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Mentire con le statistiche


Intervista di Giuseppe Mariggiò a Giancarlo Livraghi
su Data Manager – luglio 2008



I numeri & l’internet

Nella vita reale
«non c’è alcun uomo medio»


Disponibile anche in pdf
(migliore come testo stampabile)



Giancarlo Livraghi. Pubblicitario, scrittore e bibliografo italiano. Così si legge nelle note biografiche. Questo però non basta per dare l’idea alle nuove generazioni del contributo che questo distinto signore (classe 1927. E che classe, chapeau!) ha dato e continua a dare al mondo delle idee come professionista della pubblicità e come top manager (espressione che gli si addice come un paio di scarpe di cuoio naturale dopo le cinque di sera) per molte grandi imprese italiane e internazionali.

Come studioso, ha sviluppato una linea di pensiero incentrata sui valori della comunicazione umana anche via internet e il suo sito (gandalf.it) è un luogo franco per chi è alla ricerca di una boccata d’aria nuova, oltre il lessico “ready made” della tele-comunicazione.

Con la laurea in filosofia in tasca, il suo primo lavoro a tempo pieno inizia nel 1952, quando entra come copywriter e poi diventa direttore creativo (parola che ancora oggi gli fa venire l’orticaria: «Ho sempre preferito l’espressione “writer”. La qualifica ex divinis di “creativo” così di moda, non mi è mai andata giù») nell’agenzia CPV (sede italiana della Colman, Prentis and Varley) che alcuni anni dopo sarebbe diventata la più grande agenzia in Italia.

Nel 1966 diventa consigliere delegato e poi presidente della McCann-Erickson italiana, che in cinque anni porta al primo posto nel nostro paese. Dal 1975 è executive vice-president della McCann-Erickson International a New York. Cinque anni dopo rientra in Italia come socio di maggioranza della Livraghi, Ogilvy & Mather. Elencare i clienti con i quali ha condiviso il successo, vorrebbe dire saccheggiare le classifiche annuali della rivista Forbes.

Dal 1993 lascia il mondo delle agenzie di pubblicità per interessarsi alla comunicazione in rete. Per Livraghi “l’internet” (scritto con l’articolo davanti, come la radio e la televisione) rappresenta la nuova frontiera della comunicazione.

Pubblica centinaia di studi sul marketing, la cultura dell’internet e le attività d’impresa online. Scrive insieme a Luis Bassat Il nuovo libro della pubblicità (Il Sole 24 Ore 1997 – terza edizione 2005) più che la Bibbia, una specie di Nuovo Testamento per chi fa questo mestiere. Nel 2007 con Riccardo Puglisi cura l’edizione italiana del bestseller di Darrell Huff How to Lie with Statistics pubblicata, a distanza di cinquant’anni, da Monti&Ambrosini.

Secondo Livraghi – oggi come in ogni prevedibile futuro – «imitare è molto più facile che pensare. Ma l’ignoranza piace, la moda seduce e l’obbedienza è comoda».

Un consiglio che vale per tutti: «In un mondo di pinocchi – in cui volano facilmente i martelli – è meglio non fare la fine del grillo parlante».




Si parla tanto di Business intelligence e di modelli di forecasting, ma che cosa è lecito chiedere ai numeri?

Prima di “chiedere ai numeri” è meglio avere molti dubbi. Ci sono scienze, come la matematica e la fisica, dove i numeri hanno significato “in sé”, anche quando non si sa che cosa “rappresentano”. Ma, in ogni altro caso, per capire i numeri occorre sapere di che cosa si tratta. E anche quando si ha un’idea precisa di quale sia “la cosa” che si cerca di “misurare” accade troppo spesso che non sia chiaro il significato dei dati, né il criterio di interpretazione. I risultati possono essere comici, ma purtroppo sono anche disastrosi.

Gli strumenti – compresi quelli informatici – non sono “intelligenti”. Funzionano quando svolgono correttamente un compito preciso, con un metodo coerente e con la tecnologia più semplice possibile fra quelle adatte allo scopo.

“Fidarsi” dei dati, o delle loro elaborazioni, senza una conoscenza concreta e chiara del loro significato, è un modo per commettere grossolani errori che sarebbero spesso evitabili con un po’ di buon senso. Comunque è sempre uno sbaglio – purtroppo diffuso – “delegare” alle tecnologie e agli automatismi funzioni e decisioni che hanno bisogno di controllo umano.


A distanza di cinquant’anni dalla prima pubblicazione, che cosa può insegnare il libro di Huff agli amministratori delegati, direttori marketing, Cio e Cfo delle imprese Ict?

Il libro di Huff può insegnare molto a ogni livello di responsabilità. E per chi si occupa di tecnologie dell’informazione, c’è un problema in più da considerare: la definizione dei metodi prima ancora che delle tecnologie per ottenere informazioni significative nel modo più semplice, comprensibile e trasparente. Il più piccolo e banale errore nella definizione o interpretazione di un dato può diventare una fabbrica di inestricabili complicazioni quando passa attraverso un processo di elaborazione che ne moltiplica e nasconde le conseguenze.


Come ci si difende dai numeri e che cosa direbbe a quei giornalisti che fanno “copia e incolla” dei dati forniti dalle aziende?

Sono anch’io, a modo mio, un “giornalista”. Anche se da molti anni non sono più iscritto all’albo – e ne vorrei l’abolizione – non ho mai smesso di scrivere. Mi limito a constatare, quando è necessario, che alcuni fanno male il loro mestiere. Specialmente quando si tratta dell’internet.

Ci vuole una sana dose di diffidenza. Non è mai bene “credere ai numeri” senza avere qualche dubbio sul loro significato. Quanto ai giornalisti, non si tratta solo delle frequenti “copiature” da fonti di dubbia attendibilità. Circola un’enorme quantità di dati e di illazioni pubblicate e ripetute senza la minima verifica. Interpretare correttamente un dato – e verificarne l’origine – non è sempre facile. Ma spesso basterebbe un minimo di attenzione per capire che molti numeri sono devianti, quando non sono completamente insensati. Per fortuna c’è ancora chi si scomoda dalla scrivania per raccontare fatti e storie.


L’ultima campagna elettorale ha messo a dura prova il sistema nervoso degli italiani con statistiche, previsioni e tanta “intelligence” nei sondaggi. Chi l’ha sparata più grossa e che fine ha fatto il celebre “pollo” di Trilussa“?

La campagna elettorale in Italia è finita – e con essa la solita bagarre di sondaggi. Ma continua – su ogni sorta di argomenti – la sarabanda di numeri talvolta significativi, più spesso confusi o male interpretati. Secondo Des McHale «l’essere umano medio ha una mammella e un testicolo». Non possiamo fare a meno di sorridere di fronte a questa affermazione, eppure, secondo la statistica, è la verità. E non perché la statistica sia una scienza indegna di questo nome, bensì perché i suoi risultati si prestano a essere distorti e manipolati.

L’apologo di Trilussa – proverbiale da più di mezzo secolo – riflette un problema serio sul significato delle “medie”. La sostanza si riassume in un’osservazione di Aldous Huxley: «Nella vita reale non c’è alcun uomo medio».


Come uomo di comunicazione, qual è il suo giudizio sul modo di fare comunicazione delle imprese Ict in Italia?

Il problema va inquadrato in una situazione generale. La comunicazione d’impresa è in preoccupante decadenza da più di vent’anni (per una sintesi si veda “La riscoperta della comunicazione” – ndr).

La crisi è profonda a livello mondiale, con qualche deformazione in più in Italia. Le imprese in settori “tradizionali” – come il “largo consumo” – stanno cominciando a capire che è necessario ritrovare le radici di una comunicazione meno superficiale e più efficace.

Nel settore Ict è sempre mancata una percezione consapevole del rapporto fra l’offerta di prodotti (tecnologie e servizi) e le esigenze reali di persone e imprese. Purtroppo sembrano ancora scarse le possibilità di uscire da questo cronico marasma.


La stupidità è al potere?

La risposta è nell’evidenza dei fatti. E il problema è aggravato da due cronici errori. Il potere crede di essere intelligente “perché” ha potere (mentre spesso è vero il contrario: come diceva Friedrich Nietsche: «Si paga caro l’acquisto del potere; il potere istupidisce»). Chi non è al potere si illude che il potere abbia capacità e saggezza che spesso non ha – oppure “scarica” sul potere responsabilità che non sono solo di “chi comanda”, ma di tutti noi in ogni forma di relazione umana e di collaborazione civile.


All’argomento ha dedicato un libro «Il potere della stupidità» (stupidita.it).
Che cosa è il potere per lei?

Non lo amo, non lo desidero. Ne diffido e non mi piace subirlo. Ho un sincero rispetto per chi svolge bene il suo compito in posizioni di responsabilità, ma un inguaribile disprezzo per i troppi che lo fanno male e per la loro insopportabile arroganza.


Lei si sente un uomo di potere?

Per quanto mi riguarda, ho sempre evitato di agire e comportarmi in modo gerarchico, ho fatto e faccio tutto il possibile per ascoltare, capire, incoraggiare il dialogo, la collaborazione, il consenso. Quando ci sono riuscito i risultati sono stati non solo concretamente positivi, ma anche umanamente gradevoli.


Si parla di innovazione. C’è innovazione anche nelle relazioni umane?

La situazione è molto confusa. Ci sono reali possibilità di miglioramento, ma anche evidenti e preoccupanti situazioni di regresso.

L’importante è fare tutto il possibile per diffondere capacità critica, voglia di capire, desiderio di imparare. Occorre infrangere l’imperante monotonia di una cultura centralizzata, “autoreferenziale”, balordamente “omogeneizzata” e disperatamente ripetitiva. I “nuovi mezzi” di comunicazione – in particolare l’internet – sono una risorsa importante, ma trent’anni sono pochi per una vera evoluzione culturale.


Qual è il suo concetto di innovazione?

Le innovazioni possono essere utili e importanti se capite, verificate e applicate nel giusto quadro di riferimento. Ma inseguire il “nuovo” purchessia – comprese cose vecchie superficialmente imbellettate – può creare molti più problemi di quanti ha la pretesa di risolvere. Per progredire occorre un’intelligente convergenza di ciò che l’esplorazione scientifica e tecnica ci può offrire e ciò che abbiamo imparato in migliaia di anni di esperienza.


A chi sente di dovere qualcosa?

A così tanti che citarne uno o pochi sarebbe un’ingiustizia. Se risalgo all’infanzia, la mia fortuna è stata vivere in una casa in cui c’era una grande abbondanza di libri. Ho capito presto il piacere della lettura e l’abitudine mi è rimasta per tutta la vita. Ma si impara da tutto e da tutti, non solo dai libri.


La citazione preferita?

Socrate: «Più so, più so di non sapere».


Da bambino, cosa sognava di diventare?

Spesso cambiavo idea. Sono sempre stato curioso di un po’ di tutto. Se avessi mille vite farei mille mestieri. C’è una cosa che mi è sempre piaciuta: scrivere. Ma è necessario essere incontentabili, mai soddisfatti di ciò che si è fatto o scritto, sempre alla ricerca di un miglioramento.


Da “creativo” – mi perdoni – da “writer” come si definirebbe?

Uno che cerca di capire e di farsi capire.


L’insegnamento che non ha mai dimenticato?

Il più importante è quello che imparerò domani.





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