Italia mia, Settembre 1999 |
Giancarlo Livraghi gian@gandalf.it |
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Come ho già detto altre volte, non sono nazionalista. Sono per il libero scambio, per la molteplicità delle culture, per la scuola bilingue (italiano-inglese) a tutti i livelli. Il nostro inno nazionale è una schifezza musicale e letteraria; mi fa venire in mente una coorte di coatti in caccia di una povera ragazza da agguantare per i capelli, alla maniera dei pitecantropi. Ma quando si tratta della rete avrei voglia di poter canticchiare «Fratelli e sorelle, l'Italia s'è desta, a Tokio e a Brusselle faremo la festa». Vorrei vedere il giorno in cui da Hong Kong alle Piramidi, dal Mississippi al Reno, prodotti, servizi, idee dall'Italia saranno la nuova, festosa, coraggiosa, seducente infezione di buonumore e di qualità che contagerà il mondo con l'internet. Non sono anti-americano. Tutt'altro. Gli americani sono stati generosi: hanno offerto al mondo un sistema aperto, trasparente, "opensource", accessibile senza limiti né problemi. Sono stati anche intelligenti; perché una comunità libera e condivisa conviene a tutti, ma specialmente a chi l'ha inventata e ne ha il controllo culturale. Infatti il 70 per cento della rete "globale" è negli Stati Uniti e molto di ciò che succede altrove è controllato da interessi o idee americane. Ma il sistema è aperto: se non sappiamo organizzarci come si deve per affermare la nostra cultura e la nostra economia la colpa è solo nostra. Gli americani si meritano il successo che hanno. Se gli inglesi, i canadesi, gli olandesi, i finlandesi eccetera sono più avanti è solo perché sono più svegli. Ora tocca a noi... se non ci diamo una mossa, finiremo "colonizzati". Non sto scherzando. Leggo, per esempio, su Italia Oggi del 14 settembre che Massimo Bucci, presidente di Confindustria Emilia-Romagna, è preoccupato perché «in tre anni l'import è aumentato del 33%, l'export del 13%». Dice che «le nostre imprese perdono incisività» e «non riescono a intercettare la domanda interna». Mi sembra un discorso un po' miope, perché non basta recuperare la "domanda interna". Si tratta anche, o soprattutto, di sviluppare l'esportazione. E quando si tratta dell'internet... è molto peggio. Nessuno, purtroppo, ha fatto un'analisi seria del rapporto import-export in rete (che non è solo una questione di vendite online, per ora così piccole da essere irrilevanti, ma di idee, proposte, esperienza, attività, innovazione). Ma il "passivo" è evidente. L'Italia ha fra il 3 e il 4 per cento dell'economia mondiale, meno dell'1 per cento dell'internet. Nell'Unione Europea abbiamo il 15 % del PIL, il 19 % delle automobili, il 22 % dei telefoni cellulari... "nella migliore delle ipotesi" il 7 % della rete. Il 4 settembre il Corriere della Sera titolava a pagina intera «L'internet spiazza le imprese italiane». Con parecchi anni di ritardo, le mega-istituzioni economiche e politiche riunite a Cernobbio si sono accorte che le imprese italiane sono impreparate, confuse, esitanti nell'uso della rete. Pochi giorni dopo il governo prende atto della situazione e progetta interventi che probabilmente saranno sbagliati e inutili. Ma intanto, grazie al cielo, abbiamo finalmente capito di avere un grosso problema; e quindi c'è la speranza che si possa cominciare a risolverlo. L'uso della rete in Italia si sta, finalmente, diffondendo davvero. Se le nostre imprese continuano a cincischiare con siti web messi su "tanto per esserci" o con una spruzzata di banner per dire nei salotti "ci sono anch'io", la catastrofe è alle porte. La nostra crescente "utenza" sarà solo un pascolo per gli stranieri. Non possiamo impedirlo e non è sensato tentare di frenarli. L'unica difesa è l'attacco. Non solo "intercettare" il mercato interno con offerte intelligenti e utili, ma soprattutto andare alla conquista del mondo (il 99 % del mercato online è fuori dai nostri confini). È perfettamente possibile, non è molto difficile (se si parte con le strategie giuste) e, per il momento, non è "troppo tardi". Ma non sarò tranquillo se nel grande, fumoso schiamazzo intorno all'internet non sentirò parlare più spesso di esportazione. |
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