La legge di Parkinson
Cinquant’anni dopo

Giancarlo Livraghi – gennaio 2011
 

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(migliore come testo stampabile)


Queste osservazioni si trovano “in appendice”
alla nuova edizione italiana
del libro di Cyril Northcote Parkinson
 

Parkinson


Questo è un libro scomodo. Irrita i teorici per il suo stile poco “accademico”, dispiace agli agiografi per la sua irritante satira, è sgradito ai potenti e ai prepotenti perché dice troppe sgradevoli verità.

Era “importuno” anche cinquant’anni fa, ma ora è troppo facile “dimenticarlo”, con la scusa che è vecchio – o che, per alcuni aspetti, riguarda in particolare la situazione in un solo paese.

Invece è più che mai di attualità. Ed è uno di quei rari libri che hanno l’insolita capacità di approfondire argomenti complessi trattandoli con lucida semplicità – e con una notevole dose di umorismo. Cosa che lo rende ancora più antipatico a chi manca di quelle doti essenziali che sono l’autocritica e l’autoironia.

È vero che la prospettiva e lo stile dell’autore sono tipicamente inglesi. E che gli esempi si riferiscono a fatti di quei tempi. Ma la sostanza è valida comunque e dovunque. Con alcuni peggioramenti che neppure un energico critico come Cyril Northcote Parkinson poteva prevedere.

Era un libro fastidioso, irritante, sconcertante all’epoca della sua prima pubblicazione. Lo è ancora di più nella situazione di oggi.

Parkinson descriveva le disfunzioni provocate da un continuo – quanto inutile – allargamento delle strutture, con una crescente complicazione dei rapporti interni. E spiegava come un’organizzazione possa essere impegnata a tempo pieno a comunicare (spesso male) solo con se stessa, senza produrre alcuna attività significativa per il mondo esterno.

Oggi quei problemi rimangono, ma il quadro è ancora più complesso. In un’epoca in cui le riduzioni di personale sono un frequente strumento per far crescere i profitti di breve periodo (e le imperversanti fusioni, acquisizioni o concentrazioni si traducono, quasi sempre, in “tagli” di struttura) accade anche il contrario: cioè che le dimensioni delle organizzazioni si riducano per motivi non funzionali – e troppo spesso senza correggere il sovraccarico di apparati inutili e ingombranti.

Questa bizzarra mescolanza di bulimia e anoressia è uno dei malanni più gravi che oggi affliggono le organizzazioni (pubbliche o private) e specialmente le più grandi.

Il fatto fondamentale è che un’organizzazione, come se fosse un organismo vivente, tende a crescere e a riprodurre se stessa. Con una possibilità di sopravvivenza che può essere di decenni, secoli o millenni.

Ma, se la vita ha un valore in quanto tale, non è così per le imprese (o altre organizzazioni pubbliche o private) che meritano di esistere solo se hanno un ruolo utile ad altri – e alla società in generale. Questa è una costante in tutte le aggregazioni umane, indipendentemente dal fatto che siano motivate al profitto o basate su altre premesse, come ruoli istituzionali, sociali, politici o di pubblico servizio.

Fra le osservazioni di Parkinson c’è il fatto che il grado di attenzione dedicato a un problema dai vertici di un’;impresa è inversamente proporzionale alla sua reale importanza. (Nel caso della politica – e delle strutture pubbliche – è ancora peggio). Può non essere una regola fissa, ma per chi sa come funzionano davvero le organizzazioni è facile constatare che questo è un fenomeno molto frequente. Con conseguenze che sarebbero comiche se non fossero disastrose.

Una disfunzione che si combina spesso con The Law of Triviality (“legge delle minuzie” – capitolo 6) è definita da Parkinson in un altro suo libro, The Law of Delay (1970) cioè la “legge del rinvio”. Quando c’è un problema serio, urgente, impegnativo e complesso si evita di affrontarlo, delegandolo a qualcun altro oppure chiedendo ulteriori approfondimenti, fino a quando diventa irrimediabile. Di questa sindrome si potrebbero citare molti vistosi esempi, nella storia di tutti i tempi come nelle cronache quotidiane dei nostri giorni.

Nel clima di fretta esasperata in cui ci troviamo oggi sembra che questo problema non esista, ma la verità è che continua – e si sta aggravando. (Vedi La stupidità e la fretta capitolo 16 di Il potere della stupidità).

L’urgenza immaginaria e immotivata porta spesso a trascurare tutto ciò che non sembra avere una soluzione immediatamente disponibile. La conseguenza è che si commettono contemporaneamente due errori: si decide affrettatamente su cose che meriterebbero un maggiore approfondimento, mentre si rimandano decisioni che sarebbe stato meglio prendere al momento giusto.

Il marasma risultante produce maggiore fretta, insieme a una congerie di problemi che sarebbero stati evitabili se affrontati in tempo. Così si perpetua e si moltiplica di continuo un circolo vizioso praticamente ingestibile.

Non è difficile constatare fenomeni come questi in situazioni che hanno prodotto risultati fallimentari. Ma il fatto è che una profonda degenerazione dei sistemi decisionali affligge anche molte organizzazioni che sembrano ancora sopravvivere – fino a quando chi non ha notato quanto le termiti della malagestione ne abbiano logorato le strutture si meraviglierà, troppo tardi, del loro improvviso collasso.

Una sindrome non meno pericolosa è quella definita da Parkinson in un altro dei suoi libri, The Law and the Profits (1960). Afferma che «expenditure grows to meet income». Ma la sua Law of Profit è un po’ troppo mite. È ampiamente constatato che può essere peggio: ci sono casi vistosi in cui la spesa non cresce solo fino a “raggiungere” le entrate, ma le supera abbondantemente. E troppo spesso anche questo fenomeno non solo è trascurato, ma addirittura applaudito e premiato, fino a quando precipita nell’inevitabile catastrofe.

Naturalmente non tutti i progetti che prevedono una “perdita iniziale” sono da considerare negativi. Al contrario, investimenti per nuovi sviluppi, i cui risultati si proiettano in anni futuri, sono l’impronta di imprese sane con una forte capacità di evoluzione. Ma, con il prevalere di prospettive frettolose e avventure speculative, troppo spesso perdite insensate e irrimediabili sono un pretesto per “fare un colpo in borsa”, lasciando poi il danno agli incauti (o mal consigliati) investitori.

Chissà che cosa scriverebbe Parkinson se vedesse la “crisi economica” da cui siamo travagliati in questi anni. Avrebbe potuto segnalare il pericolo, perché continuava a pubblicare libri anche negli “anni ottanta” del secolo scorso, quando il problema si stava già sviluppando – ma in quel periodo si occupava di altri argomenti.

Le diagnosi rimangono molto confuse (e le terapie ancora peggio). Il fatto evidente, ma trascurato da quasi tutti, è che questa “crisi” non è nata dai problemi – esistenti e gravi – dell’economia reale. La speculazione finanziaria è sempre esistita, anche prima che si cominciasse a “giocare in borsa”. Ma la particolare, e demenziale, forma che ha assunto oggi è cominciata poco meno di trent’anni fa.

I sintomi, già allora, erano chiari. I controlli erano diventati evanescenti, la speculazione selvaggia imperversava oltre ogni ragionevole prospettiva, il miraggio del “facile arricchimento” seduceva tanti e favoriva pochi. Nelle imprese i giochi a breve periodo della finanza prendevano duramente il sopravvento su ogni sviluppo di qualità o investimento strategico.

Le “bolle” si sono gonfiate e poi sgonfiate. Solo alcuni dei più sordidi imbrogli sono falliti, mentre molti hanno continuato a rubare soldi e raccogliere immeritati applausi.

Era facilmente prevedibile che quell’enorme castello di carte sarebbe caduto – e avrebbe travolto nel crollo gran parte dell’umanità. Ma si è voluto proseguire oltre ogni limite di buon senso, accelerando ciecamente verso il precipizio. E il gioco perverso continua.

Per uscire da questa catastrofe di idiozia (e per non ricaderci troppo facilmente) può aiutarci l’ironica saggezza delle “leggi di Parkinson”. Estirpare il contagio non è facile. Ma con un po’ di buon senso (e, per quanto possibile, anche di buonumore) è necessario – almeno – capire quanto sarebbe stupido continuare a ripetere gli stessi assurdi errori.


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Su questo argomento vedi anche
Le contraddizioni della “meritocrazia”



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