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I nodi della rete
di Giancarlo Livraghi
settembre 2005


Le ambiguità del “digitale”


Più passa il tempo, e più cerco di capire, meno mi convincono le chiacchiere, le ipotesi e le elucubrazioni su cose definite “digitali”. Una di quelle parole passepartout di cui non è chiaro il significato – e ancora meno le conseguenze pratiche di svariate applicazioni definite in quel modo.

Mi sembra, purtroppo, necessario ripetere anche qui una premessa a proposito di parole e terminologie. Non sono un pedante. Non mi preoccupano i neologismi, o le evoluzioni del linguaggio, quando non mettono in crisi la capacità di capirsi.

Mi incuriosiscono le etimologie, ma non per questo mi scandalizzo se una parola ha assunto nell’uso comune un significato diverso da quello che aveva in origine – finché ci intendiamo su ciò che vuol dire oggi, non ci sono problemi, se non quando leggiamo un autore antico che usava quel termine in modo diverso (come in una poesia di Guido Cavalcanti, che paragonava a “rubinetti” le labbra della sua amata – e non poteva immaginare che oggi quella parola non ci fa venire in mente una pietra preziosa).

Ma “digitale” sta diventando sempre più una parola strana. Molti la usano senza avere alcuna idea di che cosa voglia dire. Conosco persone, tutt’altro che sciocche o ignoranti, cui sembra che “digitale” sia ciò che si fa con le dita. E infatti è quella l’origine, ma nessuno dice che sia digitale un pianoforte – o un pulsante in un qualsiasi aggeggio meccanico.

Talvolta il senso è chiaro. Per esempio quando diciamo “impronte digitali” non c’è rischio di ambiguità (se non nel caso di metafore azzardate o confuse). Ma in tanti altri casi sta diventando sempre più difficile capire a che cosa serva definire le cose in quel modo.

Il fenomeno potrebbe rientrare fra le ambiguità delle parole inglesi, come nell’elenco raccolto da Till Neuburg dei nuovi virus, cioè termini modaioli e devianti che infettano la lingua e ci confondono le idee. Oppure potremmo considerarlo come uno dei tanti casi in cui il gergo tecnologico diventa incomprensibile, o deviante, quando entra nella lingua di uso comune. Ma la parola “digitale” sta imperversando in maniera così bizzarra da meritare qualche commento.

Digit è una parola inglese di origine latina. Indica le “cifre”, cioè i numeri da 0 a 9 che in un sistema decimale servono a comporre tutti gli altri numeri. Perciò “digitale” nel senso di “numerico” (o “alfanumerico”) è un termine insensato in italiano – ma è improprio anche in inglese. Perché i digit in un sistema binario sono due – non dieci, come le dita delle mani. E nei codici dell’elettronica si usano sistemi variamente complessi di cui nessuno è semplicemente decimale.

Possiamo pensare, non senza ragione, che sia un progresso l’adozione del sistema decimale dove è ancora poco usato (per esempio nelle culture anglosassoni) perché adegua “pesi e misure” a standard comprensibili nel resto del mondo (e nel linguaggio scientifico). Ma non è il caso di dimenticare che questo criterio “moderno” si basa su un concetto preistorico: non c’è alcun motivo di usare un sistema decimale se non il fatto che il modo più primitivo è contare con le dita.

Se da un paio di secoli ci siamo abituati, un po’ per volta, a chili e grammi, litri, metri, millimetri e chilometri, eccetera, così risolvendo l’inestricabile problema di misure diverse e incompatibili da cui eravamo afflitti in tutta la precedente storia dell’umanità, ovviamente va bene – e non è necessario preoccuparsi per la primitività dei criteri su cui quel sistema si basa.

Ci sono eccezioni – e non senza motivo. È ragionevole pensare che nella navigazione aerea si possa passare dalla misura delle altitudini in piedi a quella in metri, ma per le distanze è più efficiente continuare (come nella nautica) a usare le miglia marine, che sono astronomicamente coerenti (e di conseguenza, almeno in mare, è sensato ragionare in nodi e non in chilometri all’ora).

È facile capire che un metro è un metro, un litro è un litro, un etto è un etto, eccetera (con qualche iniziale difficoltà per chi è ancora abituato a ragionare in once, galloni, libbre, pollici, piedi e miglia terrestri). Sappiamo anche adattarci senza grandi difficoltà a ragionare in “dozzine” per il fatto che un contenitore da sei o dodici uova è più pratico di uno da cinque o dieci.

Quando parliamo di innovazione e di sviluppo tecnologico, la cosa è diversa. Nel mondo dell’esplorazione scientifica possiamo adattarci all'idea che le distanze cosmiche si misurano in anni luce (anche se quelle dimensioni ci lasciano un po' sbigottiti) e che la natura delle particelle è difficilmente comprensibile anche per un laureato in fisica. Ma nulla giustifica le terminologie ambigue quando si tratta di applicazioni diffuse per usi non specialistici.

Che cosa saranno mai questi misteriosi aggeggi che qualcuno definisce “digitali”?  Ci inchiniamo all’oscura parola come se fosse la magica rivelazione di qualche esoterica divinità.

La sostanziale ambiguità del termine porta a deduzioni sballate. Per esempio: tutto ciò che è “digitale” è più moderno ed efficiente, tutto il resto è vecchio e superato. Il che spesso non è vero – e soprattutto è una sciocca generalizzazione.

Se mi metto al timone di una barca a vela, voglio che gli strumenti del vento siano analogici, perché mi danno una più immediata percezione di cambiamento. Invece è più pratico che l’ecoscandaglio e il log siano numerici, perché mi serve leggere in metri la distanza dal fondo e in miglia la lunghezza del percorso. Per chi non ha pratica di navigazione... lo stesso criterio si applica al tachimetro (e al contagiri) a lancetta nel cruscotto di un’automobile, rispetto al contachilometri giustamente numerico.

In altre parole... nessuna applicazione tecnica è “superiore” in assoluto, ognuna deve essere valutata in base a ciò che deve fare e al modo in cui la usiamo.

È ovvio? Purtroppo no. Benché ormai si stia cominciando a diffondere qualche percezione del problema, continuano a imperversare soluzioni tecniche inutilmente o dannosamente complicate e concepite nell’ottica di chi le progetta anziché di quella di chi le usa. (Vedi La stupidità delle tecnologie).

Se un giorno qualcuno riuscirà a produrre un androide, o una forma funzionante di “intelligenza artificiale”, dovrà compiere l’arduo percorso di insegnare a una macchina, le cui viscere sono matematiche e lineari, a replicare i processi, molto più efficienti, dei sistemi neuronali e ormonali – e di un apparato sostanzialmente analogico come il cervello umano.

Ci sono soluzioni intelligenti e funzionali in alcune applicazioni specifiche. Per esempio nelle grafiche “vettoriali”, che non sarebbero così efficienti se non tenessero conto di come funziona il nostro sistema percettivo. Ma purtroppo molte tecnologie sono concepite in modo assai meno ergonomico.

Siamo ancora molto lontani da quel “cervello positronico” che Isaac Asimov aveva immaginato cinquantacinque anni fa. Evitando di spiegare ciò che non sapeva, cioè come potesse funzionare – e limitandosi a indicare con il nome che doveva essere qualcosa di diverso da “elettronico”. Usare paroline banali e improprie come “digitale” non ci aiuta in alcun modo ad avvicinarci a quell’obiettivo – e neppure a realizzare soluzioni meno complesse, ma praticamente utili, per ogni sorta di applicazioni.

Non voglio annoiare i lettori ripetendo qui ciò che ho già scritto a proposito di definizioni sbagliate come digital divide (vedi per esempio un articolo del settembre 2001 La divisione è culturale, non “digitale”). Ma è un fatto che le tecnologie sono inutili (se non dannose) quando non sono al servizio della cultura e delle esigenze umane.

Non è il caso neppure di ripetere ciò che ho già scritto a proposito di “convergenze” (vedi per esempio Le due facce della “convergenza” – gennaio 2001). Ma è un fatto che la cosiddetta “piattaforma digitale”, quando non è solo un mucchio di chiacchiere inutili, può indicare un percorso sbagliato, come l’accumulo di funzioni diverse ed estranee sulla stessa base tecnica – mentre il percorso più fertile è il contrario, cioè il confluire di tecnologie diverse (e di diverse discipline della conoscenza) sullo stesso obiettivo di utile funzionalità.

Potremmo anche constatare che le soluzioni cosiddette “digitali” non sono affatto nuove. Per esempio il telegrafo, nato nel 1844, era un sistema di trasmissione dati basato su un “codice binario” (l’alfabeto Morse). E si potrebbero definire in modo analogo codici di segnalazione a distanza (tamburi, campane, segnali di fuoco o di fumo) che esistono da migliaia di anni. Ciò che conta non è una classificazione, astratta e convenzionale, dei sistemi tecnici, ma il valore pratico delle applicazioni.

Per concludere... non sto proponendo di eliminare dalla lingua la parola “digitale” (anche se sarebbe meglio usarla solo nei rari casi in cui significa qualcosa). Né credo che sia importante accanirsi più del necessario su problemi lessicali. Ma l’importante è non lasciarsi abbindolare o confondere.

La prossima volta che qualcuno dice che quello o quell’altro è meglio perché è “digitale”, l’unica risposta sensata è «non mi interessa, voglio sapere che cosa fa – e come perché possa essere utile proprio a me». Quando qualcuno usa un termine che non ci è immediatamente chiaro, i casi sono tre. O non sa di che cosa sta parlando, o non ci sta dicendo la verità, o non è capace di spiegarsi. Non è raro che accadano tutte e tre le cose insieme.

Come ho detto e scritto tante volte, fare domande “socratiche” può essere rischioso. Ma non sempre chi usa termini incomprensibili o sbagliati è in grado di somministrarci una dose di cicuta per punirci della nostra impertinenza – e spesso in quel genere di chiacchiere si nascondono intrugli non meno velenosi.




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