la strategia


Come il “consumatore” decide:
le basi della strategia



a. Premessa n. 1: chi è “il consumatore”

b. Premessa n. 2: come si “classifica”
    un “consumatore”

c. Il “consumatore” e la pubblicità

d. Conoscere il “consumatore”

e. Il “consumatore” e i prodotti

f. L’affollamento pubblicitario

g. Prodotto e utilità

h. Prodotto e marca

i. Come il “consumatore” decide

l. Metodo di decisione: 1 – l’ambiente

m. I segmenti di consumatori

n. La concorrenza

o. Metodo di decisione: 2 – la valutazione del rischio

p. Metodo di decisione: 3 – la gerarchia delle marche

q. Fattori di utilità strategica

r. Il problema della “iperpromessa”

Sintesi





a. Premessa n. 1: chi è “il consumatore”

La parola “consumatore” non mi è mai piaciuta molto, perché si presta a molti equivoci.

Sia alcuni operatori di marketing, ricerche e pubblicità, sia molti che si auto-nominano “difensori” del consumatore, sembrano pensare che il “consumatore” sia una strana specie a sé. Per costoro il “consumatore” non è un normale essere umano, ma un curioso animale il cui fine esistenziale è il consumo. Questo essere ha un’intelligenza limitata, abitudini convenzionali, una grande credulità. Può essere facilmente ingannato e quindi (secondo da che parte sta l’osservatore) bisogna sfruttarne l’ingenuità oppure difenderlo contro le rapaci intenzioni di chi vuol vendergli qualcosa.

Questo non è il “consumatore” di cui si parla in queste pagine.

Secondo me è molto meglio partire dal concetto che il “consumatore” è semplicemente un essere umano, intelligente e sensibile come noi, con tutte le sue complessità, la sua cultura, i suoi sentimenti e i suoi pregiudizi. Sappiamo che nella maggior parte dei casi l’argomento di cui parliamo non è la cosa più importante per il nostro interlocutore (mentre lo è per il nostro cliente) e dobbiamo guardare le cose dal suo punto di vista.

 

b. Premessa n. 2: come si “classifica”
    un “consumatore”

In tutti i metodi strategici si cerca di definire e classificare il consumatore secondo parametri demografici, culturali, psicologici eccetera.

Questo criterio è corretto a condizione che si tenga conto di un fatto fondamentale: e cioè che non stiamo classificando “persone”, ma solo comportamenti o atteggiamenti. La stessa persona può essere un “consumatore” diverso secondo il prodotto, l’occasione d’uso, il momento della sua esistenza, il mezzo attraverso il quale la raggiungiamo, eccetera.

Da questo principio discendono tre considerazioni pratiche:

  1. La popolazione non si divide, come sembrano pensare alcuni analisti degli “stili di vita”, in tribù separate con culture omogenee. La stessa persona può essere moderna nell’arredamento e tradizionale nel cibo, o viceversa; può essere permissiva in ufficio, autoritaria in casa, o viceversa; può avere stili e comportamenti diversi in vacanza e in città; può essere milanese e tenere per la Juventus; eccetera.

  2. Il “consumatore” non è tanto una persona quanto una relazione fra una persona e un certo specifico beneficio che può essere offerto dal nostro prodotto: è questa relazione che dobbiamo capire (anche se nell’impostare la comunicazione dovremo sempre rivolgerci all’essere umano nella sua interezza).

  3. Tuttavia, poiché la persona che sta dietro ai diversi atteggiamenti di consumo è spesso la stessa, si possono ricavare insegnamenti da un comportamento di consumo che può aiutarci a capirne un altro. Questa “continuità dell’imparare” è una delle funzioni principali delle organizzazioni professionali di comunicazione (in alcune esiste un servizio ricerche e planning, specificamente dedicato a questa funzione; ma è importante che la conoscenza sia condivisa in tutta la struttura professionale, non limitata a un nucleo specializzato).

 

c. Il “consumatore” e la pubblicità

Un’impresa non investe denaro in pubblicità per dire qualcosa al consumatore, ma per far succedere qualcosa nella mente del consumatore. Rimuovere un pregiudizio. Consolidare una convinzione. Renderlo cosciente di un problema, o di un vantaggio che può avere. In qualche modo modificare il suo comportamento.

Il primo passo da compiere è quindi conoscere (attraverso ricerche specifiche o per deduzione) l’attuale posizione del consumatore: che cosa fa e che cosa pensa. Poi si dovrà decidere in base alle sue esigenze e alle caratteristiche del nostro prodotto che cosa vogliamo modificare: che cosa vogliamo che faccia o pensi dopo che avrà ricevuto il nostro messaggio.

Questa è la base elementare di ogni strategia pubblicitaria (o, più in generale, di comunicazione).

Una strategia è quindi la mappa di un percorso: la strada dal punto A (ciò che il consumatore pensa oggi) al punto B (ciò che vogliamo che pensi domani e dopo uno, due, tre anni di sviluppo della campagna).

In ogni caso il punto centrale della strategia (come di tutto il lavoro di comunicazione) è il cosiddetto consumatore. Non il prodotto, non l’azienda che lo produce, non il film o l’annuncio o il piano media. Il protagonista assoluto è il “consumatore”.

 

d. Conoscere il “consumatore”

Alcune agenzie (o persone che si occupano di pubblicità) pensano che il loro compito principale sia conoscere e capire il cliente.

Altre pensano che il loro compito principale sia conoscere e capire le tecniche della pubblicità.

Penso invece che il nostro impegno principale sia conoscere e capire il consumatore. E anche amarlo e rispettarlo (vedi il capitolo 15).

Non è questa la sede per descrivere le diverse tecniche di ricerca di cui ci si può servire. Basti qui sottolineare che la ricerca non è la fonte di tutto il sapere, né un mezzo per decidere. È solo uno strumento diagnostico. La comprensione del consumatore e la definizione della strategia è un processo di analisi e intuizione, ipotesi e verifica che coinvolge tutto il gruppo di lavoro. La particolare capacità di sintesi di una mente strategica è il cuore di un’agenzia di pubblicità. Senza questa capacità, e senza una continua, personale, umana attenzione verso il consumatore il lavoro di chi fa pubblicità (o in qualsiasi altro modo comunicazione d’impresa) sarebbe un’inutile e insensata esercitazione estetica. Purtroppo molti oggi sembrano intenderlo in quel modo.

Dati, cifre, analisi, ricerche sono utili, spesso necessarie. Ma la sintesi finale nasce spesso dalla semplice diretta osservazione della gente. Non finiremo mai di imparare dai “consumatori”.

 

e. Il “consumatore” e i prodotti

Possiamo immaginare che il “consumatore” verifichi attentamente le caratteristiche di tutti i prodotti o servizi che gli vengono proposti. Ma questo è impossibile.

La vita è troppo breve per provare tutte le automobili, leggere tutte le etichette, assaggiare tutti i cibi, visitare tutti i negozi. Soprattutto, abbiamo molte altre cose da fare, più importanti e più interessanti.

In qualsiasi categoria di prodotti, il consumatore sceglie fra un piccolo numero di marche fra le molte disponibili. Delle altre, alcune sono intenzionalmente scartate; la maggior parte, semplicemente ignorate.

Nel passato, se un’azienda aveva un prodotto con uno specifico vantaggio poteva render noto questo fatto e aspettarsi un successo di vendita. Oggi il mercato è troppo affollato per potersi orientare nella molteplicità delle proposte.

Fra decine e decine di prodotti disponibili in una categoria merceologica, un consumatore non ne prende in considerazione più di cinque o sei. Solo all’interno di questo gruppo privilegiato le specifiche qualità di prodotto possono far prevalere una marca sull’altra. Se il marketing mix (distribuzione, imballaggio, prezzo, promozione, pubblicità) non colloca un prodotto in questo “paniere” non è possibile consolidare la quota di mercato necessaria alla sopravvivenza di una marca.

 

f. L’affollamento pubblicitario

Nel 1759 Samuel Johnson scriveva: «Gli annunci pubblicitari sono oggi così numerosi, che sono letti con negligenza, ed è perciò necessario conquistare l’attenzione con magnificenza di promesse, e con eloquenza talvolta sublime e talvolta patetica». Chissà cosa direbbe oggi.

Quindici o venti anni fa era possibile per una marca assicurarsi una posizione di dominanza con la pura forza della dimensione: una potente organizzazione di vendita che coprisse a fondo il territorio, e una presenza concentrata su alcuni grandi mezzi pubblicitari, potevano collocare una marca nella gamma di scelta dei consumatori.

Oggi questo non è più possibile. Nemmeno chi dispone di grandi investimenti può ottenere un risultato valido senza una strategia precisa e selettiva.

Negli Stati Uniti hanno calcolato che “l’americano medio” riceve più di mille messaggi pubblicitari al giorno (o meglio... sono più di mille i messaggi che “tentano” di raggiungerlo, di cui pochissimi sono percepiti). In Italia non è stata fatta questa analisi ma sicuramente non sono molti di meno. Quanti superano la barriera del disinteresse? Forse una decina. Quali? Quelli che sono meglio disegnati per rispondere alle specifiche esigenze del consumatore. La voce che ascoltiamo di più non è quella che strilla più forte. È quella che meglio parla a noi e per noi, che meglio, corrisponde al nostro modo di pensare.

Nota: ci sono campagne pubblicitarie, o singoli annunci o film, che superano momentaneamente la barriera del disinteresse con qualche “effetto speciale” un particolare trucco, un’esecuzione brillante, la presenza di un personaggio di cui “si parla”. Accade che queste cose, almeno per un po’ di tempo, suscitino un po’ di attenzione. Ma troppo spesso si scopre che le persone ricordano la campagna, ma non il prodotto; o comunque la comunicazione “a effetto” non ha modificato in modo significativo il loro rapporto con il prodotto e con la marca. Una buona strategia dev’essere costruita in modo da non portare a questi risultati; ottenere un momento di curiosità può essere utile, ma solo se contribuisce in modo rilevante all’identità duratura della marca.

 

g. Prodotto e utilità

La considerazione fondamentale nella definizione di una strategia è che il consumatore non compra prodotti. Compra utilità per lui (il cosiddetto consumer benefit).

Dice Norman Berry: “Nessuno al mondo desidera possedere una punta di trapano da sei millimetri. Ciò che desidera è un buco da sei millimetri nella piastrella del bagno.”

Nessuna persona sana di mente si priva dei suoi sudati guadagni per diventare proprietaria di un biglietto aereo. Ciò che vuole è una piacevole vacanza, o un incontro di lavoro o di studio, o forse un incontro personale; il trasporto è uno strumento per qualcos’altro, non un “bene” o un valore in sé. La gente non acquista creme, ma bellezza. Non profumi, ma fascino. Non un rettangolo di plastica, ma il servizio che dà una carta di credito. Non un detersivo, ma il piacere dei panni puliti.

Così come una strategia non si costruisce dal punto di vista del cliente, ma da quello del consumatore, una strategia non si costruisce sul prodotto, ma sull’utilità che il consumatore ne ricava.

Nota: si può anche tenere conto della “utilità estesa” che va al di là dell’immediato beneficio del prodotto (dal buco del muro al bell’oggetto appeso; dal viaggio al piacere della vacanza; dal pulito al benessere e alla piacevolezza della casa; eccetera).

Nota: Qualcuno sembra interpretare questo ragionamento nel senso di trascurare o non considerare rilevanti le qualità tecniche del prodotto. Questo è un errore. Se la nostra punta di trapano ha una struttura o composizione metallica particolare, per cui perfora meglio o più in fretta, è utile dirlo. Conviene sempre approfondire le caratteristiche tecniche del prodotto e se queste caratteristiche sono rilevanti per il consumatore è bene esaminare la possibilità di centrare su di esse una delle alternative strategiche oppure inserire un dato tecnico come sostegno della promessa (supporting evidence).

Alcune fra le campagne di maggior successo, oggi come in passato, sono basate sulla dimostrazione di una specifica caratteristica del prodotto.

 

h. Prodotto e marca

Abbiamo detto che il principale obiettivo di un’impresa nel mercato di oggi è collocarsi nella ristretta gamma di marche entro la quale il consumatore fa le sue scelte. La qualità del prodotto è necessaria, ma non sufficiente, per garantirne il successo.

Questo discorso implica che prodotto e marca non sono la stessa cosa. Le fabbriche fanno prodotti. I consumatori acquistano marche.

Senza un buon prodotto nessuna marca può affermarsi.

Ma la marca non è il prodotto. Ha una vita propria. Intangibile, ma estremamente reale. La marca è il frutto della qualità del prodotto, della sua distribuzione, dell’imballaggio in cui si presenta, del suo nome, prezzo e aspetto. È costruita dalla sua storia, dalla sua reputazione, dalla sua pubblicità. È caratterizzata dalle esperienze dirette del consumatore ma anche dall’opinione che il consumatore ha delle altre persone che la usano.

La marca è l’anima, l’identità del prodotto. Una proprietà di immenso valore. Se non esistesse la pubblicità, ci sarebbero ugualmente marche con personalità precise; ma se la pubblicità non è l’unico elemento che costruisce una marca, ha un ruolo importante nel definire l’identità di una marca nuova, sostenere o evolvere la forza di una marca già consolidata.

La marca è ciò che rende identificabile un prodotto agli occhi del consumatore. In questo senso, la definizione della marca è una parte necessaria del processo di fabbricazione di un prodotto.

 

i. Come il “consumatore” decide

Se comprendiamo il modo in cui il consumatore pensa, analizza e decide, possiamo aumentare in modo significativo la probabilità di successo dei prodotti dei nostri clienti.

A questo scopo possiamo usare un modello di analisi che tenga conto di diversi fattori.

Prima di tutto l’ambiente: cioè il quadro di riferimento in cui si collocano le opinioni e i comportamenti riguardo all’argomento specifico di cui ci stiamo occupando. La definizione di questo ambiente spesso è molto meno ovvia di come può sembrare, ma non è difficile se invece di partire dal nostro modo di pensare (o da quello del nostro cliente) ci concentriamo sul modo di essere dei “consumatori” e della comunità in cui vivono.

Poi la “segmentazione”, cioè la definizione delle caratteristiche che distinguono le persone più interessate a ciò che abbiamo da proporre.

Dobbiamo tener conto delle utilità (consumer benefit) cioè dei valori del prodotto o servizio che offriamo dal punto di vista del “consumatore”.

Può essere utile valutare la “percezione di rischio”, cioè quali rischi il “consumatore” pensa di correre nel momento in cui fa una scelta.

E infine dobbiamo capire come si colloca la nostra marca nella “gerarchia” stabilita dalle persone che più ci interessano (segmento o target group) e che cosa dobbiamo fare per collocarla nel ristretto gruppo delle marche preferite (o per conservare quella posizione se l’abbiamo già) e per collocarla al livello più alto possibile in quella gamma.

Vediamo questo modello di analisi scomposto nelle sue parti.


Nota: questa analisi si riferisce principalmente allo schema classico dei prodotti di largo consumo, ma nella sua sostanza il metodo è applicabile a qualsiasi prodotto o servizio.

 

l. Metodo di decisione: 1 – l’ambiente

Il modello parte dall’ambiente, cioè dall’identificazione dei fattori generali che hanno maggiore rilievo rispetto al settore merceologico in esame.

Per esempio: che influenza ha la modificazione delle abitudini alimentari (“rottura” del pasto tradizionale) sull’acquisto di alimenti preparati o semi-preparati? Che peso ha il prezzo della benzina sulla scelta di una automobile? Come influisce il cambiamento dei ruoli nella coppia sull’uso di prodotti per la pulizia della casa? Che influenza ha il mutamento dei ruoli nel lavoro sulla scelta dell’abbigliamento? Quale valore ha l’immagine del paese di origine nella scelta di una bevanda?

L’ambiente di riferimento è specifico e complesso.

Specifico perché ciò che ci interessa non sono le tendenze culturali più appariscenti, o comunque generiche, ma quei riferimenti che sono significativi per la categoria merceologica e il prodotto di cui ci stiamo occupando.

Complesso perché i punti di riferimento sono molti e non sempre i più ovvi sono i più utili.

Come in molte altre fasi dell’analisi strategica, l’importante è scegliere fra i molti possibili parametri ambientali quelli più significativi nel caso specifico e quelli che possono portare ad ipotesi innovative.

I fattori ambientali da prendere in considerazione possono essere di diversa natura. Si può trattare di situazioni oggettive (come il luogo o tipo di abitazione, il reddito, costrizioni legislative o fiscali, condizioni fisiche), di stati d’animo e di tendenze culturali, o di specifici comportamenti anche apparentemente lontani da quello che ci interessa.

Per esempio:

Si è trovato (contro quanto può far presumere un’osservazione superficiale) che l’avvicinamento pratico al computer è spesso più facile per una donna che per un uomo, perché sono più numerose le donne che hanno (o hanno avuto) familiarità con altre macchine da ufficio.

La compressione del reddito reale nei ceti medi (in tutto il mondo) ha portato in molti casi non all’acquisto di prodotti a prezzo più basso, ma a una ricerca più attenta di alternative (cioè prodotti diversi) che offrissero la migliore combinazione prezzo-qualità.

Le famiglie a reddito più alto sono, in molti casi, più severe di quelle a reddito medio nel verificare il prezzo e le caratteristiche di un prodotto.

In alcune fasi di “crisi economica” si è avuto un aumento notevole di vendita di prodotti alcolici di marca, non perché la gente era triste e beveva di più ma perché usciva di meno e invitava più spesso amici in casa.

L’uso di cicli di lavaggio a medie e basse temperature è collegato in altri Paesi (Stati Uniti, Nord Europa) all’uso di fibre sintetiche, mentre in Italia si basa sulla tendenza a usare capi colorati (non solo nell’abbigliamento ma anche nella biancheria di casa).

La diffusione delle vendite per corrispondenza in molti paesi (per esempio in Scandinavia) è favorita da un fatto geografico, cioè dall’estensione del territorio rispetto alla popolazione. Molti tentativi di diffondere questo tipo di vendita in Italia sono falliti perché non si è tenuto conto delle differenze strutturali.

La diffusione di notizie sulla presenza di estrogeni nella carne ha quasi annientato in Italia, per un lungo periodo, il mercato degli omogeneizzati per bambini (anche non di carne) innestandosi sulla cultura anti-industriale di alcuni “formatori di opinione” (pediatri, magistrati, giornalisti); mentre non ha avuto quasi alcun effetto sulla vendita di carne fresca dove sulla nuova paura (estrogeni) prevaleva la forza della tradizione (“la carne fa bene”).

Per molti anni (anche sulla base di ricerche) si è creduto che in Italia fossero improponibili, nel settore automobilistico, promesse di basso consumo e di sicurezza, percepite come deprimenti e “menagramo”. Un approfondimento ha dimostrato che sotto questi atteggiamenti superficiali stava maturando una percezione diversa. Le prime marche che hanno colto la “tendenza latente” e hanno puntato sulle tecnologie di sicurezza (oltre che su buone prestazioni con bassi consumi e minor danno ambientale) hanno ottenuto un notevole successo.

 

m. I segmenti di consumatori

L’analisi dei fattori ambientali porta alla definizione dei segmenti di consumatori in relazione al prodotto o al settore che ci interessa.

Questi segmenti possono essere definiti per parametri demografici, o per atteggiamento, stile di vita, comportamento, abitudine di acquisto. Come abbiamo già detto,   non ci interessa tanto “classificare” il pubblico in termini generali quanto definire un sistema di atteggiamenti e comportamenti rispetto al prodotto o al servizio di cui ci occupiamo. La stessa persona può appartenere a segmenti diversi secondo il tipo di prodotto di cui si tratta e anche secondo diversi momenti della sua esistenza.

Segmenti diversi di consumatori possono cercare una diversa utilità (consumer benefit) nel prodotto.

Un’azienda che desidera raggiungere un certo segmento dovrà dare al suo prodotto le caratteristiche che a quel segmento interessano. O, viceversa, se il prodotto ha qualità rilevanti (che lo distinguono dai suoi concorrenti) si dovrà identificare il segmento che più le apprezza.

Nota: alcuni autori usano il termine “pubblico” per definire un “segmento“: esistono cioè diversi “pubblici” cui la comunicazione si rivolge. Questo termine è perfettamente corretto e può essere usato in alternativa a “segmento” (o target group) quando è più appropriato.

Oggi la popolazione è sempre meno omogenea, la segmentazione sempre più complessa. Può accadere che una stessa marca o uno stesso prodotto debba rivolgersi a più di un segmento. In questo caso esistono due soluzioni strategiche:

  1. Campagne diverse rivolte specificamente a diversi segmenti.

  2. Ricerca di un tema unificante che soddisfi le esigenze di segmenti diversi.


Per esempio:

Una linea aerea si rivolge a due “segmenti” nettamente diversi: quello delle famiglie che vanno in vacanza, e quello del “viaggiatore frequente” che vola per lavoro. I due segmenti hanno abitudini, esigenze e comportamenti molto diversi. (Ovviamente la stessa persona può essere nell’uno e nell’altro secondo la situazione e l’occasione del viaggio).

Alcuni prodotti alimentari (o bevande) destinati ai bambini svolgono campagne separate per convincere le mamme delle qualità nutrizionali dei loro prodotti. Altri cercano di unire i due contenuti (quello rivolto ai bambini, più basato sul piacere-divertimento, e quello “rassicurante” rivolto alle famiglie) nello stesso messaggio.

Il 20 per cento dei consumatori di Coca-Cola consuma l’80 per cento del prodotto. Anni di studio in tutto il mondo hanno dimostrato che questo segmento di heavy user non è classificabile per sesso, condizione socioeconomica, cultura e tipo psicologico, e solo parzialmente per età. L’unica caratteristica rilevante del bevitore abituale di Coca-Cola è il suo rapporto con la Coca-Cola.

Il consumatore di gelati ha un’età compresa fra i 6 e i 90 anni. La comunicazione è rivolta prevalentemente a un modello di riferimento teen (14-18 anni) perché questo è visto dai più giovani come “ciò che vorrebbero essere” e dai più vecchi come attinente al mondo “allegro indulgente” del gelato.

Fra le persone più interessate all’acquisto di un’enciclopedia ci sono le famiglie con figli alle scuole medie, specialmente se i genitori non hanno una cultura sufficiente per rispondere alle domande dei loro ragazzi.

Se ci si rivolge a un segmento di età fra i 35 e i 45 anni, occorre inserire fra gli elementi di “norma esecutiva” il fatto che molte di queste persone hanno un inizio di presbiopia ma non portano gli occhiali, e quindi (per esempio) si stancano facilmente nella lettura di testi in carattere piccolo.

 

n. La concorrenza

Quando abbiamo identificato il segmento (o i segmenti) che ci interessano, le sue caratteristiche e i suoi desideri, occorre valutare la concorrenza.

La concorrenza ovviamente è costituita dai prodotti dello stesso settore merceologico. Ma in molti casi non da tutti, e non solo da essi.

Per esempio:

Un dado per brodo è fondamentalmente in concorrenza con altri dadi per brodo.

Un’automobile non è in concorrenza con tutte le automobili, ma solo con quelle della sua categoria. In senso esteso, può essere in concorrenza con altri beni di costo elevato (compro un’automobile più grande e più bella o tengo la macchina vecchia e arredo meglio la casa?)

Una scatola di cioccolatini non è in concorrenza solo con altre marche di dolciumi, ma anche con un mazzo di fiori o qualsiasi altra cosa che possa essere regalata.

Dobbiamo identificare per ogni marca e per ogni prodotto i diversi tipi di concorrenza generica e specifica; identificarne la posizione, l’identità e il valore come visto specificamente dal segmento che ci interessa. Conoscerne i punti di forza e di debolezza.

 

o. Metodo di decisione: 2
    – la valutazione del rischio

A questo punto abbiamo introdotto nel modello le caratteristiche del prodotto, del consumatore e della concorrenza. Ora come procederà il consumatore per ridurre il grande numero di proposte disponibili alla “gamma ristretta” entro la quale operare la sua scelta?

Come sappiamo non ha il tempo, né la voglia, di valutare tutti i dati tecnici di tutte le possibili proposte.

Questo processo di selezione può sembrare arbitrario o casuale, ma è invece un meccanismo preciso che segue una logica analizzabile.

Per comprenderla, può essere utile usare il concetto di “rischio”.

Il consumatore valuta il “rischio” di acquisto o prova di un prodotto secondo le sue soggettive esigenze. Con una sintesi analogica istantanea esamina dentro di sé tutti i fattori e stabilisce una gerarchia di scelta. Se analizziamo questo processo, vediamo che è formato dalla valutazione di tre tipi fondamentali di rischio:

  • Rischio di prestazioni.
  • Rischio sociale.
  • Rischio di immagine di sé.

 

Rischio di prestazioni

Ovviamente il primo e più chiaro rischio è collegato alla qualità del prodotto o del servizio.

Il consumatore si chiede: «Quanta probabilità ho che questa marca (prodotto) non mi dia ciò che mi aspetto, e quanto gravi sono le conseguenze per me in caso negativo?»

Il grado di rischio come percepito dal consumatore può variare moltissimo secondo l’importanza oggettiva del prodotto e la scala soggettiva di valori del consumatore.

L’acquisto di un’automobile è un rischio molto elevato.

L’acquisto di uno “snack” è un rischio molto basso. Se il sapore non è un gran che, le conseguenze non sono gravi. (Ma la percezione può essere diversa per chi si pone problemi dietetici o nutrizionali).

La scelta di una cravatta può essere importantissima per una persona, irrilevante per un’altra.

Il rischio può essere diverso per persone diverse. Un bambino è più interessato al sapore, colore e forma di un cibo; la mamma alle sue qualità nutrizionali.

Ovviamente il rischio è molto ridotto nel caso che si abbia già familiarità con il prodotto e con la marca. Ma se vogliamo indurre il consumatore a inserire una marca nuova nella sua gamma di scelte (o mantenere la nostra posizione contro un attacco concorrenziale) dobbiamo valutare tutte quelle componenti che entrano a formare un’immagine di marca oltre all’esperienza pratica di uso del prodotto.

 

Rischio sociale

Il consumatore si chiede: «Quanta importanza do all’opinione che altri si fanno di me se scelgo questa marca ?»

Il rischio sociale può assumere aspetti frivoli o apparentemente buffi. Molti medici confessano di prescrivere acido acetilsalicilico sotto nome diverso perché sanno che i loro pazienti perderebbero stima nei loro confronti, e probabilmente avrebbero minor beneficio dal farmaco, se si vedessero prescrivere un’aspirina.

È noto che la scelta di una marca di sigarette è collegata all’immagine che il fumatore proietta di sé almeno quanto lo è al sapore del fumo.

È ovvio che quando si invitano persone in casa la marca delle bevande servite è uno strumento di identificazione del livello di ospitalità e del grado di considerazione verso l’ospite.

Chi sceglie un vestito per indossarlo da solo e al buio?

Ma esistono molti casi in cui il rischio sociale non è collegato solo alla proiezione della propria immagine, ma anche a una definizione delle proprie responsabilità. Per esempio sappiamo che l’acquisto di prodotti alimentari è basato su un senso profondo di dovere nutrizionale verso la famiglia; e che un forte freno all’acquisto di cibi preparati è il timore che la persona responsabile della casa sia considerata “pigra” o non abbastanza affettuosa.

 

Rischio di immagine di sé

Il consumatore si chiede: «Quanto può influire la scelta di questa marca sull’opinione che ho di me?»

Chi stipula un’assicurazione sulla vita è molto spesso spinto dall’autopercezione come persona saggia e responsabile più che dalla valutazione di esigenze finanziarie.

L’acquisto di un prodotto scadente, mal confezionato, lontano dai propri gusti può essere visto come un sacrificio della propria identità anche se nessun altro lo verrà mai a sapere.

L’acquisto di un prodotto bello e costoso, specialmente nell’area della moda, spesso è motivato più dal desiderio di premiarsi che dalla volontà di essere eleganti agli occhi degli altri. Ovviamente sarebbe un rischio in questo caso acquistare un oggetto “povero”.

Anche questo tipo di rischio, come i due precedenti, può essere più o meno alto secondo il prodotto, la scala di valori del consumatore e l’occasione specifica di acquisto. Ma, come gli altri, esiste in misura più o meno rilevante in tutti i casi.

 

p. Metodo di decisione: 3
    – la gerarchia delle marche

Secondo la sua soggettiva percezione dei rischi (che può essere del tutto diversa in un segmento rispetto a un altro) il consumatore stabilirà una gerarchia fra le marche disponibili. (Il concetto di “fedeltà di marca” non è quasi mai assoluto; sono rari i casi in cui qualcuno è “fedele” a una sola marca, mentre molto più spesso le persone scelgono all’interno di una gamma di marche preferite).

Al vertice della gerarchia collocherà quelle marche che, secondo la sua opinione, meglio evitano principali rischi – siano di “prestazioni”, “sociali”, di “immagine di sé” o una mescolanza dei tre in diverse proporzioni. Queste sono le marche considerate – quelle che il consumatore è disposto ad ascoltare e prendere in considerazione.

Nel limbo centrale si collocheranno le marche verso le quali il consumatore non sente attrazione né repulsione. Le vedrà come neutre, le terrà in scarsa considerazione o, peggio ancora, ne ignorerà completamente l’esistenza.

In basso alla scala gerarchica si collocano quelle marche cui il consumatore attribuisce un rischio elevato e che quindi intenzionalmente rifiuta.

Uno dei problemi delle attività promozionali (sconti o altri incentivi) è che possono temporaneamente indurre all’acquisto di marche “neutre” ma (se il prodotto e la marca non hanno caratteristiche tali da conquistare l’attenzione e la preferenza) dopo la fase promozionale le vendite crollano perché le persone ritornano ai loro comportamenti abituali.

Esistono tecniche specifiche per analizzare questo processo, ma sono abbastanza complesse (e costose). Per fortuna l’analisi dei fattori di rischio e delle conseguenti gerarchie può essere svolta anche senza usare metodi di ricerca particolarmente impegnativi; spesso basta un’analisi “a tavolino” delle informazioni disponibili.

 

q. Fattori di utilità strategica

I punti di riferimento per chi elabora una strategia sono, in base a questo modello:

  • L’ambiente (fattori rilevanti al caso).
  • I segmenti di consumatori (in senso specifico).
  • Le utilità (benefit) che ciascun segmento si a spetta.
  • I diversi rischi che il segmento percepisce nelle sue scelte.
  • La posizione della nostra marca nella gerarchia di scelta.

L’obiettivo è sempre quello di collocarsi al livello più alto fra le marche considerate nella gerarchia di scelta del segmento che ci interessa.

 

r. Il problema della “iperpromessa”

Un problema importante da valutare sia in fase di strategia, sia nella successiva esecuzione è il pericolo della “iperpromessa” (overpromise).

Non sono pochi i casi in cui si incontrano difficoltà nello sviluppo di un progetto (o, peggio, fallimenti sul mercato) perché le attese del consumatore quando è esposto al messaggio pubblicitario sono superiori alle effettive prestazioni del prodotto, e quindi all’atto della prova si produce una delusione.

Questo significa che la pubblicità proposta è bugiarda? No. In tutti i casi in cui ho avuto occasione di verificare questo problema, le affermazioni erano tecnicamente ineccepibili.

Significa che il prodotto è di cattiva qualità? No. È un buon prodotto e fa esattamente ciò che “tecnicamente” viene promesso.

Allora come nasce la “iperpromessa”?

Abbiamo detto che il messaggio ricevuto non è ciò che noi diciamo, ma una percezione complessa che il ricevente costruisce dentro di sé. Accade quindi che, al di là delle nostre intenzioni, il consumatore costruisca un’immagine mentale e un complesso di aspettative; in questo caso ha una “percezione di rischio” molto bassa; proietta su marca e prodotto un sistema di prestazioni immaginate; se poi il prodotto non corrisponde a queste ipotesi precostituite, si ha delusione alla prima prova e caduta del riacquisto.

Questo fenomeno fa parte del meccanismo, fondamentale in qualsiasi forma di comunicazione, per cui il messaggio che “arriva” è sempre diverso da ciò che si crede di “trasmettere“. Ovviamente è diffusa un’interpretazione “riduttiva” della pubblicità: chi la vede, la ascolta o la legge pensa che la promessa sia esagerata e si aspetta “meno” di ciò che viene detto. Questo rende accettabili alcune vistose “esagerazioni” pubblicitarie (anche se molto spesso non funzionano tanto bene quanto una rappresentazione più realistica e meno idealizzata del consumer benefit). Ma ciò ci cui molti non si rendono conto è che esiste il pericolo contrario, cioè di una “iperpromessa”. Un’ennesima conferma del fatto che una comunicazione efficace dipende da un’attenta verifica di come il messaggio viene percepito – e soprattutto di come viene modificata l’identità della marca e del prodotto.

 

Sintesi

  1. Il “consumatore” è il punto centrale di tutto il processo di analisi strategica.

  2. Il “consumatore” è solo un modo di dire; non esistono “consumatori” ma semplicemente persone che talvolta acquistano un prodotto o un servizio.

  3. Il “consumatore” non acquista prodotti, ma utilità (benefit) secondo il suo punto di vista.

  4. Il “consumatore” sceglie marche; la marca ha una sua esistenza che non si identifica totalmente con il prodotto.

  5. L’analisi del “consumatore” parte dall’ambiente cioè dai fattori culturali, ambientali e di comportamento entro i quali si colloca la sua percezione della marca.

  6. I “consumatori” non prendono in considerazione in ugual modo tutte le marche, ma decidono entro una gamma ristretta di marche“considerate”.

  7. I “consumatori” determinano la gamma delle marche “considerate” in base a una valutazione soggettiva dei “rischi”.

  8. Ogni “consumatore” ha una sua gerarchia di marche basata sulla sua definizione di rischio e sulla sua percezione del grado di rischio connesso a ciascuna marca.

  9. L’obiettivo è collocarsi al livello più alto della gerarchia (cioè al livello più basso di rischio).

  10. Sia nella definizione della strategia, sia nella successiva esecuzione della campagna, occorre guardarsi dal pericolo della “iperpromessa”.




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