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I vecchi, l’informazione
e la comunicazione



Uscire dagli schemi

Una visione omogenea, appiattita e monotona, della vecchiaia è uno degli aspetti deprimenti del problema. Vediamo da questi dati che, per ognuno dei parametri, ci sono percentuali di vecchi in situazioni diverse da quelle prevalenti. Per esempio fra le persone dai 65 anni in su in Italia il 48 % ascolta la radio, il 48 % legge settimanali, il 45 % usa un telefono cellulare, il 44 % legge i quotidiani, il 32 % legge libri, il 22 % ha la televisione satellitare, eccetera. Solo nel caso dell’internet si scende a un desolante due per cento.

L’analisi degli usi “frequenti” dimostra che la presenza di vecchi con un’attività culturale notevolmente superiore alla media può variare, secondo il caso, dal 15 al 25 per cento. Gli italiani dai 65 anni in su sono oltre dieci milioni – e il numero tende a crescere. Fra loro ci sono due o tre milioni di persone con risorse di comunicazione e di informazione tutt’altro che depresse.

Naturalmente sarebbe stupido, oltre che ingiusto, pensare a una separazione “elitistica” che assegni un ruolo attivo ai più evoluti isolando gli altri in un ghetto ancora più deprimente di privazione culturale ed esistenziale. Ma si tratta di capire che l’approfondimento delle diversità può portare alla scoperta di infinite capacità e competenze.

Nelle culture tradizionali, fin dalle lontane origini della nostra specie, i (pochi) vecchi avevano un ruolo preciso. Che non era solo la conservazione e la trasmissione di conoscenze (tradizioni, costumi, riti, usanze, identità culturale – nonché metodi pratici e tecnologie) ma anche la capacità di svolgere compiti precisi. Oggi non solo sono più numerosi, ma sembrano anche inutili: sempre più esclusi dalla partecipazione attiva alla vita sociale, economica e culturale.

Ritornare all’antico, così com’era, non è possibile – e neppure desiderabile. Ma se non vogliamo che l’invecchiamento della popolazione diventi un problema sempre più deprimente e meno gestibile (non solo per i vecchi, ma per tutta la società) dobbiamo trovare molteplici modi per favorire una partecipazione più attiva e meno umiliante, in tutti gli aspetti della vita sociale, di chi ha superato un ipotetico “limite di età”.

È improbabile, quanto inefficace, cercare soluzioni omogenee erga omnes. Occorre esplorare un’estesa varietà di modi e di occasioni, che tenga conto dell’infinita varietà di situazioni e competenze personali. Il filo conduttore dovrebbe essere un atteggiamento che si allontani il più possibile dalle banalità convenzionali, dai pietismi ipocriti, dagli schemi burocratici. Il concetto fondamentale è semplice: considerare le persone come un valore e una risorsa, non come un peso o un problema. Esclusi i casi drammatici di estrema menomazione (che possono esistere a ogni livello di età) occorre applicare ai vecchi lo stesso criterio che si è adottato (almeno in teoria) per chi ha una limitazione fisica che non può e non deve essere un pretesto di emarginazione.



La finzione non è un valore

È vero (per fortuna) che una migliore cura della salute non porta solo un prolungamento della vita, ma anche un meno distruttivo invecchiamento. Molte persone si trovano in condizioni migliori dei loro antenati alla stessa età. Ma ciò non giustifica la diffusa tendenza a mascherare la vecchiaia, a travestirsi da giovani, a imitare tendenze e mode superficiali ed effimere. Ogni condizione umana ha tanto più valore quanto meglio esprime la sua essenza, invece di spegnersi e annullarsi in un’artificiosa omogeneità.

La retorica della finta giovinezza convive e coincide con il suo contrario: il disprezzo per i vecchi, considerati sgradevoli, arretrati, “rimbambiti” e inutili. Sono due facce della stessa stupida medaglia. L’una e l’altra devono essere tolte di mezzo per lasciare spazio a una comprensione più umana, meno banale e reciprocamente più viva. Perché se è vero che la società in generale deve capire meglio la situazione e le capacità di chi non è più giovane, anche i vecchi devono essere incoraggiati a uscire dall’isolamento, a sentirsi meno estranei e lontani dalla mentalità e dai comportamenti delle nuove generazioni.



Un “pensionato”
non è un peso morto

Conosco persone che “andate in pensione”, o comunque abbandonata la loro abituale attività, si sono spente. Intelligenze brillanti, attive, impegnate che si riducono a una deprimente passività. Altre, invece, che trovano nuovi interessi, sviluppano attività ed esperienze per cui non avevano trovato il tempo negli anni trascorsi, insomma si riscoprono e si ripropongono in nuove prospettive. Con una vivacità spesso superiore a quella di tanti giovani che non sanno uscire dai limiti convenzionali dell’abitudine.

Il problema dei pensionati è percepito soprattutto come peso economico. Dev’essere, ovviamente, risolto in quei termini, se non vogliamo che i giovani di oggi siano privati della pensione quando diventeranno vecchi. Ma è importante capirlo anche in una prospettiva umana, culturale e sociale. Perché così migliora la “qualità della vita” per tutti – e anche da un punto di vista meramente economico una vecchiaia più attiva può contribuire a un migliore equilibrio delle risorse e dei costi.



Vecchiaia fisica e mentale

È noto che il cervello, come un muscolo, si atrofizza se è poco usato. Essere mentalmente (oltre che fisicamente) attivi è un modo per stare meglio a tutte le età – e per attenuare i problemi della vecchiaia.

L’antico detto mens sana in corpore sano può essere letto anche in senso contrario. Una mente attiva può evitare, o attenuare, alcune forme di malessere fisico. Aiuta a prevenire e curare i malanni. Naturalmente non può eliminare tutte le malattie, né gli inevitabili acciacchi della vecchiaia, ma può contribuire a diminuirne la frequenza e la gravità. Fare in modo che i vecchi siano più presenti e partecipi nella vita culturale e sociale non solo migliora le loro condizioni di vita (e quelle di tutto il resto della società) ma può anche ridurre, in misura non irrilevante, il peso sul sistema sanitario e assistenziale.



Un primato italiano:
disgrazia o valore?

In conclusione (e come già detto all’inizio) credo che sia necessario un cambiamento radicale di prospettiva. Considerare il numero crescente di vecchi non solo come un problema, ma anche come una risorsa.

Se l’Italia è il paese più vecchio del mondo (o sta per diventarlo) la soluzione peggiore immaginabile è piagnucolare sulla disgrazia. Dovremmo approfittare di questa nostra condizione per insegnare al mondo come si fa. Valorizzare il nostro capitale di esperienza, scoprire i mille modi per rendere i vecchi più attivi e partecipi (e intanto insegnare ai giovani come prepararsi per invecchiare meglio).

Non è facile – anche perché richiede l’eliminazione, se non il rovesciamento, di molti cliché e banalità culturali. Ma è meno difficile di quanto può sembrare. Sarebbe bello se il ventunesimo secolo fosse l’epoca di un nuovo rinascimento italiano. In cui ricordare che Michelangelo progettava straordinarie architetture quando aveva quasi novant’anni, che Tiziano dipingeva capolavori a novantasei anni, che Verdi compose il Falstaff a ottant’anni... eccetera. Con la maggiore longevità di oggi, quante risorse abbiamo fra i vecchi di cui non sappiamo capire il valore?



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