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Giancarlo Livraghi gian@gandalf.it
marzo 2003




Questo secondo studio del Censis, come il primo che uscì nel 2001, mette a fuoco un tema di grande rilievo per la cultura e la società civile: la ricchezza o povertà di informazione e di comunicazione. In Italia, come in tutto il mondo, la “ricchezza” non è misurabile solo in termini economici. Se non è tollerabile che gran parte dell’umanità sia priva dei mezzi fondamentali di sostentamento, o di un’adeguata cura della salute, non è meno grave la mancanza di informazione, di libertà di opinione e di comunicazione.

Il problema è di enorme importanza su scala mondiale. Ma ci sono differenze rilevanti anche all’interno di ogni nazione – come vediamo con chiara evidenza nel caso dell’Italia. C’è chi soffre di scarsità di informazione e di comunicazione – e chi ne ha troppa. I due fenomeni non sono separati, ma si mescolano e si fondono in un quadro complesso.



Il paradosso dell’abbondanza

La quantità di “informazione” disponibile è enorme – e continuamente crescente. La mitica “biblioteca di Alessandria” avrebbe oggi dimensioni ingestibili. Ci avviciniamo continuamente a quel paradosso dell’infinito che Borges definì “biblioteca di Babele”. Contemporaneamente continuano a crescere le risorse di comunicazione personale. Il fenomeno della “congestione informativa” è noto e studiato da almeno un secolo, ma ha assunto dimensioni che superano le previsioni più azzardate.

Anche i “meno abbienti” di informazione hanno più fonti disponibili di quante ne possano gestire. Le persone e le famiglie che usano abitualmente una gamma più vasta di strumenti sono indubbiamente avvantaggiate, ma al tempo stesso sommerse in una sovrabbondanza di risorse che produce una congestione comunque pesante e talvolta ossessiva.

All’abbondanza di strumenti si unisce una sostanziale povertà di contenuti. C’è una concentrazione – che non è del tutto “globale”, ma domina quella parte del mondo in cui viviamo. La “gerarchia” delle informazioni è sempre più centralizzata. In parte per una precisa volontà di predominio, ma largamente anche per la passività del sistema, che tende sempre più a essere ripetitivo e omogeneo. Notizie, informazioni, commenti, opinioni tendono ad aggregarsi intorno a un unico modello – di linguaggio, di cultura e di contenuti.

Un quotidiano ha più di cinquanta pagine. Si è calcolato che per leggerle tutte ci vorrebbero otto ore. Un settimanale ne ha più di duecento. E questa è solo una piccola parte della “mole” di informazioni a disposizione di tutti. Ma in questa apparente abbondanza c’è una intrinseca scarsità. La maggior parte di quelle pagine si concentra su pochi argomenti, che “qualcuno” ha più o meno arbitrariamente deciso di considerare i più rilevanti. E (come vedremo più avanti) la “scala di priorità” dei temi trattati dalla stampa (e perfino quella dell’editoria libraria) è spesso determinata dalle scelte della televisione.

Si pone quindi per tutti (i “meno abbienti” come i “più abbienti” di informazione) un duplice problema. Da un lato, come destreggiarsi nella sovrabbondanza di materiale disponibile. Dall’altro, come andare oltre la superficie per cogliere informazioni, notizie e scambi personali meno generici e più significativi.

In termini storici e di evoluzione culturale (con tempi che si misurano in decenni o generazioni, non in mesi o anni) questo è un problema nuovo, che non abbiamo ancora imparato a capire e gestire. E tende a complicarsi continuamente perché l’evoluzione dei sistemi e degli strumenti è molto più veloce della capacità umana di governarli.

Nessuna persona vivente oggi in Italia è capace di immaginare un mondo senza televisione. Anche chi era già adulto quando la televisione non c’era ha qualche difficoltà a capacitarsi di quale fosse la sua esperienza di quei tempi ormai remoti. La televisione esiste da mezzo secolo. Un tempo molto lungo nella vita di ogni singola persona. Ma estremamente breve nella storia della cultura umana. Sono pochi, in questa prospettiva, anche i cent’anni trascorsi dalla nascita della “telegrafia senza fili” e gli ottanta dalla nascita della radio, cioè dei primi sistemi di broadcasting.

Cinquant’anni fa l’Italia non era solo un paese povero dal punto di vista economico, ma anche povero di informazione e di comunicazione. C’era un livello elevato di analfabetismo (o comunque di scarsa capacità di lettura). Libri, giornali e telefono erano il privilegio di pochi. La situazione è profondamente cambiata, anche se rimangono quelle diversità che il rapporto del Censis aiuta a definire e approfondire.

Il problema non è ancora del tutto risolto. La propensione alla lettura in Italia è molto più bassa che in altri paesi di paragonabile sviluppo economico e culturale. Secondo un’indagine dell’Ocse il 65 % degli italiani ha “competenze alfabetiche molto modeste“ o “al limite dell’analfabetismo“. Vedi anche le osservazioni sui libri nella quarta parte di questa analisi e i confronti internazionali nell’appendice

Un aspetto curioso di questo studio è che accomuna cose apparentemente diverse. Alcune sono nella categoria dei cosiddetti mass media – come la stampa, la radio, la televisione. Altre sono strumenti di comunicazione personale, come il telefono. Altri ancora, come il computer e l’internet, sono sistemi che comprendono una gamma estesa di attività diverse.

Questa intenzionale “commistione” è molto interessante, perché aiuta a definire il quadro complesso delle risorse e perché riflette una realtà in evoluzione. Il mondo dei sistemi di comunicazione è un magma turbolento in cui ci sono state, e potranno ancora esserci, sviluppi inaspettati – e i cui i ruoli si mescolano con conseguenze in gran parte imprevedibili. Per capire l’evoluzione in corso occorre, come fa questo studio, porre al centro dell’analisi i veri protagonisti: le persone, le famiglie, le comunità umane.

Allargare la gamma delle risorse è utile, se non necessario. Ma la “congestione informativa” costringe a scegliere. Non solo quali strumenti usare, ma anche come. Quasi senza accorgersene, persone e famiglie di fatto stabiliscono una scala di priorità. Spesso in modo un po’ troppo passivo – determinato dall’abitudine e dall’imitazione.

La crescente molteplicità di strumenti non crea solo una congestione – con conseguenti “crisi di rigetto”, già visibili in alcune situazioni. Pone anche a ciascuno la responsabilità delle scelte. A ognuno per il proprio “consumo” personale. E a chi ha la responsabilità di altri (genitori, educatori, “fornitori” di informazione) per il modo in cui orientano il comportamento dei loro “discepoli”.



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