Il potere della stupidità
Kali


C’è una definizione
della stupidità?

Giancarlo Livraghi – ottobre 2010

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Solo pochi fra i lettori che commentano il mio libro (Il potere della stupidità) osservano che manca una “definizione” di stupidità. Nella maggior parte dei casi non ne sentono la mancanza – o, se la notano, non lo considerano un problema. Ma il fatto è che quella definizione non c’è. Ho intenzionalmente evitato di proporla.

Sono convinto che possiamo ragionare efficacemente sull’argomento badando a quello che la stupidità non è – e a come si collega ad altri comportamenti. Oltre a osservare come funziona, qual è la natura delle sue cause e dei suoi effetti, quali sono i modi per capirla e come possiamo evitare o ridurre le sue perniciose conseguenze.

La “difficoltà di definire” non è così rara come può sembrare. È così in vari sviluppi della scienza e della filosofia. Per esempio la moltitudine di “particelle” o “forze”, eccetera, nello studio della fisica, non si basa su che cosa “sono” (sembra che nessuno lo sappia) ma su come interagiscono fra loro (e con l’osservatore) in un complesso e continuamente mutevole ambiente multidimensionale dello spazio-tempo.

Se tutto questo sembra difficile, è perché lo è. Le cose sono sostanzialmente semplici, vicino a noi o in remote galassie. Ma capire come sono semplici non è facile. Specialmente se si parte (come è difficile evitare) da un punto di vista antropocentrico – o dalla miope prospettiva del nostro vicinato mentale.

Sto rischiando di essere un po’ astruso? Spero di no. Ma è questo il problema in cui si cade quando si va in cerca di una “definizione formale”.

Tuttavia la domanda c’è. E può meritare una risposta. La migliore che ho trovato è nell’introduzione al libro di James Welles Understanding Stupidity. Le sue osservazioni sono ampiamente elaborate e (per chi sa l’inglese) meritano di essere lette (il testo è anche online). La sua definizione di stupidità è «the learned corruption of learning». Che si può, pressappoco, tradurre “la distorsione appresa dell’apprendere”. E questo è il modo in cui spiega il “meccanismo”.

«La stupidità è un normale, disfunzionale processo di apprendimento che si verifica quando uno schema costituito da condizionamenti linguistici e norme sociali agisce tramite il paradosso nevrotico per generare un sistema che induce a comportamenti eccessivamente disadattati».

È una descrizione corretta? Penso di si. Comunque non ho mai letto o ascoltato una “definizione formale” migliore di questa. Inoltre induce a qualche utile domanda. Come può qualcosa essere “normale” e anche “disfunzionale”? Questa è, appunto, una caratteristica della stupidità. Non è una malattia, una patologia, una debolezza di alcuni individui (o gruppi o categorie di persone) che chiamiamo “stupidi” (mentre, troppo spesso, il problema non è tanto la loro stupidità quanto la nostra incapacità di capirli).

Un modo efficace di identificare comportamenti stupidi è la “Terza Legge” di Carlo Cipolla
(capitolo 7 di Il potere della stupidità). Ma spiega che cosa la stupidità fa, non che cosa è.

La prima (e piuttosto imbarazzante) cosa che dobbiamo imparare, per cominciare a capire la stupidità, è che è intrinseca alla natura umana. O, più ampiamente, a ogni forma di vita. Come James Welles osserva in un’altra parte del suo libro. «La stupidità è un’incongruità inerente nella vita. Gli umani l’hanno sviluppata, estesa e diffusa». È spiegata in modo diverso da Douglas Adams. «Gli umani, che hanno la particolare capacità di imparare dall’esperienza di altri, sono notevoli anche per la loro scarsa propensione a farlo».

Il punto di partenza necessario è tanto semplice quanto è generalmente ignorato. Siamo tutti stupidi, in un modo o nell’altro. Se non ci rendiamo conto della nostra stupidità, siamo incapaci di capire quella degli altri.

Il “paradosso nevrotico” nasce dall’ambiguo significato di “nevrosi”. È generalmente percepita come una malattia – e, come tale, da curare. Ma il fatto è che tutte le persone “normali” sono, in qualche misura, “nevrotiche”. Se non capiamo che anche questo fa parte della natura umana (più estesamente, degli esseri viventi) rischiamo di passare tutta la vita sotto trattamento psicoanalitico (o, peggio, psicofarmaci) di cui non abbiamo bisogno (alcune persone lo fanno – e raramente le fa stare meglio).

Non si tratta banalmente di “convivere” con le debolezze della natura umana. Ciò che conta, anche in questo senso, è capirle. Ma, spiega James Welles, la stupidità può anche essere definita come

«... un abituale processo con cui l’apprendere distorce l’apprendere ... Notiamo che la stupidità si manifesta comunemente nell’interazione di due funzioni della psiche umana – l’autoingannevole incapacità di raccogliere ed elaborare efficacemente l’informazione e la nevrotica incapacità di adeguare il comportamento alle contingenze ambientali».

Cioè la stupidità è un “abituale processo” del comportamento umano – non un’eccezione, una menomazione o una patologia. Ma se non la capiamo ci andiamo a infilare in un’infinità di guai che non sono “inevitabili”.

«... In un contesto epistemologico, la stupidità è l’incapacità di raccogliere e usare efficacemente l’informazione – e perciò è favorita e accresciuta dall’auto-inganno. Tradizionalmente, l’auto-inganno è stato considerato solo come uso o abuso di informazione presente nel sistema cognitivo – cioè si presume che una persona debba “sapere” qualcosa per potersene ingannare. Tuttavia, dobbiamo riconoscere che è auto-ingannevole (cioè deviante) e abitualmente stupido anche evitare o rifiutare di raccogliere nuove, rilevanti informazioni su argomenti importanti».

È, purtroppo, un fatto che abbiamo un “sovraccarico” di (cosiddette) informazioni spesso confuse o irrilevanti. “Troppa” informazione è indubbiamente meglio che “non abbastanza”, ma il problema è che abbiamo contemporaneamente l’una e l’altra deformazione. In quell’enorme gorgo diventa sempre più difficile trovare e capire ciò che è davvero rilevante.

Vediamo un’altra osservazione, a questo proposito, di James Welles (accettando, nel contesto, una sua particolare interpretazione del termine “agnosticismo”).

«... Perciò, quando consideriamo la stupidità in rapporto alla conoscenza e all’elaborazione dei dati, è imperativo distinguere fra i fenomeni connessi di “agnosticismo” e “ignoranza”. Tutte e due le parole si possono usare per indicare la condizione di “non sapere”, ma descrivono modi diversi di rimanere in quella condizione. Un puro, innocente agnosticismo può non essere stupido, perché non indica necessariamente un’incapacità o non volontà di imparare».

L’altra faccia della medaglia è che nonostante l’ingombro (o a causa della confusione che ne deriva) l’informazione appropriata può essere (o sembrare) irreperibile.

«L’agnosticismo è lo stato cognitivo quando, per una persona o un’organizzazione, l’informazione è fisicamente inaccessibile (non disponibile). Dati rilevanti sono semplicemente non presenti nell’ambiente in una forma comprensibile dall’apparato percettivo del sistema vivente (persona, gruppo, ecc.). Per esempio, gli umani non vedono la luce nelle bande dell’ultravioletto o infrarosso, così siamo agnostici (anziché stupidi o ignoranti) per la nostra incapacità di cogliere quei segnali ambientali».

Ma non è il caso di “darsi per vinti”. Ci sono molte cose che stiamo imparando con l’uso di strumenti che distinguono le frequenze fuori dalla gamma percepita dall’occhio umano. E stiamo usando onde “invisibili” per molte applicazioni pratiche, compresi i sistemi di comunicazione.

È raramente “impossibile” trovare informazioni che “sembrano non esserci”. Se siamo in grado di fare una descrizione scientificamente attendibile di un remoto pianeta che non possiamo vedere, osservando ciò che accade nel suo ambiente, possiamo sviluppare ipotesi altrettanto utili su ogni sorta di cose che sembrano “sconosciute”, ma sono in rapporto con qualcosa che sappiamo – e verificarle ogni volta che ci accade di trovare qualche informazione che è solo apparentemente non connessa e ci può aiutare a cogliere una prospettiva diversa. E così confermare la nostra ipotesi, o migliorarla, o portarci a capire che è meglio accantonarla perché ne abbiamo trovata una migliore.

Ma la caparbia diffusione dell’ignoranza non è solo un problema di pigrizia mentale. Può essere una (spesso inconsapevole) “voglia di non sapere”. Così lo spiega James Welles.

«L’ignoranza, d’altro lato, di solito indica stupidità nel senso che informazioni importanti sono presenti e reperibili, ma trascurate. Il motivo per cui l’ignoranza non sempre indica stupidità è che alcune informazioni possono sconvolgere sistemi psico-sociali esistenti se aprono un varco nelle difese cognitive, così l’esclusione può talvolta essere una specie di adattamento».
«Questo in realtà è un processo piuttosto complicato, perché gli stimoli devono essere almeno superficialmente percepiti prima di essere respinti dal sistema come minacciosi per la struttura (o “schema”) delle credenze esistenti. Così la motivazione può avere un ruolo nell’ignoranza se a qualche informazione rilevante e disponibile si impedisce di “entrare nel sistema” (cioè essere accettata e incorporata nel programma cognitivo)».
«È probabile che questo accada quando qualcuno sente che imparare di più su un particolare argomento potrebbe costringerlo a subire l’esperienza più traumatica e terrificante che possa trovarsi ad affrontare – potrebbe dover cambiare idea»
.

La “paura di sapere” è una delle più grandi (e più pericolose) cause di ignoranza – e di stupidità. Scoprire che qualcosa non è come ci sembrava può essere scomodo. Ma, per quelli di noi a cui piace la ginnastica mentale, può essere interessante, attraente e gradevole. Anche divertente e “illuminante”.

Come diceva Mark Twain, «non è ciò che non sappiamo che ci mette nei guai, è ciò di cui siamo sicuri e che non è così». Scoprire che cosa “non è così” non è necessariamente disorientante. Al contrario, può (e deve) essere stimolante e incoraggiante. Ci fa bene “sviluppare l’abitudine” di cambiare idea, o imparare qualcosa che non sapevamo o – almeno – avere qualche dubbio. Questo è un buon modo per imparare e allargare il nostro orizzonte.

Spesso mi chiedo: “che cosa ho imparato oggi?” E se passa un giorno senza almeno una – piccola o grande – scoperta, o spunto che mi induca a pensare, mi sento a disagio per aver perso l’occasione di trovare qualcosa che avrei potuto vedere, ma mi è sfuggita.

Il dubbio non è un problema, è una risorsa. Lo diceva Voltaire. «Il dubbio è scomodo, la certezza è ridicola». E Bertrand Russell. «Il problema del mondo è che gli stupidi sono troppo sicuri e gli intelligenti sono pieni di dubbi».

La conoscenza è una risorsa fondamentale, ma l’abbondanza ci può confondere. Vediamo, a questo proposito, un’altra citazione di James Welles.

«Mentre “sapere è bene”, ci può essere così tanta conoscenza che diventa paralizzante. Le persone si sentono perciò costrette a compromessi sulla quantità e qualità delle loro informazioni. Quando sono sommerse nel ritornello “new age” TMI (too much info) si restringono specializzandosi – sacrificando l’ampiezza per la profondità, ciascuno sentendosi bene se sa qualcosa su qualsiasi cosa. In termini di qualità dell’informazione, si condizionano abbassando il livello – sacrificando la validità al gradimento, ognuno accettando ciò che “si adatta” e così arrivando alla disinformazione. Questi compromessi non solo tolgono ogni difesa da un sovraccarico di irrilevanti divagazioni, ma possono impedire a ognuno ci capire che cosa sta accadendo nel suo mondo».

La “specializzazione” può essere una patologia. Naturalmente è necessario per ciascuno avere una speciale profondità nel suo particolare lavoro, impresa o materia di studio. Ma un eccesso di concentrazione dell’apprendere, perdendo una prospettiva più ampia, porta alla miopia (se non cecità) mentale. Una vecchia e saggia ironia sul percorso della “carriera” ci insegna che il culmine estremo della specializzazione è “sapere tutto su niente” mentre la sommità della generalizzazione (tipicamente al vertice di una grande organizzazione o impresa) è “sapere niente su tutto”. E questi sono due modi di essere stupidi.

Il problema della stupidità (e dell’intelligenza) è intrinsecamente connesso con l’informazione e la conoscenza. Gli strumenti fondamentali per risolverlo sono l’ascolto, la curiosità e il dubbio. Possono (e devono) essere coltivati, con desiderio e passione, con la gioia che viene dalla crescita del capire e dai suoi buoni frutti. Un’evoluzione che apre sempre nuove possibilità, perché non si finisce mai di imparare.

Non dovremmo mai vivere l’apprendere come un compito. Quando il gusto è ben sviluppato, è un piacere. E, come il buon cibo, lo è ancora di più quando è condiviso.




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