Alice nel paese
delle ipocrisie

 

di Giancarlo Livraghi   gian@gandalf.it


 

   
È il 5 settembre 1998 e sono di pessimo umore. Non per l’acquazzone che mi ha bagnato fino alle ossa perché gli sbadati progettisti dell’aeroporto di Linate hanno mal disegnato la pensilina dell’accesso ai taxi; ma per un’altra, molto più preoccupante, buriana. Oggi la bufera non è finita, ma è un po’ meno violenta di quella straripante “onda anomala” che ha travolto i mezzi di informazione italiani, e specialmente i grandi quotidiani, due giorni fa. Su un tema che da anni ricorre, sui giornali come in televisione, con assillante frequenza: “pedofilia e internet”.

È snervante, ma necessario ripetere, con ancora più energia, che questa è una colossale mistificazione; e il frutto di un accumulo di vergognose ipocrisie.

La violenza contro i “deboli”, compresi i bambini o gli adolescenti, è un male diffuso e profondo. Non solo in quelle culture in cui si torturano le bambine con l’infibulazione o altre ignobili pratiche che nessun costume, tradizione o religione può giustificare; o si stroncano a bastonate i bambini per renderli deformi e mandarli a mendicare. Ma anche in paesi come l’Italia, dove accadono cose mostruose nelle scuole, negli oratori, negli asili... e nelle famiglie. Non solo, come si sa da sempre (ma si tende a tacere) in quelle isolate e arretrate culture contadine in cui padri, fratelli, zii e cognati abusano di ragazze adolescenti, con la silenziosa complicità delle madri, che lavano in casa i panni sporchi; ma anche nelle città, anche in “ceti sociali” in cui non manca il benessere e non dovrebbe mancare un buon livello di educazione.

A tutto questo le istituzioni, il parlamento, i “grandi poteri” e il sistema informativo dedicano un’attenzione distratta ed episodica, quando un bambino finisce ammazzato o una ragazzina violentata, o quando qualcuno dei molti colpevoli (in gran parte impuniti) finisce nelle maglie della giustizia.

In quei momenti si scatenano pericolose ondate emozionali, cacce alle streghe, ricerche di capri espiatori, che troppo spesso portano a colpire gli innocenti: come quello sventurato padre che per opera di un medico sciagurato e di un giornalista imbecille fu accusato pubblicamente di aver violentato la sua bambina – che invece aveva una grave malattia, di cui è morta. Che io sappia, non risulta dalle cronache se e come siano stati incriminati e puniti quei due criminali. Se quel caso fu particolarmente grave e clamoroso, non è l’unico nel suo genere.

Una di queste ondate emozionali ha portato il nostro parlamento a votare una pessima legge, che poco fa per risolvere il problema e può fare molti danni a chi non c’entra. Ma non è quella stupida legge il tema di questo articolo, né l’unica causa delle vicende di cui si tratta.

Fra tante forme di persecuzione ce n’è una che deriva dalla produzione di fotografie o film, non sempre di contenuto sessuale, che implica il maltrattamento delle vittime, fino alla tortura e talvolta all’uccisione. In molte di quelle produzioni si finge di uccidere, o si va a fotografare o filmare là dove le persone sono torturate e uccise; ma c’è il sospetto che qualcuno venga massacrato apposta per fare un film. Più spesso, credo, si tratta di adulti; ma i criminali non si fanno scrupolo di infliggere le stesse violenze anche a bambini o adolescenti, se c’è un orrido “mercato” che le chiede.

Non ho mai visto alcuna di quelle immagini, ma ne ho sentito parlare, già trenta o quarant’anni fa, da persone che considero molto credibili e che avevano studiato seriamente il problema. Se qualcuno sta leggendo con attenzione, dirà: Come, trent’anni fa? Non solo non c’era l’internet, ma non c’erano neanche le videocassette. Questo è il punto. C’era una “industria clandestina” che produceva queste opere d’arte, perciò doveva esserci un mercato che le comprava, quando si usavano ancora macchine da presa a 8 o 16 millimetri.

Ma non è tutto. Le cronache di questi giorni parlano di un sito web, dove dicono che si trovano materiali “pedofili”. Dicono che si chiama Wonderland. Stranamente nessuno dei molti cronisti che si sono avventati su questa storia ha colto il nesso: è un omaggio a uno dei più illustri “collezionisti” di tutti i tempi. Si tratta di un gentiluomo inglese dell’epoca vittoriana, Charles Lutwidge Dodgson, noto solo agli specialisti per i suoi dotti trattati di matematica, ma a tutto il mondo con lo pseudonimo di Lewis Carroll: l’autore di Alice in Wonderland – Alice nel paese delle meraviglie.

Questo signore, che per quanto ne so non fu mai incriminato né perseguitato (mentre Oscar Wilde subì orribili pene per le sue tendenze sessuali) aveva una collezione di fotografie di bambine svestite. Pare che non toccasse quelle bambine, ma si limitasse a fotografarle. La collezione fu bruciata alla sua morte, per sua disposizione testamentaria; nessuno ne fece commercio. Ma mi sembra probabile che altri, di cui le storie e le cronache non parlano, avessero un simile “vizietto” – e che dietro una solida barriera di ottocentesca ipocrisia ci fosse un discreto traffico di materiale di quella specie.

Ma come – dirà la persona attenta – più di cent’anni fa? Ma allora perché ci raccontano queste cose come se fossero una novità di questi anni?  Questo è il punto: ci stanno imbambolando con un diluvio di bugie, e sarebbe interessante capire perché.

Vorrei anche dire, a costo di attirare gli strali di qualche fanatico (alcuni acerrimi nemici della “pedofilia” hanno tendenze sadiche – e una spinta ad aggredire prima di aver capito) che anche in queste brutte storie non si può fare di ogni erba un fascio. Quando si aprono le saracinesche dello scandalismo e della repressione, entrano quasi sempre in gioco le tendenze più bigotte e restrittive. Per alcuni il concetto di “pornografia” è tale che, se potessero, oscurerebbero il sito online della Pirelli; per altri il concetto di “pedofilia” è tale che se le loro opinioni fossero accettate David Hamilton avrebbe passato metà della sua vita in carcere e Maurice Chevalier avrebbe avuto problemi con la giustizia per la canzone little girls.

Per quanto riprovevole possa essere fotografare di nascosto bambini o bambine in “costume adamitico” (foto del genere sono in quasi tutti gli album di famiglia, senza che ciò implichi alcun aspetto “pruriginoso”... ma non è accettabile che altri ne facciano commercio per fini meno innocenti) occorre anche capire che spiare attraverso un buco in una cabina al mare una ragazza che si cambia il costume non è la stessa cosa che rapirla e violentarla. E, anche se ci limitiamo alle immagini, fotografare una persona (adulta o bambina) semplicemente svestita non è la stessa cosa che metterla in pose ginecologiche o costringerla a un accoppiamento. Questo non è uno scherzo, perché spesso leggiamo articoli (e specialmente titoli) sui giornali che non distinguono fra cose così diverse.

Ma torniamo al problema della cosiddetta “pedofilia”. Incapaci non dico di risolvere, ma di affrontare seriamente il problema; travolti da un’ondata emozionale; che cosa fanno, in questi casi, i “potenti”? Scatenano la caccia all’untore, cercano il capro espiatorio. Nel nostro caso, l’hanno trovato: si chiama internet. La cosa va avanti da anni, anche se non aveva finora raggiunto una “punta” così estrema come quella del 3 settembre 1998.

Questa cosa un po’ misteriosa, che pochi conoscono e capiscono, popolata di androidi, di mostri, di tecnomani assatanati che praticano il “sesso virtuale” (nessuno ha mai capito che cosa sia, ma proprio perché non esiste è facile parlarne a vanvera e colorirlo come si vuole) si presta bene al gioco ipocrita della manipolazione.

Fra tanti esempi... un titolone in prima pagina sul Messaggero, 4 settembre: “Bimbi seviziati e uccisi su internet”. Come se l’internet fosse un posto dove qualcuno può essere ucciso o seviziato. (Nello stesso giornale, ma assai meno in evidenza, nella pagina interna dove è sviluppato il tema, c’è un articolo intelligente ed equilibrato di Vincenzo Zeno-Zencovich, intitolato “Ma non criminalizziamo la rete” – un consigio, purtroppo, raramente seguito dalla maggior parte dell’opinione dominante).

Sappiamo che esiste, da molto tempo, materiale fotografico e filmato di quell’orribile specie; è possibile che qualcuno (imprudentemente) l’abbia messo in rete. Ma se leggiamo le cronache un po’ più in dettaglio vediamo che, a quanto pare, le persone incriminate in Italia trattavano cose di altro genere... più simili alla collezione di Lewis Carroll o a una foto scattata su una spiaggia o dal buco della serratura.

Una piccola esegesi delle cronache porta ad altre curiose incongruenze. “La più grande operazione di polizia internazionale che sia mai stata condotta contro i pedofili”. Quante persone incriminate? In tutto forse 100, forse 180... in Italia forse due, forse sette o otto... Sono così poche le persone che commettono, materialmente o mentalmente, abusi contro i “minori’? Sappiamo che purtroppo il numero è enormemente più grande. Quindi è una grottesca montatura: anche se l’indagine avesse trovato tutti coloro che si occupano di questo genere di materiale in rete, avrebbe scalfito solo marginalmente il mondo della “pedofilia”.

Si è voluto far “trapelare” molto, compresi, nomi, cognomi, attività professionali e situazioni famigliari di persone la cui colpevolezza non è dimostrata. Non vorrei essere il figlio o la figlia di qualcuno di loro e trovarmi davanti alle occhiate e alle domande dei compagni di scuola... non si trattava di difendere i “minori”?

Da ciò che intenzionalmente si è “fatto sapere” sembra che nessuno degli incriminati abbia fatto male a un bambino, né avuto rapporti sessuali con minorenni. Non dico che la pedofilia “contemplativa” sia da perdonare, né che il commercio di immagini sia accettabile (anche quando sono relativamente “innocenti” – ma ottenute a insaputa dei bambini e delle loro famiglie). Ma, giova ripeterlo, non è la stessa cosa che violentare o uccidere. Insomma la spiegazione è semplice: i peggiori colpevoli non sono quelli che stanno sull’internet, anche perché la rete è uno strumento efficace per acchiapparli. Come è ovvio... ma su questo punto fondamentale ritornerò più avanti.

Ci sono altre bizzarre incongruenze. Si accostano “ad arte” dati e numeri che non hanno alcuna parentela. “1700 miliardi di lire il business del cibersesso”. Probabilmente questo dato, come quasi tutti quelli pubblicati su argomenti simili, è campato per aria. Ma anche se fosse vero, il “mercato” può contenere di tutto... da riviste più o meno scollacciate che si vendono in tutte le edicole ad abbigliamento più o meno provocante, da cassette di film come quelle che distribuiscono i più diffusi settimanali a libri di ricette “afrodisiache”, dalle sfilate di moda a molti romanzi di successo o libri d’arte un po’ maliziosa o seriosi manuali di sessuologia.

Se, come gli autori di questa mistificazione vogliono farci intendere, il mercato fosse quello della “pedofilia”, le 180 persone in giro per il mondo che (secondo questa indagine) sono sospettate di farne parte spenderebbero circa dieci miliardi a testa in filimini e fotografie. Per scambiarsele non userebbero l’internet, ma i loro jet privati.

Dicono “ventimila fotografie”. Visto che ne accumulano in mezzo mondo da cent’anni e più, mi sembrano poche. E non tutte appartengono al museo degli orrori. Immagino che quelle pubblicate sui giornali siano state scelte fra le meno “offensive”... ma vedo fanciulle meno svestite di come le incontriamo per strada d’estate, che non hanno l’aspetto di bambine, né di adolescenti... è chiaro che, in parte, quel materiale è meno “pornografico” di ciò che vediamo abitualmente sulle riviste più “rispettabili”. Inoltre, ci sono più di cento milioni di pagine in rete. Anche senza calcolare quante fotografie stanno in una pagina, siamo a meno dello 0,001 per cento... mentre accostano “ad arte” a questo numero una percentuale fasulla.

Dicono che “il 40 per cento degli adulti collegati all’internet visita abitualmente siti porno”. Per quanto ne so, à una panzana. Costruire “statistiche” come queste non è difficile, basta inventare un criterio ad usum delphini e non dire con quale metodo ci si è arrivati. (Per esempio: come si definisce “porno”? Non sto scherzando se dico che alcuni sistemi automatici individuano come “pornografia” un articolo come questo, quindi il sito che lo ospita; chi mi legge in rete probabilmente fa parte di quel mitico 40 per cento).

Immaginiamo un titolo che dice “Il 100 per cento delle persone che leggono i settimanali d’informazione più diffusi in Italia compra riviste con fotografie di donne nude”. Che cosa capirebbe qualcuno che non frequenta le nostre edicole? Un po’ di tempo fa un giornalista francese, che probabilmente aveva dato un’occhiata distratta a uno scaffale di riviste italiane in qualche libreria a Parigi, classificò L’Espresso e Panorama nella stessa categoria di Playboy e Penthouse.

Spigolando nelle stesse cronache, si scopre che questa operazione di polizia è stata condotta con mezzi e metodi più adatti alla ricerca di rapinatori o assassini. Irruzioni di uomini armati, alle sei del mattino. Sequestri di computer e di attrezzature, comprese periferiche e stampanti (che rimangono un abuso, un’illegalità e un inutile atto di violenza, qualunque sia la cosa su cui si sta indagando).

È difficile avere informazioni precise dalle vittime, che si chiudono in uno spaventato silenzio. Ma sembra che almeno in un caso (non so se l’indagato sia del tutto innocente o marginalmente coinvolto, ma non è uno degli accusati di cui parlano i giornali) la madre del sospettato, sorpresa nel sonno e ovviamente terrorizzata, sia stata trovata non molto vestita; e nel verbale della polizia sia stata descritta come una prostituta colta nell’esercizio delle sue funzioni.

Se di barbarie sono sospettate le persone su cui si indaga, ciò non giustifica la barbarie da parte delle “forze dell’ordine”.

Un’altra constatazione, molto palese, è che gli articoli di tanti giornali diversi sono sorprendentemente uguali. L’unica spiegazione possibile è che abbiano tutti la stessa fonte. Non so quale sia... ma dev’essere qualcuno vicino a chi conduce le indagini. Alcuni maligni pensano che si possa identificare una persona: Cristina Ascenzi, dirigente di un ufficio centrale di polizia che si occupa di queste faccende. Non so se sia vero, ma l’ipotesi ha una certa credibilità. La signora ha dimostrato in altre occasioni di essere un po’ “malata di protagonismo” – e (curiosa coincidenza) è citata in alcuni di quegli articoli come un’eroina della crociata contro il male, un genio dell’indagine elettronica... mentre gli stessi giornali dicono che il centro operativo di questa indagine è altrove, probabilmente a Londra.

Insomma cronache arruffate e imprecise, prive di verifica e di approfondimento, con al centro una grossolana menzogna. La rete non è l’origine, né lo strumento più adatto per i traffici di materiale “proibito”. È invece il modo più facile per trovare i trafficanti e i loro clienti, se hanno l’imprudenza di usare un sistema di comunicazione così verificabile e trasparente.

Qual è l’esito di tutto questo fracasso? Si processeranno poche persone. Si indurrà probabilmente quella (piccola) parte del traffico clandestino che ha avuto la dabbenaggine di affacciarsi in rete a tornare a canali più nascosti, che usa impunemente da un secolo e forse più. Si sarà fatto un gran rumore intorno a una piccola indagine, e così si potrà “far credere” di aver risolto un problema che non si è neppure intaccato. E si sarà ancora una volta “demonizzata” la rete; perché questo è il vero scopo, o comunque il più importante risultato, di tutta l’operazione.

Nasce inevitabile la domanda... cui prodest?  Non occorre fare strane “dietrologie” per capirlo. Non credo che ci sia un complotto. Non immagino che in qualche segreta stanza si riuniscano ministri, garanti, parlamentari, burocrati, editori, accademici, poliziotti e altri “poteri” per organizzare l’attacco contro la rete. Non è necessario. Basta un’aggregazione spontanea di chi della rete ha un’isterica paura, perché teme di perdere i propri privilegi. Basta la naturale alleanza fra l’ipocrisia, l’arroganza e la stupidità, che stanno spesso insieme nelle stanze del potere (come ampiamente dimostrano le cronache di ieri e di oggi).

Ma poiché è sui giornali il peggio di questa vicenda, sono costretto a soffermarmi su una di queste categorie; di cui non solo non sono nemico, ma “nel mio piccolo” faccio parte (anche se da molti anni non sono più iscritto all’albo). I giornalisti.

Diciamolo subito: non tutti i giornalisti. Ma troppi. Qui si impone una distinzione così grossolana che occorre spiegarla. Ci sono “buoni” e “cattivi” giornalisti. Per “buoni” intendo quelli che fanno seriamente il loro lavoro, cercano di approfondire, pensano con la loro testa; e quando sbagliano (errare humanum) sono pronti a ricredersi. Per “cattivi” intendo quelli che seguono l’onda, echeggiano l’eco, si accodano alla tesi dominante, passano le “veline” senza leggerle, pubblicano qualsiasi scemenza senza controllarla e si arrampicano sui vetri pur di non ammettere di aver sbagliato. Compresi quei redattori che non controllano se ci sia un nesso ragionevole fra il titolo e il testo di un articolo.

I “buoni” giornalisti si comportano in uno di due modi quando si tratta della rete. O la conoscono bene e ne parlano con “conoscenza di causa” (non importa se ne spiegano le qualità o ne criticano i difetti; ciò che conta è che dicano cose sensate). O non la conoscono, ed evitano di parlarne a vanvera (chissà perché Giorgio Bocca nel Venerdì del 4 settembre 1998 ha deciso di scrivere un paio di baggianate sulla rete, che non sono “gravi”, ma lo buttano a capofitto nella categoria dei “cattivi”).

I “buoni” giornalisti, comunque, non temono la rete. Sanno che non tutti i lettori hanno la voglia e la pazienza di “risalire alle fonti”; anche se lo facessero non li prenderebbero in castagna; e comunque non perderebbe mai valore il loro ruolo di interpretazione e analisi delle notizie.

I “cattivi” giornalisti hanno una paura fottuta di perdere un privilegio che non viene dalle loro capacità, ma dalla posizione di che occupano avendo “diritto di voce” (e “accesso alle fonti”) dove il “profano volgo” non l’ha. Per questo vedono la rete come il fumo negli occhi.

A giudicare dal diluvio di inchiostro che si è rovesciato sulla rete nei giorni scorsi, i “cattivi giornalisti” sono legione. E sorgono sgradevoli dubbi sull’onestà professionale e sulle capacità critiche dei direttori di alcune testate molto importanti – della carta stampata come della televisione (in questo frangente non ho seguito la radio, ma immagino che l’andazzo sia più o meno lo stesso). Non chiedetemi i nomi (l’elenco sarebbe dolorosamente lungo). Leggete i giornali. Ci sono le firme degli articoli e i nomi dei “direttori responsabili”. Così sappiamo di chi non ci possiamo fidare, qualunque sia l’argomento.




Per un approfondimento vedi anche:

Storia della crociata infame

La crociata, il macigno e il venticello

Dagli all’untore

L’internet, il bambino e l’acqua sporca

Quel simpaticone di Zio Luigi

Dalla parte dell’Inquisitore


 

   
 
Giancarlo Livraghi
gian@gandalf.it
  5 settembre 1998
 



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