio “autoreferenzialità”. C’è una perversa tendenza a “parlarsi addosso”, badando poco a chi capisca cosa.

Nella cultura frenetica della fretta, c’è anche la sciocca abitudine di cambiare troppo spesso. È vero che l’eccessiva ripetizione provoca noia e fastidio, ma con una strategia chiara e un concetto forte è possibile “declinare” lo sviluppo di una campagna con continua freschezza di svolgimento e senza “perdere il filo” del suo tema fondamentale.

È pericoloso anche parlare di “creatività”. Parola grossolanamente abusata per descrivere vezzi e divagazioni che spesso sono scopiazzature o ricerca di gratuita “originalità”. È anche ridicolo che si usi l’aggettivo “creativo” per definire l’attività di varie persone in vari mestieri (non solo in pubblicità).

Mi scuso per un’autocitazione, ma così ho spiegato il problema in un recente articolo sulla semplicità (di cui riparleremo più avanti – vedi la risposta 10).

Partivo da un’osservazione di un musicista, Charles Mingus. «Rendere il semplice complicato è luogo comune, rendere il complicato semplice , stupendamente semplice, quella è creatività».

Grazie, Charlie. Così mi dai la nota giusta – lo spunto per un argomento che non può mancare in questi ragionamenti. Di che cosa stiamo parlando quando diciamo “creatività” o “creativo”?

Questa è una delle parole più stupidamente usate – e abusate – nel linguaggio di oggi. Stranamente ci sono mestieri che si definiscono “creativi”. Quando cerco di spiegare perché l’usanza è assurda e ridicola, spesso faccio un semplice esempio. Se chiedessimo a Mozart, a Raffaello o a Einstein “che mestiere fai?” ci sentiremmo rispondere musicista, pittore o fisico (con una certa tendenza di Einstein a dire “non saprei, diciamo essere umano”). Si metterebbero a ridere se qualcuno li chiamasse “creativi”.

Una mia amica (Elda Lanza, brillante scrittrice e giornalista) ha conosciuto e intervistato Coco Chanel. Un giorno le ho fatto una domanda. «Che cosa avrebbe detto Coco a qualcuno che le avesse chiesto qual era il suo mestiere?». La risposta è stata quella che mi aspettavo. «Si chiamava orgogliosamente “sarta” – certo non “stilista”».

C’è gente che va in giro con l’etichetta “creativo” e non ha mai creato qualcosa di interessante – se non forse un’ideuzza trent’anni fa che si è fatta notare per un paio di giorni perché dava fastidio a qualche benpensante (e che si continua a citare nelle agiografie come se fosse chissà quale rivoluzionaria meraviglia). Mentre c’è chi ha davvero trovato sintesi significative e non sopporta l’idea di lasciarsi classificare con quella goffa definizione.

Una categoria immune da questo malanno sembra essere quella degli scrittori. Nessuno, che io sappia, è mai stato definito “creativo” (anche se qualcuno ha avuto il cattivo gusto di lasciarsi chiamare “vate”). Forse dipende dal fatto che conoscono un po’ meglio l’uso della lingua. (Non è colpa di Dante se qualcun altro ha appiccicato alla sua commedia l’aggettivo “divina”).

La creatività esiste, ma è tutt’altra cosa. Una sintesi che semplifica la complessità. Ci sono, nei secoli e nei millenni, persone che sono meritatamente passate alla storia per aver avuto, in tutta la loro vita, una sola intuizione di quel genere.

Uno dei più stupidi (e pericolosamente ostinati) pregiudizi riguardanti la pubblicità è che ci sia un contrasto fra strategia e “creatività”. È vero il contrario. Quanto più precisa e chiara è la strategia, tanto più brillante, attraente, vivace e interessante può essere lo svolgimento della campagna.


5.   In che misura e in che direzione crede che i media digitali e interattivi possano determinare un cambiamento nel sistema pubblicitario?

Detto così, non ci credo. La prospettiva è troppo ristretta e perciò deformante.

Dell’importanza dei sistemi interattivi sono convinto da sempre. Ogni buona comunicazione deve essere “interattiva” (il primo, e fondamentale, passo è saper ascoltare). Tutti i sistemi, compresi i cosiddetti “nuovi media”, devono rientrare in questa prospettiva generale. Non viceversa.

Dei nuovi sviluppi, come l’internet, credo di essere stato fra i primi a rilevare e analizzare l’importanza. Ma nessun sistema di comunicazione può “determinare” il cambiamento degli altri. La comunicazione è un insieme (e comprende, oltre ai “mezzi” del comunicare, anche i comportamenti, le relazioni, l’esperienza diretta del prodotto o servizio). Isolarne una parte è sempre un pericoloso errore.

Su tutte le cose, specialmente su quelle “nuove”, si è sempre detta, nei secoli e nei millenni, un’infinità di scempiaggini. Il caso particolare dell’internet è che è nata in un momento in ci si era già diffusa un’informazione strabordante e “istantanea” a livello planetario. E perciò è stata inondata da un’alluvione di “rumore” confuso prima che la “cultura dominante” avesse il tempo di capire che cosa fosse. (Ancora oggi, ne capisce poco).

Gli anni passano, la bagarre continua. (Per spiegarne gli sviluppi e i problemi non basterebbe un libro. Infatti ne ho scritti quattro, senza contare vari contributi a libri di altri o “collettivi” – oltre a così tanti articoli che sono il primo a considerarli troppi).

Il fatto fondamentale è che non c’è “una” internet. La rete non è un “mezzo”, è un sistema di interconnessione. Ci sono tante internet diverse quante sono le persone che la usano. È inevitabile (e desiderabile) che ognuno si faccia “la sua rete su misura”. È una forma nuova del più antico sistema di comunicazione, il “passaparola”. Con la fondamentale differenza che la rete annulla le distanze. Si è “vicini” a qualcuno (o qualcosa) che sta agli antipodi, mentre si può essere “lontani” da ciò che accade (o si dice) a cento metri da dove siamo.

Chi crede di “sapere tutto” sulla rete o si illude o è bugiardo. Non solo settecento (saranno presto ottocento) milioni di host internet (e miliardi di pagine) sono enormemente fuori dalla portata anche del più assiduo frequentatore, ma quarant’anni di esperienza sono un tempo brevissimo nella storia delle culture umane.

Abbiamo appena incominciato a capire che cosa sia l’internet e quale sia il suo potenziale. Ma una cosa è chiara. La rete non è fatta di macchine, connessioni o protocolli. È fatta di persone. E ciò che conta non sono le tecnologie, ma i contenuti e i rapporti umani.

Non è una pignoleria lessicale dire che “digitale” è un termine molto equivoco. È ampiamente dimostrato (anche da complesse topologie) che la rete è un sistema analogico – e biologico. Definibile (dicono anche studiosi che ne hanno approfondito la struttura tecnica) come un ecosistema. Soprattutto strutturalmente simile non al funzionamento di un calcolatore elettronico, ma a quello di un cervello umano. E questo è tutt’altro che un dettaglio. (Vedi il capitolo 13 di L’umanità dell’internet).

Ci sono casi curiosi. Come quello di un servizio online che si chiama “stimoli digitali”. Quando ho detto alla simpatica e intelligente proprietaria che il suo sito non offre erotismo o fisioterapia, mi ha guardato sbigottita e non ha capito di che cosa stessi parlando.

Hanno idee altrettanto confuse tutti quelli che parlano e straparlano di “digitalizzazione”. Le tecniche non portano alcuna novità se non c’è un’evoluzione dei contenuti. (Per esempio – avere cinquecento canali televisivi, cosa comunque possibile da parecchi anni, serve a poco se sono quasi tutti dedicati a ricuocere la stessa zuppa).

(Sono da abolire dal vocabolario anche parecchie altre parole, come per esempio virtuale, multimediale, portale e tutto ciò che comincia con ciber – o peggio cyber con la y. Ma sarebbe troppo lungo entrare qui in quell’argomento).

Nel caso della pubblicità, o in generale comunicazione d’impresa, finora online si è sbagliato molto e concluso poco. Perché si è data troppa importanza alle tecniche, poca ai contenuti. Troppa alle apparenze, poco al servizio. Troppo spesso si è dato il sopravvento alla fretta, mentre una delle maggiori utilità della rete è poter procedere “a piccoli passi” con continua verifica e sperimentazione.

Soprattutto nessun sistema di comunicazione funziona bene da solo. L’identità di un’impresa, marca, prodotto o servizio è tanto più forte quanto più è coerente – tanto più fragile quanto più è dispersa e discordante.


6.   In che modo il nuovo consumatore, apparentemente più attivo e autonomo che in passato, è in grado di cambiare le “regole del gioco” del sistema pubblicitario tradizionale?

Questo è un altro esempio di come la parola “nuovo” possa essere usata a sproposito e servire soprattutto a confonderci. È sempre stato vero che “il consumatore” non è una specie a parte. È semplicemente una persona come noi nel momento in cui compra qualcosa o vuole informarsi su qualcosa che potrebbe comprare.

Trattarlo da stupido può talvolta funzionare, ma è pericoloso. È almeno altrettanto efficace nel breve, e molto più importante nel medio-lungo periodo, rispettare l’intelligenza e la consapevolezza di tutti gli interlocutori (non solo del “consumatore finale”). La fiducia è un capitale prezioso che si costruisce lentamente nel tempo e che si può distruggere o inquinare con insidiosa velocità.

Di “consumatore più consapevole” si parla da parecchi anni. La tendenza è reale, ma discontinua e disomogenea. La stessa persona può essere ben capace di distinguere in alcuni settori, confusa e disorientata in altri.

Molti si divertono a dissertare su questo o quel film o annuncio, più o meno “divertente” o “originale”, senza badare a quale sia il prodotto, il servizio o la marca – e contemporaneamente considerando la pubblicità sempre meno credibile.

Uno dei problemi è che più la pubblicità (o spettacolo o cosiddetta informazione) è stupida, o manipolata, più tende a trattare da stupido il suo destinatario – e viceversa. (Vedi Il circolo vizioso della stupidità).


7.   Come destinatario di messaggi pubblicitari, qual è il suo atteggiamento nei confronti della pubblicità?

In modo, da anni, crescente – noia. È molto raro che si proponga qualcosa che mi interessa e in modo interessante. E come “uno del mestiere” è ancora peggio.

Ho un senso di sollievo quando vedo qualcosa di ben fatto, chiaro e comprensibile, interessante e contemporaneamente gradevole (o consapevolmente sgradevole, se è ciò che l’argomento richiede). Ma è cosa rara. Non solo in pubblicità, ma anche in generale in ogni forma di comunicazione.

Un altro problema è la mancanza di selettività (o “segmentazione” – vedi la risposta 11 sul predominio dei mezzi “generalisti”). Così siamo tutti bombardati da una quantità enorme di proposte che non ci interessano.

(Per non parlare delle presunte “profilazioni”, il cui esito è fallimentare – come dimostra, fra l’altro, la sciagurata e ossessiva proliferazione di spam nell’internet, abbondantemente inquinata da truffe, trucchi, trappole e inganni).


—   In particolare, quali sono gli elementi della pubblicità che più apprezza?

Quelli che dicono qualcosa di interessante sul prodotto, sulla marca e sull’impresa. Non con onanistica vanteria, ma con una seria e sincera cultura di servizio. Il che non vuol dire che si debba essere “seriosi” o noiosi. Una comunicazione davvero efficace (commerciale o non) è quella che riesce a dire cose serie in modo attraente, interessante, coinvolgente – anche divertente, ma non gratuitamente “buffo”.


—   E quali sono gli elementi che più la infastidiscono?

Orpelli, vanterie, divagazioni insensate, tergiversazioni, banalità “di moda”, scopiazzature e ripetizioni ad nauseam degli stessi consunti schemi. Sopratutto quelle che trattano da stupido il lettore, spettatore o ascoltatore e perciò rincretiniscono tutto il sistema (vedi la risposta 6 sul “circolo vizioso”).

Fra le stupidaggini più palesi c’è quella di considerare “necessaria” la presenza di “personaggi noti” dello spettacolo, dello sport eccetera. Talvolta può avere un senso. Ma nella maggior parte dei casi serve solo a mascherare una squallida mancanza di idee. Sulle sciocchezze della “pubblicità spettacolo” vedi La sindrome di carosello alla fine del capitolo 6 di Il nuovo libro della pubblicità.

C’è anche un uso insensato di nudità o persone poco vestite (in prevalenza, ma non solo, donne). Non è una questione di pruderie – né solo di buon gusto e civiltà. È ampiamente dimostrato che quel trucco non funziona. Non solo è inutile, ma spesso è dannoso, perché distrae da quello che dovrebbe essere l’argomento.

Ed è ancora peggio quando, come oggi, l’abitudine è così diffusa che non si capisce se si tratti di cosmetica, abbigliamento, automobili, profumi, telefoni, collegamenti all’internet, spettacoli, libri, arredamento, caramelle, ammennicoli di vario genere o ogni sorta di altri argomenti. (Anche questo è spesso un modo per nascondere la mancanza di idee – o, peggio, di reale utilità del prodotto o servizio offerto).


8.   Immaginando un continuum di comportamenti di consumo che ha per estremi da un lato un consumatore attivo, esigente, critico e attento alla qualità, dall’altro un consumatore passivo e ancora in buona misura condizionabile dalla comunicazione pubblicitaria, dove crede che si collochi la maggior parte dei consumatori italiani in questo momento?

Con la testa altrove. Il “paese reale” vive lontano dal mondo sempre meno comprensibile della politica e dei giochi di potere – e dagli insulsi giochini di cui si dilettano lo spettacolo e la pubblicità (oggi troppo spesso confusi). Sta a guardare, spesso si smarrisce, talvolta forse si diverte, ma raramente si sente coinvolto in ciò che si recita nel teatrino. Non vuol dire che tutto debba diventare malinconico nella litania di “in tempo di crisi...” (cosa che alcuni, per fortuna pochi, fanno, in modo assai poco convincente se non spietatamente ingannevole). Ma che, soprattutto in una prospettiva di lungo periodo, occorre stare molto più attenti al mondo reale e a che cosa davvero conta per le persone, le famiglie e le imprese. Il paese dei balocchi non va bene neppure per Pinocchio.

È molto discutibile che l’apoteosi del futile e dell’inutile funzioni bene per i suoi propalatori. Ma il suo ingombro, oggi enorme, nuoce alla credibilità di tutti.


9.   In che modo la pubblicità potrebbe ovviare al problema del calo di efficacia e della crescente insofferenza che i consumatori manifestano nei suoi confronti?

Su che cosa si basa l’ipotesi di un “calo di efficacia”? Non vedo alcun motivo di pensare che la pubblicità – quando ha qualcosa di valido da offrire, è fatta bene e arriva al giusto destinatario – abbia una diminuzione di efficacia. Il problema è che troppa è fatta male. E che nell’inondazione delle scempiaggini non sempre le proposte utili e interessanti riescono a trovare lo spazio che meritano.

Ci vuole un’energica iniezione di buon senso. Anche di serietà è rispetto per i “consumatori” e per tutti gli interlocutori dell’impresa. La pubblicità può essere gradevole, interessante, anche divertente. Ma ciò non significa che debba essere una buffonata.

Si comincia (con enorme e colpevole ritardo) a sentire qualche voce che dice back to basics. Si tratta di ritrovare lo spirito, la disciplina, il metodo che avevamo imparato cinquant’anni fa e poi è stato squallidamente “disimparato”. Ovviamente non si tratta di fare le stesse cose nello stesso modo. Ma la fioritura del “nuovo” è tanto più viva e forte quanto più ha radici ben piantate nei concetti fondamentali della buona comunicazione.


10.   Quali crede che siano le principali e più promettenti novità in relazione ai linguaggi pubblicitari del momento?

La più “promettente novità” (ma non ancora abbastanza diffusa) è un ritorno, da parte delle imprese più consapevoli e attente, a una migliore disciplina e coerenza. Meno frizzi e ghiribizzi, più attenzione alla chiarezza e all’efficacia.

(In realtà alcune imprese non hanno mai abbandonato la “strada maestra”, se non per qualche effimera e marginale concessione alle mode. Sono le stesse che non hanno perso di vista il vero concetto di marketing. E il loro durevole successo dimostra la validità della loro scelta).

Quanto ai linguaggi, siamo precipitati in un abisso di banalità e manierismi. Saper scrivere in “buon italiano” è una base indispensabile anche quando si tratta di “mezzi audiovisivi”. Ovviamente non per seguire le regole dei pedanti, ma per essere chiari e nitidamente comprensibili. Non c’è alcun bisogno, per essere “alla portata di tutti”, di far venire la nausea a chi conosce bene la lingua.

Non vedo, nei linguaggi, “promettenti novità”. Si sta sempre più sprofondando in un’ossessiva ripetizione di squallide banalità, pedestri imitazioni e funambolismi incomprensibili. Ci vorrebbe un energico sciacquone. O (me lo lasci ripetere) una forte e ostinata dose di buon senso – e anche di buon gusto.

Mentre si disquisisce sulle astrusità della “neurolinguisca”, o ci si gingilla con altri psicobalocchi, si trascura il fatto che si è persa la capacità di esprimersi bene. E anche con eleganza. Come diceva Francesco De Sanctis, «la semplicità è la forma della vera grandezza» (per altre citazioni – e soprattutto un approfondimento di questo tema – vedi Il fascino della semplicità e i tradimenti del semplicismo.

Un’espressione armoniosa non è solo un piacere per chi sa apprezzare l’estetica. È anche una percezione gradevole per chi non se ne accorge, ma “sente” la bella qualità dell’insieme.

(Il concetto di gestalt non è, nella sostanza del suo significato, né complesso né difficile. E ha una grande utilità pratica. Troppo spesso si dimentica che “l’insieme è più della somma delle sue parti”. Ed è anche diverso).


11.   Quali le novità relative ai canali pubblicitari del momento?

Scarse. Si parla molto di new media ma c’è assai poco di nuovo. L’internet esiste da quarant’anni, il sistema web da venti, ma è ancora molto scarsa la cultura necessaria per usare bene questi strumenti.

La situazione dei “canali” (“nuovi” o “tradizionali”) è molto confusa. Non solo manca un’efficace “segmentazione” (con conseguente “affollamento” dei mezzi “generalisti”) ma è uno dei mercati più distorti che si siano mai visti.

Di solito la leva più forte è di chi compra. Ma in questo caso si è creata una situazione in cui è dominante chi vende. C’è un’enorme concentrazione in poche mani – un imperante oligopolio. No solo dell’editoria (televisiva, della stampa, eccetera) ma anche degli intermediari. In tutto il mondo – ma in Italia è ancora peggio.

Le imprese che investono in pubblicità hanno uno scarsissimo controllo su dove vanno a finire i loro soldi. Sembra che siano “contente così”. Ma c’è qualcosa di masochistico nella loro rassegnazione.


12.   Come immagina la pubblicità italiana tra 50 anni?

Ci sono varie citazioni interessanti su questo argomento. Mi limito a tre. Niels Bohr. «Fare previsioni è difficile, specialmente sul futuro». John Kenneth Gailbraith. «L’unica funzione della previsione economica è rendere rispettabile l’astrologia». Scott Adams. «Prevedere il futuro è un ottimo modo per essere un autore di successo. Quando si scoprirà che le mie previsioni sono sbagliate sarò morto».

Non ho alcun desiderio di avere quel funereo successo. Ma è interessante constatare che le “previsioni” fatte finora sono state tutte smentite dai fatti.

Non le mie, per il semplice motivo che non mi sono azzardato a farne. Ma devo confessare che, più di dieci anni fa, ero caduto anch’io nell’errore di credere a qualcuna delle ipotesi allora circolanti. (Come, per esempio, che stesse nascendo qualcosa che si potesse chiamare new economy).

Due cose mi sembrano probabili.

Una è che (se il mondo non sarà precipitato in un baratro di miseria e arretratezza – o imprigionato da tali concentrazioni da non lasciare più alcuna possibilità di scelta) ci sarà anche fra cinquant’anni (e probabilmente molto più a lungo) la possibilità, anzi la necessità, di qualche forma di comunicazione fra chi offre qualcosa e chi potrebbe essere interessato ad averla.

L’altra è che continueranno a esserci differenze nazionali o regionali, ma le tendenze più importanti non saranno molto diverse in Italia dal resto del mondo.

 
*   *   *

Un’indicazione per tracciare la strada viene da una voce di ottant’anni fa.

Il 15 giugno 1931, in un discorso all’Advertising Federation of America, Franklin D. Roosevelt disse:
«Se ricominciassi la mia vita, credo che preferirei lavorare in pubblicità che in qualsiasi altra professione. Perché la pubblicità è arrivata a coprire l’intera gamma delle esigenze umane; e unisce autentica fantasia allo studio profondo della psicologia umana. Poiché porta a un gran numero di persone la conoscenza di cose utili, la pubblicità è essenzialmente una forma di educazione. ... Il generale miglioramento delle condizioni di vita nelle civiltà moderne sarebbe stato impossibile senza quella conoscenza di livelli più elevati che è diffusa dalla pubblicità».

Troppo benevolo? Un po’ si. Ma ho avuto la fortuna di essere fra quelli che (decenni più tardi – e dopo un’orribile guerra mondiale di cui il presidente Roosevelt è stato dolorosamente protagonista) hanno potuto verificare nei fatti, con risultati estesi e concreti, come sia possibile avvicinarsi a quell’ideale obiettivo.

Occorre, prima di tutto, sfatare la perversa leggenda che ci sia un insanabile contrasto fra successo economico e correttezza di comportamento. E poi mettersi al lavoro. Per cambiare rotta occorre un serio e ostinato impegno, ma non molto tempo. Non si può fare in un giorno o in un mese, ma in molto meno di cinquant’anni.




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