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I nodi della rete
di Giancarlo Livraghi
20 – settembre 2003


Le balordaggini
del restyling

Accade, abbastanza spesso, che una “piccola” notizia dia un segnale su argomenti più importanti. Il 20 settembre 2003 la stampa italiana ha pubblicato con esagerata evidenza, e con una futile sovrabbondanza di commenti, la decisione della Rai di sostituire alcune annunciatrici con persone nuove. Una notiziola di scarso rilievo nei complessi e seri problemi del sistema televisivo – e in generale dell’informazione. Ma alcuni dettagli sono interessanti.

Nei due più diffusi quotidiani sono apparsi titoli quasi identici, ma di significato opposto. Quello del Corriere della Sera, in prima pagina, diceva: «La Rai si rifà il trucco, via le signorine buonasera». La Repubblica dedicava un’intera pagina all’argomento, con il titolo «Tornano le signorine buonasera, la Rai si rifà il trucco». Un esempio, fra mille, della distratta superficialità di redattori e “titolisti” – e del desolante, banale, sciocco manierismo che affligge il giornalismo (su carta stampata o “audiovisivo”) come altri sistenìmi di comunicazione – e più ampiamente l’uso della lingua italiana.

Ma fra tanti commenti inutili, noiosi e irrilevanti ce n’è uno, chiaro e incisivo, che merita qualche approfondimento. All’inizio di un articolo su questo futile tema, Aldo Grasso, critico televisivo del Corriere, ha scritto:

Restyling è una di quelle parole che mettono l’orticaria, perché, quasi sempre, annunciano un cambiamento che non è cambiamento: bene che vada, si tratta di intonaco o di maldestra tecnica di mercato, insomma un’operazione di facciata. La Rai, non credendo più nei programmi, fa restyling.

Il tentativo di rimediare con la cosmetica alla mancanza di sostanza non è nuovo. E porta quasi sempre a risultati disastrosi. Un esempio di alcuni decenni fa riguarda l’industria automobilistica americana. Restyling, in quel caso, voleva dire la presentazione, ogni anno, di “nuovi modelli” che di nuovo avevano solo qualche dettaglio più o meno “cosmetico”. Fin che la concorrenza era solo fra marche nazionali che facevano tutte la stessa cosa, quell’abitudine era un “rituale” che tutti asecondavano senza pensarci. Non era utile, ma sembrava che non facesse danni. Le automobili erano tecnicamente vecchie, inutilmente ingombranti e poco costose, perché c’erano scarsi investimenti nell’innovazione. Fabbricanti, rivendiìtori e acquirenti erano abituati così e sembrava che così si potesse continuare all’infinito. Ma un giorno l’intera industria automobilistica americana ebbe un brusco risveglio. Perché automobili straniere (in particolare giapponesi) stavano invadendo con crescente successo il suo mercato.

Seguì un periodo confuso, in cui sembrava che il Giappone fosse diventato la più grande potenza industriale del mondo, al cui seguito emergeva la minaccia crescente della nuova industrializzazione nel sud-est asiatico. L’America e l’Europa sembravano irrimediabilmente sconfitte. Si vide poi che non era così – ma fu necessario un ripensamento profondo, da parte delle industrie “occidentali”, per poter recuperare almeno in parte il terreno perduto.

(Sarebbe lungo, complesso e “fuori contesto” parlare qui delle situazioni di oggi, che riguardano non solo la Cina, ma anche altri sviluppi di “nuova industrializzazione”).

In modo diverso il fenomeno si ripropone nel mondo dell’elettronica. Sembra ormai in esaurimento la follia delle finte innovazioni, per cui un computer dev’essere sostituito ogni anno o due da un altro con “prestazioni superiori” inutili per la stragrande maggioranza delle persone e delle imprese (vedi La leggenda di Moore). Ci sono anche chiare indicazioni del fatto che un reale miglioramento di servizio può portare a notevoli successi (vedi La “legge di Google”). Ma continua la perniciosa degenerazione dei software sottoposti all’incessante piaga di false novità o “aggiornamenti” che non offrono alcun vantaggio (ma anzi, spesso, peggiorano le cose con complicazioni inutili e con imperdonabili malfunzionamenti). Non è neppure del tutto scomparsa l’insensata tendenza a installare tecnologie prima di averne capito l’utilità e la funzione (vedi Il paradosso della tecnologia).

Il fenomeno si moltiplica all’infinito – non solo, come è fin troppo evidente, nel mondo dell’informazione e della comunicazione, nell’editoria e in una varietà di prodotti commerciali. Ma anche, per esempio, nei servizi. Ci sono apparati burocratici che cercano di “rifarsi il trucco” per sembrare più amichevoli e “al servizio dei cittadini”, mentre in realtà fanno il contrario. Ci sono organizzazioni, come le banche, che credono di poter diventare strutture di servizio semplicemente “facendo finta” di esserlo.

Qualche anno fa un “grande consulente” consigliava di addestrare le persone agli sportelli perché, leggendo un modulo o l’intestazione di un conto corrente, chiamassero il cliente per nome, fingendo di riconoscerlo. Così un signore (che magari si chiama Bianchi) si sentirebbe dire «buongiorno, signor Rossi, deve andare a fare mezz’ora di coda allo sportello 5 e poi dovrà aspettare una settimana» (per qualcosa che, in un sistema che badasse davvero al servizio, si potrebbe fare in un minuto). Oppure «buongiorno, caro signor Rossi, il suo conto è in passivo perché l’investimento che avevamo consigliato le ha fatto perdere tutti i suoi risparmi». Tragicomico? Si. Ma molte soluzioni, proposte e praticate, di customer care sono ancora più grottesche.

C’è qualcosa di sbagliato, “in assoluto”, nel restyling? No. Un miglioramento estetico, anche quando non è essenziale alla funzionalità di un prodotto o di un servizio, può essere gradevole e gradito. In particolare quando accompagna una reale e utile innovazione. Ma anche quando serve solo a “rinfrescare” l’aspetto di qualcosa che mantiene la sua solida e nota qualità. Il problema nasce quando il restyling è un sostituto dell’innovazione che non c’è – o il patetico tentativo di mascherare con trucchi cosmetici un deterioramento o una mancanza di qualità reale.

Anche nei servizi e nei rapporti umani... un sorriso e un po’ di cortesia non guastano mai. Ma quando i melensi rituali dell’apparenza cercano di nascondere mancanze di attenzione e di servizio – e incapacità di ascoltare – non solo si moltiplicano le inefficiente, ma si creano pericolosi malintesi e irritazioni.

Di queste falsificazioni siamo, purtroppo, inondati. Le conseguenze, a prima vista, possono sembrare marginali. Ma la sovrabbondanza di cosmetica e la scarsità di sostanza distruggono la fiducia – che è l’elemento fondamentale su cui si basa ogni fruttuosa e durevole relazione. C’è un po’ troppa rassegnazione, un po’ troppo ossequio a questo stupido malcostume. Più ci si accoccola nelle apparenze, più duro è poi (quando, inevitabilmente, arriva) lo scontro con la realtà.



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