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I vecchi, l’informazione
e la comunicazione



I vecchi (come i giovani)
non sono tutti uguali

Nella complessa scienza della statistica, una cosa è matematicamente certa: il dato medio definisce l’inesistente. La persona, cosa o situazione “media” è quella che non esiste. Tutti i casi individuali sono (poco o tanto) diversi dalla media. Quando si tratta di oggetti o fenomeni semplici, una nozione generica e generalizzata può avere larga applicazione. Ma quando si tratta di categorie e comportamenti umani ogni “generalizzazione” è pericolosa e deviante.

Le definizioni generiche e banali di “giovane” o “comportamento giovanile” possono sembrare comode a chi non ha voglia di approfondire – o cerca denominatori comuni per una appiattita “cultura di massa”. Ma il fatto è che una persona di quindici anni è molto diversa da una di dieci o di venti. E che i comportamenti, gli atteggiamenti, gli interessi dei giovani sono (per fortuna) infinitamente diversi fra loro e quasi sempre lontani da un ipotetico modello standardizzato.

Questo è vero per ogni età – e per ogni altra, più o meno arbitraria, caratterizzazione o raggruppamento. Ma lo è ancora di più nel caso dei vecchi, per due motivi.

Uno è il patrimonio di esperienza. Chi ha vissuto più a lungo ha avuto più tempo per apprendere, verificare, formarsi. Anche se questa ricchezza di diverse capacità individuali è spesso attutita o nascosta dalle incrostazioni delle abitudini e delle convenzioni, almeno a livello “potenziale” la crescita e l’esperienza di vita permettono alle persone di avere una più rilevante individualità – purché sappiano riconoscere le proprie risorse e gli altri siano disposti a capirne il valore.

L’altro motivo è che capire i vecchi è difficile. Tutti siamo stati giovani. Per quanto diversi possano essere, o sembrare, gli atteggiamenti e i comportamenti di un giovane di oggi, possiamo ricordare come eravamo alla sua età – e cercare di “metterci nei suoi panni”. Ma nessuno conosce la vecchiaia prima di averne una diretta esperienza. Possiamo tentare di “immaginare” come ci sentiremo da vecchi. Ma non lo sappiamo. Questo è uno dei motivi per cui preferiamo allontanare l’argomento – o ingabbiarlo in qualche banale generalizzazione.



Un problema o una risorsa?

Se l’Italia è al primo posto nel mondo per vecchiaia dei suoi cittadini, abbiamo due alternative. Una è piangere sul nostro destino e cercare, per quanto possibile, di dare caritatevole “assistenza” a una massa crescente di persone inutili e deprimenti. L’altra, assai più interessante e utile, è cercare di diventare i più bravi al mondo nella soluzione del problema. Cercando di capire come possa essere, invece di una condanna, una risorsa.

Non ricordo chi fosse un brillante scrittore che, qualche decina di anni fa, commentava così la situazione: «quando ero ragazzo mi dicevano “stai zitto tu che sei piccolo”, ora mi dicono “stai zitto tu che sei vecchio”... ma allora io quando parlo?». Da un tradizionale (e forse eccessivo) rispetto per i vecchi siamo passati a un malcelato disprezzo o a una falsamente benevola sopportazione. Non si tratta di cercare una via di mezzo, né di ritornare al passato. Ma di fare un passo avanti per capire che cosa si può trovare di buono, di utile, di incoraggiante in questa nuova società con una percentuale sempre più alta di vecchi.

La risposta, ovviamente, è una sola: cercare di fare in modo che siano il meno possibile emarginati e che abbiano il più possibile un ruolo attivo. In teoria, è facile dirlo. In pratica, lo stiamo facendo poco e male. Su questo argomento tornerò alla fine. Ma prima è importante verificare qual è la situazione dei vecchi dal punto di vista di quei fattori cruciali che sono i mezzi e gli strumenti di informazione e di comunicazione.



Problemi di incomprensione

Il 38° Rapporto Annuale del Censis (2004) sulla situazione sociale in Italia analizza, fra i problemi di disagio, le “divaricazioni generazionali”. Rileva che «non si tratta di un ritorno alla conflittualità genitori-figli, tipica della fine degli anni ’60, con forti squilibri di natura ideologica». E neppure del «vecchio contrasto fra eccesso e devianza da un lato e abitudine e bisogno dall’altro, che soffocava giovani e anziani in mondi tendenzialmente privi di punti di incontro».

Oggi c’è un quadro diverso, un nuovo e crescente disagio. Alla domanda “da chi si sente più lontano” la differenza di età (generazione) è indicata dal 40 % delle persone intervistate (rispetto a 30 % “etnia” e 21 % “classe sociale”). Inoltre, mentre la percezione di differenza per “classe sociale” è notevolmente diminuita, quella per età è in aumento – e tende a concentrarsi fra i più giovani e i più vecchi. I dati sono quasi uguali ai due estremi della scala. Il 41 % delle persone fino a 24 anni, come di quelle dai 65 in su, nel 2000 diceva di sentirsi lontano dalle altre generazioni. In tutte e due le categorie l’indice, nel 2004, è salito al 49 %. (Nelle età fra i 25 e i 64 anni la percentuale è più bassa, ma anch’essa in aumento: dal 31% nel 2000 al 36 % nel 2004).

Si tratta di una tendenza che (osserva il Censis) è in corso da dieci anni – e si sta aggravando. Non è un intenzionale conflitto, né un dichiarato contrasto, ma è lontananza e incomprensione. E fra i fattori in gioco ci sono i mezzi di informazione e di comunicazione.






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