labirinto
Il filo di Arianna


Netforum – dicembre 2003

Giancarlo Livraghi     gian@gandalf.it



La speranza e le radici
di un’Italia più civile

 
I “grandi scenari” ci offrono pochi motivi di buonumore.
Ma si muove qualcosa che potrebbe salvarci dal peggio.



Quasi tutti, per un motivo o per un altro, pensano e sentono che il 2003 non è stato un “buon anno”. Gli scenari dell’attuale e del possibile sono sempre più confusi, deludenti e deprimenti. Si sono spente le illusioni delle “magnifiche sorti e progressive”. L’economia è depressa, la cultura è scarsa, l’innovazione sembra muoversi a casaccio, con più problemi che vantaggi.

Il mito della crescita perenne, che risolve tutti i problemi, si sgretola nella constatazione che le cose non sono così semplici.

C’è malinconia, malavoglia, disorientamento, delusione. L’Italia non sta bene, l’Europa è in difficoltà, il mondo è senza bussola. La fretta imperversante è una corsa verso il nulla, come se fossimo topolini affannati nell’indecifrabile labirinto di qualche maldestro sperimentatore.

Questo malessere non è una novità, ma da alcuni anni è sempre più evidente. L’aveva constatato con chiarezza il Censis nel suo 36° rapporto annuale alla fine del 2002. Ma nel 37°, pubblicato il 5 dicembre 2003, si coglie il segno di un cambiamento nello stato d’animo degli italiani .

Siamo diventati più ottimisti, felici e fiduciosi? Tutt’altro. Ma da uno stato passivo di smarrimento e depressione stiamo entrando in una fase diversa. Se i “grandi sistemi” sono incapaci di aiutarci, se le “grandi notizie” oscillano scricchiolando, come una pendola arrugginita, fra illusioni e delusioni, forse è venuto il momento di tirarci su le maniche e cercare, ognuno “nel suo piccolo“, di fare la nostra parte.

Sembra che fra gli italiani stia nascendo la voglia di comportarsi come i buoni marinai e bravi capitani di cui parlavo nel settembre 2002 (L’arca di Noè).

Devo confessare che probabilmente non riuscirò a leggere tutte le 698 pagine del nuovo rapporto Censis. Ma da quelle che ho letto risultano alcune constatazioni molto interessanti.

Sta emergendo, rileva il Censis, «la maturazione a livello individuale verso un’etica non più solo autocentrata, ma sempre più relazionale, cioè un’etica della responsabilità».

Non è una “coincidenza casuale” che di “etica della responsabilità” si stia ragionando anche in altre sedi. Vedi per esempio L’etica della comunicazione.

Questo stato di coscienza accentua «l’autonomia nei confronti anche dei temi che attraversano il dibattito sociopolitico, del potenziale declino, della potenziale ripresa, del potenziale rilancio dello sviluppo – quasi la cultura collettiva avvertisse un bisogno intimo di non farsi imprigionare dalla depressione del potenziale declino, ma ancor più di non restare intrappolata nella coazione a ragionar sempre del binomio alternativo sviluppo-declino».

«L’autonomia della società arriva a un lucido “disormeggio” dai vincoli di unitario sviluppo, di unitaria volontà ed intenzionalità, di unitaria soggettualità collettiva, di unitario prometeico controllo del proprio essere e del proprio destino». In conclusione «le grandi pur se silenziose novità di questo periodo portano a una società che vive un suo “altrimenti” più che una società destinata a inevitabile declino».

In altre parole, al di là e al di fuori delle “grandi vicende” di cui si straparla nel sistema informativo dominante, qualcosa di nuovo, e di potenzialmente forte, sta maturando nella coscienza delle persone. Quelle che gli americani chiamano grass roots, le radici di uno sviluppo che non viene “dall’alto”, ma dalle basi dell’umanità e dalla profondità delle coscienze.

La forza vitale germoglia e cresce lontano dalle luci della ribalta, dal culto delle apparenze, dalle manovre del potere. «In questa cultura che si evolve silenziosamente, e con poco apparire, verso un nuovo sistema di valori, si approfondisce il solco fra la realtà della vita, individuale e collettiva, e la rappresentazione che se ne dà nel teatro sempre più isolato e “autoreferenziale” dei sistemi di potere e dei grandi apparati dell’informazione».

Ci sono buon motivi per credere che questa analisi non sia solo un segno di speranza – o uno stimolo a uscire dalla palude del disincanto e della depressione. Possiamo credere, davvero, che si stia mettendo in moto l’Italia silenziosa delle volontà individuali, dell’impegno quotidiano, della solidarietà umana. Quella che tante volte ci ha permesso di uscire dalle difficoltà o dalla stasi.

Dobbiamo augurarci che sia così. E dialogarne con impegno e passione, lontano dalle acrobazie degli azzeccagarbugli e dal torpido gigantismo dei dinosauri, in quell’incontro di nuovo e di antico, di umanità e consapevolezza, che sta nei sistemi di comunicazione “interattiva”. Diciamoci “buon anno” non per banalità rituale, ma per impegnarci a fare in modo che lo sia.





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