Il potere della stupidità
Kali

La stupidità delle traduzioni


Giancarlo Livraghi – luglio 2008


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Tradurre può sembrare un lavoro facile. Basta conoscere bene due lingue – e, all’occorrenza, saper usare un buon vocabolario. Ma la cosa non è così semplice. Non solo nel caso di libri, articoli, saggi, opere teatrali o cinematografiche, ma anche in infinite occasioni della vita di tutti i giorni, nel lavoro come nei rapporti personali.

Dovremmo aver tutti imparato a scuola. Anche chi non studia più il latino e il greco si trova (o così dicono i “programmi”) a imparare almeno un’altra lingua. A giudicare dall’enorme quantità di errori e ambiguità che si leggono e si ascoltano, pochi hanno appreso bene quella lezione. E non è raro il caso che a sbagliare siano gli insegnanti.

Tradurre non vuol dire semplicemente trasferire parole o frasi da una lingua a un’altra. Le traduzioni “letterali” non sono soltanto “brutte”, sono anche incomprensibili o devianti. Se dovessimo affidare a qualcuno l’incarico di tradurre dal russo all’italiano un trattato di biologia, sceglieremmo un biologo che sa un po’ di russo o una persona bilingue che non conosce la materia? Ovviamente la scelta giusta è la prima – e i buoni editori scientifici lo sanno. Ma in troppi casi i metodi sono molto meno sensati.

Una buona ed efficace traduzione non è un pedante trasferimento “letterale” di parole da una lingua a un’altra. È una “ricostruzione” di concetti, idee, situazioni e pensieri. Deve essere “fedele” alle intenzioni e allo stile dell’autore, non all’apparente traducibilità delle parole. (Questo è uno dei motivi per cui le traduzioni “automatiche” funzionano male e spesso danno risultati più comici che utili).

Ai tempi del liceo avevo buoni voti in latino. Perché avevo studiato meticolosamente grammatica e sintassi? No. Il motivo è che leggevo con interesse gli autori, “assorbivo” il loro stile, spesso capivo (e scrivevo) meglio “a orecchio” di quanto avrei potuto fare applicando meticolosamente le “regole”.

Con il greco la cosa assumeva aspetti bizzarri. In tutte le lingue ci sono varianti di stile e di significato, ma il greco in epoca “classica” non era una sola lingua. Autori di polis o di epoche diverse usavano parole uguali (o apparentemente simili) con una grande varietà di significati.

Qualche volta mi divertivo, con i miei compagni di scuola, a produrre traduzioni fasulle, dal greco all’italiano, scegliendo apposta nel vocabolario significati inadatti al contesto – con risultati di sconcertante comicità. Ma non è solo uno scherzo. Ci sono dotte e complicate differenze di opinioni sull’interpretazione di molti testi antichi. Da esegesi moderne risulta che alcuni concetti “classici”, citati e ripetuti nei secoli fino a diventare proverbiali, sono l’errore di un antico traduttore o il lapsus calami di un distratto copista.

Ero un ragazzino quando, un giorno, mi chiesi come si potesse raccontare che qualcuno aveva trovato una grande nave in cima a una montagna. Non si trattava di una nave spaziale venuta da un remoto pianeta, né dell’arca di Noè, né dei resti di uno scafo antico sollevati da un movimento tettonico.

Stavo leggendo, in italiano, in qualche vecchio libro o non ricordo quale rivista, una delle avventure di Tartarino di Tarascona, il goffo personaggio di Alphonse Daudet. L’improvvisato alpinista si arrampica senza sapere che, dall’altro lato della montagna, c’è una strada – e, in cima, un albergo. Tartarino, alla fine della scalata, si stupisce vedendo lassù un grande bâtiment. Che in francese vuol dire “edificio”. Ma qualcuno aveva tradotto “bastimento”.

Quel caso era solo ridicolo. Ma da allora ho imparato una cosa, che ho poi constatato molte altre volte: non sempre ci si può fidare delle traduzioni. Oggi, pensiamo, l’editoria e le redazioni sono più serie. Ma siamo sicuri? Con un po’ di attenzione ci si accorge che errori non meno bizzarri continuano a ripetersi.

L’elenco degli esempi, anche recenti, potrebbe essere interminabile. Talvolta gli errori sono così ovvi e comici che basta ridere e tirare avanti. Ma possono essere molto più insidiosi. Alcuni anni fa (nel 2002) avevo cominciato a raccogliere, quasi per scherzo, esempi di ambiguità ed errori di traduzione, dall’inglese all’italiano. Un po’ per volta quell’antologia ha assunto le dimensioni di un libro – che, almeno per ora, non è un’edizione distribuita nelle librerie. Ma il testo è disponibile online.

Naturalmente si potrebbe fare la stessa cosa anche per altre lingue. Perché l’inglese? Il motivo è ovvio. Non è solo una “lingua straniera”, è la lingua internazionale. E si mescola continuamente con l’italiano (come con quasi tutte le lingue del mondo) in modi talvolta utili e appropriati, ma troppo spesso confusi, pretestuosi e devianti.
 

Quell’elenco, probabilmente, continuerà a crescere. Ma non potrà mai essere più di una piccola antologia. Una raccolta “completa” sarebbe un’impresa infinita e avrebbe le stancanti dimensioni di un’enciclopedia.

Non ho mai avuto l’intenzione di produrre un vocabolario. Ma trecentottanta esempi, oltre a essere una lettura spesso divertente, possono aiutare a capire quanto siano diffuse le ambiguità – e come imparare a riconoscerle. Ho già raccolto abbastanza nuovo materiale per arrivare a oltre quattrocento. Ma, più che allungare l’elenco degli errori, ciò che serve è scegliere i più significativi, cioè quelli che aiutano a capire come nascono le ambiguità e le incomprensioni – comprese quelle che oggi non sono immaginabili, ma imprevedibilmente nasceranno domani.

Naturalmente non si tratta solo di libri e giornali. Anche alla radio e in televisione accade di tutto. Notizie, commenti, interpretazioni basate su qualcosa che si è capito male – non solo in altre lingue, ma anche a causa di modi diversi di esprimersi in italiano. Il fatto sconcertante non è che questi errori accadano, ma che così spesso nessuno si fermi a pensare se ciò che crede di aver capito sia plausibile.

Nel cinema è grottesco constatare come bravi attori si impegnino nel doppiaggio recitando testi che, ogni tanto, sono privi di senso. (E cose del genere accadono anche a teatro). Non sto scherzando se dico che ho sentito board of directors (consiglio di amministrazione) tradotto “mensa dei dirigenti”. O il pilota di un aeroplano che sta precipitando in una foresta gridare disperatamente alla radio “primo maggio” (mayday è notoriamente una richiesta di soccorso, in circostanze molto gravi, nel codice internazionale di navigazione, marina e aerea – viene dal francese m’aider).

Come dicevo all’inizio, cose del genere accadono spesso anche nel lavoro o nella vita personale. Con conseguenze che possono variare da un piccolo imbarazzo a conseguenze più o meno disastrose.

È, a modo suo, un errore di traduzione il caso (vero) di una sonda interplanetaria che si è persa nello spazio intergalattico perché qualcuno aveva dimenticato di trasformare misure in piedi e pollici in dati del sistema metrico decimale – che sono la regola nel “linguaggio” scientifico. O quello di un robot che si rende irreperibile, in un bel racconto di Isaac Asimov, perché un istruttore umano ha usato distrattamente una “espressione idiomatica” che nella lingua della macchina diventa l’ordine di sparire.

Insomma non si tratta solo di traduzioni. Sono infinite le possibilità di errore o di incomprensione non solo quando si passa da una lingua a un’altra, ma anche per ogni sorta di differenze del modo di esprimersi e di percepire.

Capire le diversità non è solo un modo per risolvere, o almeno attenuare, questo problema. È anche una risorsa in sé, perché può arricchire le nostre capacità di comprensione. Non si tratta solo di correggere gli errori di prospettiva, ma anche di capire meglio osservando ogni cosa da diversi punti di vista.

Sviluppare l’intelligenza, cioè l’arte di intelligere, vuol dire anche saper imparare dagli errori, nostri e altrui. Comprese le tante ambiguità in ogni genere di “traduzioni”.





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