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Mentire con le statistiche


Questo articolo, come indicato da una nota nel libro,
completa alcune osservazioni contenute nel testo originale
– e anche nei commenti all’edizione italiana –
di How to Lie with Statistics di Darrell Huff.



Il morbo di powerpoint

Giancarlo Livraghi – marzo 2004 – maggio 2007


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Questo articolo era uscito nel marzo 2004, quando non era ancora prevista la pubblicazione di un’edizione italiana di How to Lie with Statistics. Ottenne un’eco estesa e molti consensi, anche su scala internazionale.

Si inquadrava, fin dall’origine, nelle osservazioni di Darrell Huff (in particolare nel capitolo 5) a proposito delle “deformazioni grafiche” – e ora si colloca nel quadro degli aggiornamenti aggiunti all’edizione italiana su come le tecnologie elettroniche abbiano, da un lato, offerto nuove risorse all’analisi statistica, ma da un altro punto di vista abbiano contribuito ad aggravare il problema degli errori e delle distorsioni.




Molte malattie moderne hanno origini antiche. Non è difficile immaginare un nostro remoto antenato che, scoperto un modo efficace e veloce per disegnare un bisonte, riempisse le caverne di interminabili dipinti celebrativi con un’infinità di storie di caccia – che poco avevano a che fare con la sua reale abilità di procurare l’arrosto per la sua famiglia o la sua tribù.

La “sindrome di powerpoint” è un malanno noto e abbastanza ben diagnosticato, non solo da brillanti autori satirici come Scott Adams, ma anche da puntuali analisi di efficienza organizzativa e di qualità della comunicazione.

C’è chi lo definisce disinfotainment. C’è chi afferma che il modello powerpoint ha gravemente impoverito la comunicazione interna nelle imprese. C’è chi, come la Sun, ne ha bandito l’uso dalla sua organizzazione. Eccetera...

In un articolo su Wired del settembre 2003 Power Corrupts, PowerPoint Corrupts Absolutely Edward Tufte, un professore di Yale che ha scritto un libro sull’argomento, spiega come quel genere di tecniche abbia guastato e corrotto la comunicazione e gli strumenti cognitivi non solo le imprese, ma anche nelle scuole. Un altro interessante articolo, intitolato PowerPoint Makes You Dumb (“powerpoint fa diventare stupidi”), è stato pubblicato sul New York Times Magazine il 14 dicembre 2003.

L’origine, naturalmente, precede di parecchi anni l’uso di tecnologie elettroniche. Da tempo immemorabile si usano cartelli, diapositive, lavagne, eccetera. Anche senza risalire all’età della pietra, alle maschere e alle macchine da scena del teatro greco, o ad altri infiniti esempi nella storia, tecniche e risorse di ogni specie sono sempre state usate per presentare o illustrare una situazione, un progetto, le qualità e le caratteristiche di un’impresa, di un prodotto o di un’idea.

Splendide pitture e sculture di tutti i tempi, che con cura e piacere conserviamo nei musei, erano nate come strumenti per illustrare un pensiero, una proposta, una convinzione o un’opinione. Ma quasi nessuna delle presentazioni in powerpoint dei nostri giorni merita di essere esposta come opera d’arte – o anche solo come esempio di comunicazione particolarmente brillante e funzionale.

Oggi come allora, meccanismi, sintesi visive ed “effetti speciali” possono essere usati in modo intelligente ed efficace. Per concentrare l’attezione sui punti più importanti, per mettere in evidenza i dati più significativi, per valorizzare concetti che un’immagine può esprimere meglio delle parole. Insomma per spiegarsi meglio.

Ma possono anche, un po’ troppo facilmente, servire per truccare le informazioni o per confondere le idee.

Sappiamo che dati, bilanci, statistiche, tendenze, proiezioni e previsioni si possono deformare in infiniti modi. Cinquant’anni fa ne aveva fatto un efficace riassunto Darrell Huff. Il suo brillante libriccino How to Lie with Statistics uscì nel 1954. Continua a essere ristampato ed è più che mai di attualità. Meriterebbe di essere un testo d’obbligo non solo per chi fa ricerche, sondaggi o statistiche, ma anche (e soprattutto) per chi ne legge i risultati e desidera trarne qualche conseguenza pratica, conoscenza scientifica o arricchinmento culturale.

Oltre ad analizzare con divertente chiarezza i mille modi in cui un dato può essere falsato, per intenzione o per errore, Huff spiegava anche come lo si può truccare in una presentazione visiva. Per esempio la variazione di un numero può essere mostrata con immagini bidimensionali anziché con linee o istogrammi. L’altezza indica la quantità, ma l’immagine ne è il quadrato. Perciò se, per esempio, il dato che si sta presentando fosse aumentato del 40 per cento la percezione visiva sarebbe che è quasi raddoppiato.

L’effetto può essere ulteriormente accentuato se anziché una forma geometrica bidimensionale si propone un’immagine – come il bisonte del precursore cavernicolo. Se usiamo, per esempio, il disegno di un animale per rappresentare l’aumento o la diminuzione di una specie, o una mucca per indicare la produzione di latte, la percezione è tridimensionale. La mucca più grande messa accanto a una più piccola dà un’impressione che non è il quadrato, ma il cubo del reale.

E quando si parla di soldi? Si può ottenere lo stesso effetto. Basta mostrare monete, casseforti, sacchi d’oro o altre metafore invece di semplici indicatori lineari. Questo è solo uno fra infiniti esempi su come una varietà di effetti può essere usata per accentuare o diminuire, valorizzare o trascurare, ogni sorta di dati e di informazioni.

L’elenco degli effetti e dei trucchi potrebbe continuare all’infinito. E naturalmente si possono produrre illusioni percettive ancora più forti quando si usano immagini in movimento.

Le risorse, come tali, non sono né sincere né bugiarde. Il risultato dipende da come si usano. Una presentazione ben progettata e realizzata rende la spiegazione più efficace e incisiva. Ma se è intenzionalmente truccata può essere la fabbrica degli inganni – o, se non è realizzata con la necessaria attenzione, può ottenere effetti molto diversi da quelli desiderati.

Inoltre una presentazione standardizzata è pericolosa. Induce a seguire un percorso predefinito, ad annoiare l’uditorio o l’interlocutore con la somministrazione obbligatoria di cose che non gli interessano, invece di concentrararsi sui suoi interessi e sulle sue domande.

Una presentazione efficace richiede lavoro, attenzione, competenza. Prove e verifiche, ricerca dei modi espressivi più adatti, coerenza rigorosa e attenta fra i concetti e il modo più efficace per esprimerli.

Anche quando le risorse tecniche erano meno facili e più costose (in termini di tempo e impegno oltre che di spesa) si commettevano errori di ogni sorta – con risutati di involontaria comicità, di pericolosa incomprensione, di distrazione o di noia. Ma era un po’ meno probabile che una presentazione venisse realizzata male – perché la preparazione era impegnativa, richiedeva cura e attenzione. Ora, invece, entra in gioco l’intossicazione da powerpoint.

Sembra tutto facile. Uno spettacolo variamente sceneggiato si può mettere insieme in poche ore. La varietà dei giochini disponibili induce a eccedere. Il risultato è spesso desolante.

Le risorse offerte dal software tendono a essere sempre le stesse. Così chi ci parla di un problema complesso e sottile appare simile a chi sta cercando di venderci il più stupido degli aggeggi. La monotonia dell’apparenza prevale sulla diversità dei contenuti. L’abbondanza di cosmetici e belletti è disperatamente ripetitiva. L’effetto diventa facilmente soporifero.

Vediamo spesso un presentatore, prigioniero di un formato prestabilito, cadere in desolante imbarazzo davanti alla più semplice delle domande. Perché è addestrato a ripetere, senza approfondirla, la presentazione messa insieme da qualcun altro. O perché, se ne è l’autore, si è fatto prendere la mano dal meccanismo espositivo e ha perso di vista la sostanza dell’argomento.

Il malanno si accentua quando, dopo un incontro o un convegno, invece di un documento scritto viene consegnata o distribuita una copia delle “diapositive”. È evidente che le sintesi o le immagini destinate ad accompagnare una presentazione verbale sono una cosa completamente diversa da un testo destinato alla lettura. Ma la fretta, l’abitudine, l’assoggettamento passivo alle tecnologie inducono a usare strumenti sbagliati. Spesso, in quel modo, la comunicazione diventa incomprensibile (anche quando non è intenzionalmente truccata).

Succedono cose bizzarre con la “personalizzazione”. È molto facile, con un software, sostituire un nome o un’identità. Troppo facile. Così una presentazione o un documento a pagina 1 si rivolge al signor Rossi o alla società Bianchi, che si occupano di libri, mentre a pagina 12 si scopre che è una rifruttura di cose preparate per qualcuno che vende automobili.

Il quadro si complica, naturalmente, quando si tratta di comunicazione online. Non solo c’è chi, per mandare sei righe di testo, spedisce un allegato in powerpoint di tre megabyte. Vediamo anche siti web (o loro parti) che sono grossolane trasposizioni di cose preparate per tutt’altro scopo. C’è anche quel male cronico, già tante volte diagnosticato, che è la prevalenza della cosmetica sui contenuti.

Dopo tanti anni di discussioni e di approfondimenti sull’usabilità, e sull’importanza dei contenuti, i più bravi realizzatori di siti web sanno che bisogna badare alla sostanza e non all’apparenza. (Vedi L’architetto e il giardiniere). Ma spesso è il committente a volere che le cose siano fatte male. Perché non capisce la differenza fra l’internet e la televisione – o perché è contagiato dall’infezione powerpoint – o perché non vuole impegnare risorse umane per offrire contenuti significativi e servizi utili.

E così continuano a moltiplicarsi le scatole vuote, le apparenze senza sostanza. Cosa poco accettabile in ogni genere di comunicazione, ma particolarmente insensata nel caso della rete.

Il male di powerpoint, insomma, non riguarda solo l’uso di una particolare tecnologia. È un contagioso morbo culturale. L’abbondanza delle risorse induce all’esagerazione e alla facliloneria. Il culto dell’apparenza facilita gli imbrogli. Dobbiamo imparare a domare la proliferazone selvaggia degli strumenti espressivi per ridurli all’obbedienza, al servizio di ciò che abbiamo da dire – se e quando c’è qualcosa che merita davvero di essere detto e spiegato.




L’argomento è efficacemente riassunto
in questa vignetta di Alex Gregory
pubblicata dal New Yorker il 29 settembre 2003.

diavolo

“Ho bisogno di qualcuno ben preparato
nell’arte della tortura – sai usare powerpoint?”





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