Un’altra meditazione sul tema già trattato negli articoli
Pericolo: sequestratori in agguato e "Mamma, li Turchi!"


Le vittime silenziose

di Giancarlo Livraghi gian@gandalf.it – 18 luglio 1998

 

  Dicono i maligni che una tendenza degli italiani (e, a quanto pare, di parecchi altri in giro per il mondo) sia "correre in soccorso dei vincitori". Non mi sembra che si possano chiamare "vincitori" i proprietari del sito Isole nella Rete e tutte le associazioni e persone rimaste vittima del sequestro per il solo fatto che il loro server sia stato "dissequestrato" (li immagino affannati al lavoro per rimettere tutto in funzione, e penso che abbiamo un diavolo per capello). Ma il fatto è che hanno ottenuto una forte eco di opinione – e una restituzione del "maltolto" in tempi relativamente brevi. Quando la buriana sarà passata forse trarranno qualche vantaggio da tutta la vicenda, perché il loro sito sarà noto a molte persone che non lo conoscevano. Questo non diminuisce in alcun modo la gravità della violenza che hanno subito, ed è una "magra consolazione".

Meno chiari i contorni di un altro episodio, avvenuto pochi giorni dopo a Roma. Non si tratta di un sequestro, né comunque di un intervento dell’autorità giudiziaria, ma di una decisione "amministrativa" del Comune. Anche in questo caso per il contenuto di un singolo testo, che qualcuno considerava discutibile, si è intervenuti con una decisione assurda: si sono staccati i collegamenti alla rete comunale di parecchi nodi, fra cui i servizi di associazioni del volontariato e altre organizzazioni di pubblica utilità. Mentre scrivo non conosco la conclusione di questa bizzarra vicenda, ma (poiché fra i danneggiati ci sono organizzazioni non prive di "leve" politiche) sembra probabile che presto o tardi il Comune di Roma si accorga dell’errore e lo corregga; il caso potrebbe concludersi con un ritorno allo "statu quo ante", pur lasciando dietro di sé il sapore amaro di un’ennesima constatazione di quanto ignoranti, ostili e capaci di nuocere siano le "autorità" di ogni genere nel nostro paese.

Ma per molti altri, di cui nessuno parla, le cose sono andate molto peggio; e senza neppure il sollievo morale di essere pubblicamente difesi e incoraggiati.

Mi chiedo dove fossero, negli ultimi quattro anni, tutti quelli che si accodano oggi; compresi i parlamentari che hanno presentato interrogazioni sul caso di Bologna e tanti altri che improvvisamente si scoprono "tutori" della nostra libertà. Non voglio fare un "processo alle intenzioni", ma vedo strane somiglianze con quei "garantisti" che si svegliano solo quando finisce in galera (o anche solo sotto indagine) un loro amico o quando si offre l’occasione di "farsi notare" perché si va a visitare qualche arrestato "che fa notizia". Probabilmente, fra gli improvvisati amici della libertà della rete, ci sono persone sincere. Ma anche se non si tratta di ipocriti e opportunisti (certamente ce ne sono parecchi) come minimo dobbiamo dire che erano piuttosto distratti.

(E speriamo che nessuno ne approfitti per inventare qualche tortuosa e complicata norma o disposizione che invece di risolvere il problema lo peggiori – o diventi un ulteriore pretesto per imbavagliare la libertà di opinione).

Anche senza tornare al famigerato "crackdown" del 1994... sono molti, e non abbastanza noti, i casi di sequestri o di altre persecuzioni contro persone che comunicano in rete (o che comunque usano un computer). Il problema è che molte di queste persone evitano di richiamare l’attenzione pubblica su ciò che accade; subiscono in silenzio e cerano di restare nell’ombra. Ma allora – dirà il solito maligno – vuol dire che hanno qualcosa da nascondere. In qualche caso, può darsi. Ma conosco molte situazioni (che purtroppo non posso pubblicare) di persone oneste che non hanno commesso alcuna infrazione né errore, sono rimaste coinvolte in un sequestro o in qualche altra prepotenza e chiedono il "silenzio stampa". Perché?

Vediamo qualche esempio (ovviamente usando nomi di fantasia e cambiando le circostanze "quanto basta" per evitare che le vittime siano identificabili).

Alfonso è un insegnante in una piccola città di provincia. Suo figlio ha 15 anni, usa un computer e si diverte con giochi elettronici. Non so se il ragazzo abbia, fra i tanti giochi, qualcuno "copiato", cioè non comprato in negozio ma avuto in copia da un amico (ma non mi sento di escluderlo). Se qualcuno fosse andato quietamente a casa sua, gli avesse chiesto i dischetti e magari glie ne avesse portati via un paio... lo considererei un grossolano spreco del denaro dei contribuenti e un’applicazione inutilmente rigorosa di una legge sbagliata; ma non un caso di particolare gravità. Ciò che accade, invece, è un’irruzione in grande stile, con terrore di tutta la famiglia (cosa avrà mai fatto il nostro ragazzo?) e grande scandalo nel vicinato (che crimine ha commesso il professore?) – seguita dal sequestro del computer e annessi e connessi. Parecchio tempo dopo il computer è restituito e l’inchiesta si risolve in una bolla di sapone (ma alcuni dischetti di giochi sono scomparsi; le malelingue dicono che ci sta giocando il figlio di un funzionario di polizia). Durante la fase più drammatica, il padre della vittima esita per alcuni giorni, ma alla fine dice: So che come cittadino dovrei fare uno scandalo, ma di questo si è già parlato troppo... siamo in un piccolo centro, la gente chiacchiera... ho una famiglia e un lavoro da difendere, sono costretto a essere vile. Quanti ce ne sono, come lui?

Amedeo si trova in una situazione simile. Anche lui decide di star zitto. Racconta i guai che aveva passato, anni prima, come radioamatore... e dice: Mi dispiace, ma non ho il coraggio di riaffrontare un percorso del genere. Mi hanno "lasciato intendere" che se non "sto buono" il dissequestro potrebbe tardare.

Amilcare è un medico. Non è un pediatra, ma fra i suoi pazienti ci sono famiglie con bambini. Subisce un’inchiesta (e un sequestro) perché accusato di possedere materiale "pedopornografico". È poi assolto in istruttoria, ma per mesi vive nel terrore. Per carità, dice, non parlate del mio caso. Vi rendete conto di quali sarebbero le conseguenze se girasse una "voce" del genere o se pubblicassero qualcosa su un giornale? Nella disgrazia, Amilcare ha un briciolo di fortuna: l’irruzione della polizia avviene a casa sua (con non poco sgomento della sua famiglia) ma non nel suo studio – e così sfuggono al sequestro le schede cliniche dei suoi pazienti.

Anastasia ha una piccola attività editoriale; pubblica cose talvolta un po’ controverse. Cade in una strana indagine, simile al caso famoso di Steve Jackson che nel 1990 fu incriminato perché produceva giochi di strategia e fantapolitica e qualcuno di quei giochi fu considerato "una minaccia alla sicurezza degli Stati Uniti" (alla fine Jackson fu assolto, la ma causa durò a lungo e suscitò molte polemiche). Anastasia è sbalordita quando le sequestrano computer, modem eccetera. In un primo momento sembra voler diffondere la notizia... ma poi dice: Per piacere fermatevi. I miei avvocati mi dicono che è meglio stare zitti per evitare ritorsioni. Quali "ritorsioni"? Non so, perché non l’ha voluto dire; ma la cosa è preoccupante. Anastasia non è né una spia né una terrorista; anche questa indagine si è conclusa senza processo (e con la tardiva restituzione della macchina sequestrata).

Arturo gestisce un servizio online. Lo accusano di avere (per uso personale) software non registrato (lui dice che non è vero... ma non so i dettagli). Gli sequestrano tutto e gli bloccano il servizio. Riesce a rimettersi online con un’altra macchina e la sua attività, con qualche fatica, riprende; ma il processo dura anni. È costretto a sostenere spese legali per lui molto onerose (senza contare i danni provocati dal sequestro). Fra l’altro il magistrato dispone una perizia e prima che l’iter giudiziario si concluda Arturo è "condannato" a pagarne il costo: dieci milioni (secondo persone tecnicamente esperte che l’hanno letta, quella perizia è inutile, è stesa da una persona totalmente incompetente e non vale la carta su cui è scritta). Non so come proceda la sua vicenda in pretura, ma so che Arturo si è trovato in serie difficoltà finanziarie. (Poiché mi è capitato di essere chiamato come "perito", in qualche causa di importanza non trascurabile, e ho visto il livello di qualità delle perizie precedenti, non esito a credere che vengano affidate responsabilità di questo genere a persone poco qualificate – alcune pagate troppo poco, altre molto più di quello che meritano).

Armando porta un computer in un negozio per farlo controllare e aggiustare. Il giorno dopo la polizia irrompe nel negozio e sequestra tutto quello che trova, compreso il computer di Armando (il commerciante era sospettato di vendere software senza licenza – non so se l’accusa fosse fondata o no, ma il fatto è che Armando non c’entra in alcun modo). Non solo Armando rischia di essere coinvolto nell’inchiesta, ma è costretto a estenuanti pratiche legali per rientrare in possesso del suo computer.

Amleto subisce una "intrusione" (si scopre poi che non c’era alcun intruso... era un cattivo scherzo di qualcuno che aveva accesso al sistema). Denuncia il fatto. Alcuni giorni più tardi mi dice: Ti prego, non pubblicarlo... ma il danno fatto dal presunto intruso era minimo, il vero disastro l’ha fatto la polizia quando ha messo le mani sui nostri computer.

Questi barbari interventi sono utili alle indagini? No. Sono tecnicamente o formalmente "obbligatori"? Nemmeno. Ecco due esempi di come si possono evitare.

Bartolo riceve la visita, privata e tranquilla, di un funzionario di polizia. Gli chiede: A lei risulta che il Tal dei Tali venda software copiato? Gli risponde di si. Chiede anche: Ha mai comprato qualcosa da lui? Bartolo risponde con una sincerità che rasenta l’imprudenza: No, perché è troppo caro. Il colloquio dura una decina di minuti; il cortese visitatore non guarda neppure il computer di Bartolo. Gli chiede se ha in casa qualcosa della cui provenienza non è sicuro e Bartolo gli consegna un dischetto. Null’altro viene ispezionato o "sequestrato". Alla fine il funzionario, che ovviamente ha saputo tutto ciò che gli serviva, saluta gentilmente e se ne va. Bartolo, preoccupato, mi telefona: Adesso che cosa faranno? Gli rispondo che, per quanto riesco a capire, non è lui nel loro "mirino"; forse lo citeranno come testimone, ma probabilmente non si faranno più vivi, perché hanno tutte le informazioni e le prove di cui hanno bisogno. Consulto un avvocato, che conferma la diagnosi. Infatti la cosa finisce lì.

Berenice è sospettata di qualcosa – forse di usare software non registrato, o di qualche irregolarità amministrativa. Non so se il sospetto sia fondato; ma per la "morale della favola" è irrilevante – come è irrilevante quale sia il motivo dell’indagine. Si presentano nel suo ufficio due funzionari di polizia (o forse i carabinieri, o la guardia di finanza). Cortesi e tranquilli, si limitano a fare una copia (in questo caso, con una stampante) di alcune cose che si trovano sul suo computer. Nulla viene sequestrato, né in altro modo viene compromessa la normale attività di Berenice, dei suoi colleghi, dei loro clienti e corrispondenti. Il tecnico della polizia è una persona competente, fa il suo dovere senza commettere errori; non viene danneggiata la funzionalità dei computer e dei collegamenti in rete. L’indagine fa il suo corso. Non ne conosco l’esito, ma ciò che conta è un fatto: è tecnicamente e legalmente possibile condurre un’inchiesta senza fare sequestri né commettere altri abusi.

So di altri esempi come questi ultimi due, perché ci sono (e per fortuna non sono pochi) magistrati e agenti delle "forze dell’ordine" che sanno svolgere bene il loro compito, senza calpestare i diritti dei cittadini né spargere inutile terrore o disperdere risorse nella caccia agli innocenti.

Potrei citare molti altri casi dell’uno e dell’altro genere: errori o soprusi, oppure indagini condotte con la massima correttezza. Ma spero che questi bastino. Fra non molto, nel caldo vacanziero dell’estate, il caso di Isole nella Rete cadrà nel "dimenticatoio". Ma non dobbiamo dimenticare che il problema esiste; e che sono troppe le "vittime oscure" di cui nessuno parla. Speriamo che il "rumore" (talvolta un po’ confuso) intorno a questo sequestro sia servito a diffondere un po’ più di coscienza, competenza e chiarezza. Ma occorrerà una continua sorveglianza per evitare che ci siano altri episodi di inutile repressione e persecuzione.

 

   
 
Giancarlo Livraghi
gian@gandalf.it
  luglio 1998
 

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