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Cenni di storia dei sistemi
di informazione e comunicazione



I periodici

I periodici, naturalmente, sono più antichi dei quotidiani. Sono, fin dalle origini, un mondo vario e complesso. I “giornali” più antichi uscivano con periodicità diverse, spesso discontinue. Solo nel diciannovesimo secolo si è cominciata a tracciare una linea di divisione fra quotidiani, settimanali, mensili e varie pubblicazioni a diversa periodicità.

Già nelle prime fasi di evoluzione c’erano, oltre a quelle generali di informazione, testate “specialistiche”. Fra cui alcune di notevole rilievo scientifico o culturale. Molte, purtroppo, non sono state conservate, perché all’epoca non si capiva quale valore storico avrebbero avuto qualche secolo più tardi.

Si illudeva un po’ Samuel Johnson quando nel 1759, sulla sua rivista The Idler, scriveva: «Ci sono uomini diligenti e curiosi che conservano i giornali di oggi semplicemente perché altri li trascurano, e un giorno saranno rari. Quando queste raccolte saranno lette in un altro secolo, come si riconcilieranno le innumerevoli contraddizioni...». Se gli scritti di Johnson si possono leggere “in un altro secolo” è perché le sue opere sono state raccolte in volumi. Sembra che le copie originali della sua rivista siano irreperibili. Aveva previsto bene pensando che i “giornali” di allora sarebbero poi diventati rarità bibliografiche. Ma non immaginava quanti sarebbero andati irrimediabilmente perduti.

L’infinita varietà dei periodici copre quasi tutta la gamma del possibile. Dalle cose più banali e ripetitive a invenzioni più o meno divertenti o illuminanti. Alcuni periodici fra i più seri e documentati hanno un livello di approfondimento che supera la possibilità dei quotidiani e che li rende indispensabili – per una comprensione di temi di interesse generale o per l’approfondimento di argomenti specialistici.

Fra le più antiche forme di “periodici” ci sono gli almanacchi, nati dallo studio delle stagioni nelle culture agricole, ma spesso arricchiti di contenuti di diversa specie. Per esempio un antico almanacco italiano, il Pescatore di Chiaravalle, in anni recenti è diventato un curioso repertorio di approfondimenti culturali che nulla hanno a che fare con il calendario o con l’agricoltura.

Un’infinita varietà di volantini, pamphlet, notiziari e opuscoletti esisteva ancora prima dell’invenzione della stampa. Ovviamente si aprirono altri orizzonti con la disponibilità di nuovi strumenti di riproduzione – ma l’evoluzione fu graduale e disordinata.

Si ritiene che il primo Zeitung sia uscito in Germania nel 1502, mentre il primo “foglio di notizie” di cui si ha conoscenza in Inghilterra fu il Trewe Encontre nel 1513. Ma solo fra la fine del sedicesimo secolo e l’inizio del diciassettesimo comparvero testate con periodicità regolare.

Pare che le prime “raccolte mensili di notizie” siano uscite nel 1597 a Rorschach (Svizzera), ad Augusta e a Praga. Nel 1601 ad Anversa le Neue Tijidingen con periodicità bimestrale. La prima “gazzetta” settimanale Aviso-Relation oder Zeitung uscì ad Augusta dal 1601. Altre analoghe a Strasburgo dal 1609, a Basilea dal 1610, a Francoforte dal 1615. The Weekly News in Inghilterra nel 1622. I primi periodici in Francia nel 1631, in Italia (a Firenze) nel 1636. Il primo con un’impaginazione a colonne, quindi più simile a un giornale moderno, fu l’Oxford Gazette nel 1665.

Fu estesa e complessa la proliferazione di testate nel diciassettesimo secolo – e ancor più nel diciottesimo, quando intorno ad alcuni periodici si aggregarono importanti movimenti culturali.

Fin dall’inizio si scatenò il contrasto fra la libertà di stampa e la volontà del potere di controllarla. Ci furono parecchi esempi di “asservimento” di testate ai governi o ad altri centri di potere. E ci furono molteplici forme di censura e di limitazione della libertà di stampa. In alcuni casi con precisi divieti o controlli preventivi, in altri con forme meno esplicite, ma tuttavia forti, di repressione. Era cominciata così una vicenda che, con varie evoluzioni e mutamenti nella storia, al giorno d’oggi è tutt’altro che conclusa.

Fra le riviste “storiche” in Italia c’è il famoso Caffè dei fratelli Verri e di Cesare Beccaria, che ebbe vita breve (1764-65), ma rimase un pilastro nell’evoluzione della cultura illuminista. Altrettanto “effimeri ma importanti” furono l’Osservatore veneto di Gasparo Gozzi (1761-62) e la Frusta letteraria di Giuseppe Baretti (1763-65). Alcune riviste di rilevante impegno culturale esistevano già nel secolo precedente. Un Giornale de’ letterati usciva a Roma dal 1668. Testate analoghe nacquero a Venezia nel 1671, a Parma nel 1686 e a Modena nel 1692. Il Giornale de’ letterati d’Italia fu fondato da Apostolo Zeno, a Venezia, nel 1710.

Alla fine del Settecento ci furono le prime affermazioni formali della libertà di stampa. Fu sancita dal bill of rights della Virginia nel 1776 e poi dalla costituzione degli Stati Uniti nel 1789. In Inghilterra la censura fu abolita nel 1795. Con la rivoluzione francese si diffuse l’influenza politica dei giornali e si affermò il principio della libertà di stampa.

Come è noto, alcuni periodici ebbero un ruolo importante nel risorgimento italiano. La Giovane Italia di Mazzini circolava clandestinamente dal 1832 (era stampata a Marsiglia). Il Conciliatore, nato a Milano nel 1818, esprimeva con cautela idee liberali – e per questo fu soppresso dalla censura austriaca. Ebbero vita più lunga a Firenze l’Antologia di Giovan Pietro Vieusseux (1821-33) e a Milano il Politecnico di Carlo Cattaneo dal 1839.

L’idea di libertà di stampa, che si era diffusa anche in Italia dopo la rivoluzione francese e le conquiste napoleoniche, fu di nuovo repressa negli anni della restaurazione. Oltre alla forza militare e alle astuzie politiche di Cavour, un altro motivo di predominio piemontese nel risorgimento fu la maggiore libertà di stampa sancita da una legge promulgata a Torino nel 1848 – che divenne poi norma nazionale del regno d’Italia nel 1861.

Ebbero influenza anche fuori dal Piemonte testate torinesi. In particolare Il Risorgimento, diretto da Cesare Balbo e poi da Cavour, ma anche altre, come due quotidiani nati nel 1848: L’Opinione di Giacomo Durando e La Concordia di Lorenzo Valerio. Trovarono rifugio nel regno di Sardegna anche pubblicazioni di altra provenienza. Per esempio a Torino fu ospitato il Diritto, fondato nel 1854 da Cesare Correnti, Agostino Depretis e altri liberali, mentre a Genova dal 1852 usciva il mazziniano L’Italia del Popolo.

Nella seconda metà del diciannovesimo secolo, e poi nel ventesimo, si moltiplicarono non solo i quotidiani, ma ancor più i periodici, con una varietà e complessità che sarebbe impossibile riassumere nel breve spazio di questi appunti.

Una categoria particolare è quella dei “domenicali”, che in alcuni paesi (per esempio in Gran Bretagna) ottennero una larghissima diffusione. In Italia la Domenica del Corriere uscì per novant’anni, dal 1899 al 1989. Per tre o quattro generazioni di italiani fu un riferimento “unico nel suo genere”.

Altre testate “storiche” ebbero un ruolo culturale rilevante. Come La Tribuna Illustrata, nata nel 1890, o La Lettura, supplemento letterario del Corriere della Sera, che uscì dal 1901 fino all’inizio della seconda guerra mondiale. Ebbe vita breve Ominibus, nato nel 1937 e soppresso dal regime nel 1939.

La libertà di stampa, abolita durante il regime fascista e di fatto rinata dopo la fine della guerra, fu sancita di nuovo nel 1948 dalla costituzione della repubblica italiana (per una non irrilevante coincidenza, a cent’anni dalla legge piemontese da cui derivavano le norme precedenti al fascismo).

La ritrovata libertà, insieme al graduale sviluppo di un benessere economico più esteso, aprì molteplici spazi per la diffusione della stampa periodica. Allo sviluppo contribuì anche il fatto che, in conseguenza di una crescita del “potere d’acquisto”, cominciavano ad aumentare gli investimenti pubblicitari.

La mancanza di quotidiani “popolari“ in Italia lasciava uno spazio disponibile, che fu occupato dai “rotocalchi”. E naturalmente da una vasta e complessa varietà di testate “specialistiche”, dalla larga diffusione di riviste “femminili” a ogni sorta di settimanali o mensili dedicati a specifici argomenti o settori di pubblico.

La proliferazione fu tale che nel 1971 uscivano in Italia 326 riviste settimanali – più che in qualsiasi altro paese europeo. Il numero continua a oscillare, perché nascono molte nuove testate, ma c’è un’elevata mortalità. Nonostante queste turbolenze oggi in Italia ci sono circa 500 settimanali e 2000 mensili.

Per molti anni il periodico più diffuso in Italia fu Famiglia Cristiana, con il vantaggio di una catena di distribuzione privilegiata (le parrocchie) ma anche con una notevole “modernità” di contenuti rispetto alla tradizione della stampa cattolica. Ancora oggi è una delle testate di maggiore successo, con una diffusione di oltre 800.000 copie.

Con l’avvento della televisione, in tutto il mondo, ci fu una crisi di quelle testate periodiche che si basavano soprattutto sulle immagini. Il caso più clamoroso fu quello del settimanale “fotogiornalistico” americano Life, nato nel 1936, che fu chiuso, dopo varie vicissitudini, nel 1972. Un tentativo di riproporlo come mensile ebbe vita stentata dal 1978 al 2000. Mentre lo stesso gruppo editoriale continua con successo a pubblicare altre testate, di cui la più nota nel mondo è il “newsmagazine” Time.

Il primo periodico italiano sul modello di Life fu il settimanale Tempo, che uscì nel 1939 e continuò fino al 1976 (senza alcun rapporto con il quotidiano Il Tempo che si pubblica a Roma dal 1944). Dello stesso genere è Epoca, nata nel 1950, che vent’anni più tardi cominciò a soffrire come il suo prototipo. Dopo vari inefficaci tentativi di “rilancio” ha cessato le pubblicazioni nel 1997.

 
Il gruppo che si chiamava Time Life cambiò poi il nome in Time Inc. e più tardi in Time Warner quando si fuse con una grande impresa cinematografica e televisiva.

Un curioso episodio fu l’aggiunta, e poi l’eliminazione, della sigla AOL dal nome del gruppo.  Vedi La scomparsa di “Aol”.
 

Anche altri periodici furono messi in difficoltà dalla “concorrenza” televisiva. Mentre, come nel resto del mondo, nacquero e si svilupparono le testate dedicate alla televisione. Per molti anni fu dominante il Radiocorriere, edito dalla Rai, che dalla radio aveva naturalmente esteso i suoi contenuti ai programmi televisivi. Ma poi prese il sopravvento una testata più “frivola” chiamata Sorrisi e canzoni – che con oltre 1.500.000 copie è il periodico più diffuso in Italia.

Due storici “rotocalchi” continuano a uscire con un’ampia diffusione. Oggi era nato nel 1945 e Gente nel 1957. Sono invece scomparse altre testate come L’Europeo, nato nel 1945, e Il Mondo, fondato da Mario Pannunzio nel 1949 (esiste ancora una rivista con quel nome, ma è diversa – si occupa di economia).

Nel settore dei newsmagazine durano da più di quarant’anni L’Espresso, fondato da Arrigo Benedetti nel 1955 (nel 1974 adottò un formato più simile a quello delle testate internazionali) e Panorama, che nel 1962 era stato proposto da Mondadori come edizione italiana di Time, ma aveva assunto quasi subito un’identità autonoma. Fra i “concorrenti” ci sono i supplementi settimanali dei quotidiani, di cui alcuni hanno una diffusione superiore a quella dei newsmagazine storici. Per esempio due che nacquero, ad alcuni mesi di distanza, nel 1987: Il Venerdì di Repubblica e Sette che 17 anni dopo, il 13 maggio 2004, cambiò nome in Corriere della Sera Magazine. [Qui occorre un aggiornamento: nel novembre 2009 ha cambiato formato e impaginazione ed è ritornato al titolo Sette].

Fra i tanti “generi” di periodici un ruolo non irrilevante, da molto tempo, è quello delle pubblicazioni satiriche. Che ebbero fortuna per secoli in tutto il mondo, ma oggi in Italia sono quasi estinte. E anche dei “fumetti” che in parte si rivolgono a un pubblico infantile, ma in altre varianti interessano di più agli adulti.

Le riviste americane di comics (oltre alle strip, cioè “strisce” di vignette pubblicate sui quotidiani) hanno diffuso i loro contenuti in molte parti del mondo, compresa l’Italia – con l’aggiunta di non pochi “prodotti nazionali”, come quelli che pubblicava lo storico Corriere dei Piccoli (uscì per la prima volta alla fine del 1908 e per quasi quarant’anni, dal 1917 al 1955, pubblicò la famosa serie Signor Bonaventura di “Sto”, cioè Sergio Tofano).

Molti personaggi dei “fumetti” sono nati nella carta stampata, ma alcuni derivano dal cinema. (Si chiamano cartoon – un termine che ovviamente deriva dai “cartoni animati” – anche serie di vignette pubblicate sui giornali che non hanno alcuna origine o derivazione cinematografica).

Un caso particolare è quello di Mickey Mouse, cioè Topolino. La rivista di quel nome, pubblicata da Nerbini nel 1931 e rilevata da Mondadori nel 1935, ebbe un esteso successo, che continua ancora oggi. A tal punto che parecchie storie di Topolino non furono importate dall’America, ma (con il consenso di Disney) ideate e realizzate in Italia.

Un genere di matrice italiana è quello delle storie romantiche “a fumetti”. Grand Hotel nacque nel 1946 e ottenne una larga diffusione. Arrivò rapidamente al milione di copie. Talvolta un’affermazione scherzosa chiarisce un fenomeno meglio di tante dissertazioni. Una cameriera intelligente e spiritosa a quell’epoca lo spiegò così: «La signora compra sempre Grand Hotel, lo legge tutto, e poi con disprezzo lo dà a me dicendo che è un giornale da serve».

Nel 1947 entrò in scena un temibile concorrente, Bolero Film, pubblicato da Mondadori. Si dice che fosse di Cesare Zavattini l’idea di usare fotografie invece di disegni. E così nacquero i “fotoromanzi” – che per molti anni ebbero un ruolo dominante fra i periodici italiani.

Trent’anni più tardi i fotoromanzi furono sostituiti nel predominio fra i “giornali per le serve letti dalle signore” (ma con una lettura non solo femminile) dai settimanali di pettegolezzo, in gran parte dedicati alle vicende private (vere o inventate) di personaggi resi noti dalla televisione.

Naturalmente la libertà di stampa comprende il diritto indiscutibile di diffondere, e di leggere, anche le cose più banali e superficiali. Ed è probabile che negli anni ’40 i “fotoromanzi” abbiano contribuito a diffondere la lettura. Ma nei decenni seguenti una crescente banalizzazione del “circolo vizioso” fra televisione e stampa ha indebolito tutto il sistema dell’informazione, rendendolo sempre più monotono e “autoreferenziale” (come è constatato anche nel più recente Rapporto Annuale del Censis).

In una parte del mondo giornalistico c’è coscienza di questo problema – ma quella che manca è una soluzione. (Vedi per esempio un consapevole, ma purtroppo inconcludente, dibattito fra Eugenio Scalfari e Umberto Eco su L’Espresso nell’ottobre 1999).

Oggi le edicole sono più che mai affollate di riviste di ogni specie, con continui tentativi di nuove proposte. Ma il numero di lettori non aumenta. Anzi sembra diminuire, come vediamo dall’analisi dei dati di tendenza.




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