Non è facile cercare un po' di chiarezza nella
vexata quaestio dei cosiddetti "incentivi"
o, in senso un po' più ampio, di quali interventi possono o
debbono fare le autorità pubbliche del nostro paese
per aiutarci a essere più competitivi nell'uso delle
nuove tecnologie di comunicazione. Ma credo che se si
riuscissero a definire in modo un po' più preciso
alcuni criteri generali potremmo almeno come opinione
pubblica, come cittadini e come persone più o meno
"esperte" nell'argomento suggerire qualcosa di
più preciso alle nostre autorità e ai nostri
"grandi poteri" economici. Che (come tutti sappiamo
ma non sempre abbiamo la sfacciataggine di dire) sono ancora
molto ignoranti e confusi in questa materia e spesso
influenzati dalle visioni, abbastanza miopi e meschine, di
alcuni grossi interessi settoriali.
Non condivido il "grido di dolore" di chi
piange, sic et simpliciter, sulla mancata attuazione delle
molte promesse che il governo aveva fatto. Prima di
lamentarci dovremmo chiederci se quei provvedimenti fossero
utili e ben concepiti. Se (come credo) non lo erano, è
meglio che non si sia sprecato il denaro dei contribuenti, o
impegnate le risorse del "sistema paese", in
direzioni sbagliate.
Non condivido neppure la posizione, espressa anche da
alcune "autorevoli" voci del nostro mondo
economico, secondo cui le imprese (grandi e piccole) non
possono fare nulla se non sostenute da sussidi pubblici. In
un paese già strangolato da un infernale intrico di
norme e di "provvidenze" mal congegnate, dovremmo
smettere una volta per tutte di ricorrere a "mamma
stato" per evitare di impegnarci e di pensare. Anche
perché chi invoca quegli interventi spesso ha in mente
il suo particulare; cioè spera (o sa) di poterli
orientare a suo privato beneficio.
Ciò non significa che le pubbliche autorità
possano o debbano ignorare un problema di così grande
importanza. Ma dovrebbero finalmente applicare i
princìpi tanto spesso dichiarati quanto poco attuati:
non distribuire "provvidenze" ma agevolare e
incoraggiare l'iniziativa dei cittadini e delle imprese.
Come? Credo che se ne possa utilmente discutere. Ma, per
cominciare, ecco alcuni criteri che mi sembrano degni di
approfondimento.
1. Rimozione di ostacoli
Abbiamo avuto qualche segno incoraggiante di "non
intervento". Per esempio l'Italia non ha posto e non
pone limiti all'uso della crittografia. Non ha imposto
vincoli burocratici all'uso della firma digitale, se non nel
caso di specifiche attività riguardanti la pubblica
amministrazione. Nonostante le campagne terroristiche
sostenute dai mass media, non ha (almeno finora) né
imposto né incoraggiato interventi di censura o di
"filtraggio" o altre forme di restrizione della
libertà di espressione.
Ma rimangono molti impicci burocratici, in parte
derivanti da vecchie norme che dovrebbero essere eliminate o
semplificate, in parte da nuove regole spesso concepite senza
capire quale sia la reale funzione e utilità della
comunicazione telematica. Senza entrare nei dettagli (che
lascio a persone più esperte di me in questa materia)
si tratta dello stranoto (quanto irrisolto) problema del
lacci e lacciuoli e delle complicazioni normative che non
solo soffocano la nostra economia ma favoriscono i disonesti (o
comunque gli esperti in cavilli burocratici) a scapito delle
imprese e delle persone capaci di produrre autentici valori
di qualità e di servizio.
Insomma, prima di pensare a "provvidenze"
occorre eliminare le restrizioni inutili, semplificare e
chiarire quelle (poche) norme che servono davvero ed evitare
di accumulare nuovi intralci normativi o burocratici su una
situazione già troppo intricata.
Non è l'unico, ma è tipico l'esempio della
legge sulla protezione dei dati personali (vulgo "privacy") che
si conferma inefficace nel raggiungimento del suo obiettivo,
nociva per le inutili tortuosità che contiene e
applicata con esasperante lentezza vedi il caso di una
decisione
del Garante emessa nel gennaio
2000 su una denuncia presentata nel luglio 1999.
Non è l'unico, ma è tipico il caso della
naming authority italiana che ha reso sempre più
difficile, macchinosa e costosa la registrazione dei domain
.it e ha mantenuto fino a poco tempo fa alcune regole
assurde, come quella che impediva a un "privato
cittadino" di registrare un domain o a un'azienda o
un'organizzazione (che non fosse un'impresa di
telecomunicazioni) di registrarne più di uno. Quando
quest'ultima regola è stata rimossa, il 15 dicembre
1999, c'è stato un (più che prevedibile)
affollamento di richieste che ha colto l'authority
completamente impreparata a tal punto che un mese e mezzo
dopo molti dei domain richiesti non sono ancora stati
assegnati. E stendiamo un pietoso velo sul fatto che l'Italia
è di gran lunga il meno efficiente dei paesi europei
nel fornire dati aggiornati e significativi di hostcount, come
è evidente a chiunque esamini con un po' di attenzione
le statistiche pubblicate da RIPE. (Per un approfondimento su
questo tema vedi le osservazioni nel numero 40 e successivi
della rubrica online Il mercante
in rete).
E naturalmente non possiamo dimenticare la stortura
legislativa che tratta come reato penale il possesso di
software non registrato, e che si sta aggravando con nuove
norme concepite in favore di grandi interessi privati e
contro la libertà e la serenità dei cittadini;
e che non è l'unica, ma la più frequente causa
di quelle ondate di sequestri che
hanno reso infame l'Italia nel mondo delle reti nel 1994 e
continuano a ripetersi in un impressionante numero di casi,
terrorizzando persone e
famiglie, completamente innocenti o tutt'al più
colpevoli di piccole infrazioni, che si vedono trattate come
pericolosi criminali.
2. Cultura e formazione
Non è compito solo della "funzione
pubblica" diffondere cultura e formazione professionale.
Ma la scuola ha un compito insostituibile; e la diffusione di
una vera cultura della rete nella pubblica amministrazione
è una risorsa importante per tutto il "sistema
paese".
Perché tutto questo funzioni, occorre capire la
differenza profonda fra cultura della comunicazione e "alfabetizzazione" tecnica.
Quando si parla di "nuovi posti di lavoro" che si possono creare con
le nuove tecnologie si pensa solo ai tecnici. Si dimentica
che se si usa la rete per vendere scarpe si creano posti di
lavoro per i calzolai, se la si usa per valorizzare
l'artigianato si creano occasioni di lavoro per gli artigiani
e così ad infinitum. Si dimentica, soprattutto, che
la rete è fatta di persone e che operare efficacemente
in rete significa dare lavoro a persone che sappiano
comunicare. L'accento eccessivo sulle funzioni tecniche
significa moltiplicare la formazione di operai estremamente
specializzati (che cadono facilmente in obsolescenza con
l'evoluzione delle tecnologie) dimenticando che il loro
lavoro è inutile se non c'è qualcun altro che
sa usare i loro strumenti. Quand'ero ragazzo, un bravo
"cromista" (cioè un tecnico di stampa a
colori) guadagnava spesso più di un dirigente; ma
nessuno pensava che il suo lavoro servisse a qualcosa in
assenza di persone capaci di scrivere, redigere e impaginare
un libro o una rivista.
La rete offre infinite possibilità di lavoro a
persone di cultura umanistica. È vero che una certa
vecchia concezione italiana definiva le discipline umane in
modo arcaico, nozionistico, pedantescamente
"letterario" o "classico" e così
ha contribuito a rallentare la nostra capacità di
capire il mondo della scienza e delle nuove tecnologie. Cose
che molte delle nostre imprese sanno applicare con grande
efficienza e successo, ma che il mondo politico, giuridico e
accademico fatica ancora a capire. Ma il fatto che le scienze
umane siano state distorte da certe nostre tendenze culturali
non significa che siano diventate meno importanti. La gestione
efficace delle tecnologie si basa soprattutto su una profonda
comprensione dei valori umani; e questo è
particolarmente vero nel caso delle tecnologie di
comunicazione.
Dobbiamo anche imparare a essere meno provinciali. A non
subire la "globalità" con una pedestre
imitazione di una cultura dominante mal capita, ma a
diventarne attivamente partecipi. Da qualche anno abbiamo
finalmente capito che bisogna sapere l'inglese. Ma non siamo
arrivati ancora a concepire il globalese
non come una "lingua straniera" ma come la "seconda
lingua" indispensabile per tutti.
Dobbiamo anche tener conto di una nozione teoricamente
diffusa, ma troppo poco praticata. Le radici locali non si
indeboliscono in un'economia globale ma si rafforzano. Un
paese fortemente decentrato e con forti tradizioni locali,
come l'Italia, è avvantaggiato nella
"competizione globale". Questo è uno dei
tanti motivi per cui non dobbiamo copiare ciò che
fanno gli altri ma cercare le nostre strade nel vasto e
mutevole mondo della rete.
Sono questi, i valori su cui si concentra la formazione e
l'impegno culturale? O stiamo creando ostacoli, fatiche,
diffidenze e deformazioni con una pedestre e ostica
"alfabetizzazione" tecnica?
3. Riduzione dei costi e delle incompatibilità
tecniche
Ormai sta diventando sempre più difficile
nascondere un fatto evidente: la qualità delle
tecnologie che stiamo usando è inaccettabile. Il 28
gennaio a Milano l'ha detto perfino Nicholas Negroponte, noto
come uno dei più accaniti profeti della tecnologia a
tutti i costi. Con sorprendente sincerità, ha spiegato
agli astanti che il software più diffuso è
pessimo e continua a peggiorare. Che è inutilmente
complesso e farraginoso, infarcito di false innovazioni che
servono solo a renderlo pił ingombrante e meno efficiente.
Che funzionavano molto meglio i "personal computer"
di quindici anni fa. E che il costo del software, e del pesante hardware
necessario per gestirne le inefficienze, è esageratamente alto.
Questo, ovviamente, è un problema grave per le
"economie emergenti". Ma non è un problema
da poco neppure per noi. Se avessimo computer molto meno
costosi e molto meglio funzionanti (e se non fossimo
costretti a sostituirli o "aggiornarli" con
incredibile frequenza per inseguire false e inutili
innovazioni) avremmo rimosso uno degli ostacoli alla
diffusione dell'informatica e della telematica.
L'altro problema, ovviamente, è quello della
compatibilità.
Non so quanto ci sia di vero nella notizia che la Cina abbia
deciso di vietare nella sua pubblica amministrazione l'uso di
Windows 2000 e di usare "Red Flag", un sistema
sviluppato da programmatori cinesi, basato su Linux. Ma nel
caso della Cina, almeno, se ne parla. E in alcuni paesi
europei ci sono iniziative che cominciano a incidere sulla
realtà. Per esempio in Francia è stata
presentata una proposta di legge per l'introduzione di Linux
nel sistema scolastico e si sta lavorando sull'uso di sistemi
opensource in altri settori della pubblica amministrazione.
Il governo tedesco ha finanziato lo sviluppo di crittografia
opensource (alternativa a PGP ma compatibile). Eccetera.
Perché l'Unione Europea e l'Italia dormono in
piedi?
Infine... le tariffe. Il gran rumore sulla cosiddetta
"internet gratis" nasconde una giungla tariffaria
complessa e inestricabile. La moltiplicazione delle tariffe e
delle "promozioni" ha creato una tale confusione
che nessuno è più in grado di capire quanto sta
pagando o quale sia la soluzione più conveniente (o
meno esosa). L'unica cosa chiara è che stiamo pagando
troppo, per la telefonia come per la trasmissione dati. Non
dico che si debba eccedere in regolamentazione, ma si tratta
di un servizio pubblico e un po' di chiarezza ci vorrebbe.
Come minimo, qualcuno dovrebbe occuparsi di diffondere
informazioni comprensibili, che rendano più
trasparente e meno oscuro il sistema delle tariffe e dei
prezzi.
4. I servizi pubblici
È stato detto e ripetuto infinite volte; ed
è profondamente vero. Un uso intelligente
dell'informatica e della rete può migliorare la
qualità dei servizi pubblici, attenuare le fatiche
burocratiche per i cittadini, ridurre le code e gli ingorghi
di traffico, migliorare la qualità della vita.
Sacrosanto. Ma le "buone intenzioni" non bastano.
Si è fatto e si fa troppo poco; a parte qualche
lodevole esempio (vedi il caso delle Camere di Commercio) e
qualche sporadico miglioramento di efficienza in alcune
amministrazioni locali. I molteplici dibattiti e "forum
per la società dell'informazione" sono
sprofondati in una palude di chiacchiere inconcludenti. Il
serio impegno di alcune funzioni nell'amministrazione
centrale si impantana nella viscosità delle resistenze
a tutti i livelli o si perde nei meandri come il
"messaggio dell'imperatore" di Franz Kafka.
Prima di pensare a più o meno abborracciati
"incentivi", non sarebbe meglio concentrare le
energie su come mettere davvero la pubblica amministrazione
al servizio dei cittadini?
5. L'esportazione
E infine... quella che forse è la considerazione
più importante. L'Italia rappresenta circa l'uno per
cento dell'internet nel mondo. Se ne deduce che il 99 per
cento del mercato è all'esportazione.
Per quanto arretrati, siamo uno dei dieci paesi
più sviluppati nel mondo per diffusione dell'internet;
e ormai siamo arrivati al punto in cui la penetrazione della
rete si sta davvero allargando, non è più un
fatto di élite, sta diventando una cosa "per
tutti". Se gestiamo questa situazione in modo passivo, o
imitando le esperienze (e gli errori) altrui, saremo
inevitabilmente "colonizzati". Economicamente e
culturalmente.
L'unica difesa è l'attacco. Specialmente per
un'economia, come quella italiana, la cui condizione
fondamentale è "esportare o morire".
Dobbiamo andare alla conquista del mondo. Per un paese come
il nostro, se non ci fosse l'internet bisognerebbe
inventarla. Se proprio dobbiamo pensare a qualche
"incentivo", meglio incoraggiare in tutti i modi
possibili chi porta nel mondo le nostre idee, la nostra
cultura, i nostri prodotti e i nostri servizi. Che non sono
soltanto il "pecorino cheese" di quel mal
concepito, insultante e grossolano filmino incautamente
diffuso dalla Presidenza del Consiglio.
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