labirinto
Il filo di Arianna


settembre 2007

Giancarlo Livraghi – gian@gandalf.it


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Parole e immagini



Una sciocchezza, largamente diffusa, dice che “un’immagine vale mille parole”. Non è vero. O lo è solo in qualche caso, non molto frequente. L’importante è usare, per ogni forma di comunicazione, lo strumento più adatto. Talvolta poche parole possono valere più di mille immagini. Spesso un’efficace combinazione di testo e di comunicazione visiva funziona meglio di quanto l’uno o l’altra potrebbero fare da sole.

Può sembrare banale, ma non lo è. Accade troppo spesso che si affidi all’immagine un compito che sarebbe meglio spiegare in parole – o viceversa. O che la mescolanza sia distratta e abborracciata, con il risultato di confondere invece di chiarire.

Mi scuso per una parentesi personale, ma ho parecchia esperienza pratica. Credo di saper scrivere, ma non so disegnare. Però ho conosciuto molti pittori, scultori e architetti, ho studiato seriamente estetica e storia dell’arte, mi sono trovato mille volte a dover capire quali immagini, e come usate, funzionassero bene (o non) nella comunicazione. E, cosa non meno importante, come l’impaginazione possa influire su un testo – e viceversa. In generale, come concetti ed estetica, forma e contenuto, siano componenti inseparabili in un insieme percettivo. Che la si chiami o no Gestalt, questa è la base di ogni studio serio della comunicazione.
 

Il ruolo delle immagini e delle parole è fondamentale fin dalle origini dell’umanità.

È evidente che l’immagine disegnata è più antica della parola scritta (gli alfabeti erano ideografici prima di essere fonetici). Ma è meno chiaro se sia nato prima il linguaggio parlato o quello delle arti visive: pittura, scultura, architettura (anche una capanna di paglia, o l’arredamento di una caverna, è un’opera architettonica). Probabilmente lingua e arte sono nate, e si sono evolute, insieme. E insieme distinguono l’uomo dagli altri animali (è diverso il caso della musica, di cui parleremo più avanti).

Insomma, se l’uomo si riconosce negli scavi archeologici per la sua capacità di costruire “arnesi”, è vero anche che non esiste cultura umana senza l’uso combinato della parola e dell’arte. È altrettanto ampiamente dimostrato che homo faber e homo ludens sono due aspetti inseparabili della stessa evoluzione (le attività artistiche non sono mai state solo “ludiche” ed è sempre stato raro che oggetti funzionali non avessero anche un valore estetico).

Il concetto è semplice – e sostanzialmente invariato da decine di migliaia di anni. Ma applicarlo bene non è facile. Occorre studio, esperienza, attenzione, conoscenza approfondita di che cosa vuol dire comunicazione efficace. Un’arte difficile, sottile, impegnativa, su cui si ragionava seriamente tremila o cinquemila anni fa. E ancora più importante con gli strumenti di cui disponiamo oggi.

Si dice che siamo nell’era dell’immagine. Ma perdere o mortificare l’uso della parola ci ridurrebbe allo stato di “antropoidi” primitivi che sarebbero disprezzati da un Neanderthal. Molte espressioni che vanno di moda non sono più significative di un grugnito. Spesso il gergo di culture che si fingono “avanzate” non è altro che insulso manierismo – quando non è un modo per nascondere il fatto che qualcuno non sa di che cosa stia parlando.

Se ci mancassero le arti figurative il mondo sarebbe più squallido e più triste. Se ci togliessero ciò che vediamo in una fotografia o in un film l’informazione sarebbe più povera. Ma è molto raro che un’immagine, da sola, sia in grado di dirci ciò che ci serve sapere. Ha bisogno, come minimo, di una didascalia – e spesso di inserirsi in una spiegazione dei fatti o delle opinioni cui si riferisce.

L’immagine può anche essere distorcente. Perché influisce sull’interpretazione del testo cui si accompagna. Per intenzionale volontà di “influenzare” la percezione – o per banale errore, distrazione o superficialità.

Se ci mostrano una persona sorridente e felice, vuol dire che è contenta per il motivo di cui si sta parlando? O è una qualsiasi immagine “di repertorio” messa lì per caso o solo perché considerata “estetica”?

Se la crudele immagine di un tragico evento ci dà una più forte e immediata percezione della sua gravità, da sola che cosa significa? Stiamo vedendo un caso drammatico, ma isolato, di individuale sofferenza? O è un esempio di una tragedia di più grandi dimensioni?

Una gioiosa festa o una furiosa rabbia esprime i sentimenti di un intero popolo o di quattro gatti capitati nell’obiettivo di una macchina fotografica o di una cinepresa?

In generale – stiamo vedendo un’immagine “attinente” all’argomento o un pezzo di repertorio messo lì per riempire spazio?

Uno dei problemi dell’immagine (specialmente se è una fotografia o una ripresa filmata) è che tendiamo a percepirla come “vera”. Cioè uguale a ciò che vedremmo se fossimo lì a guardare con i nostri occhi. Non lo è mai. È sempre, in qualche modo, un’interpretazione – e una scelta fra infiniti possibili modi di cogliere o rappresentare la stessa cosa. È importante imparare a “interpretare” le immagini (come le parole) collocandole nel giusto contesto per capire qual è il loro reale significato.

Un’immagine “aggiunta” senza un preciso rilievo contestuale (come qualsiasi altra componente “estranea” all’argomento) può essere un “vampiro”. Cioè distrarci – e così “succhiare il sangue” di quello che dovrebbe essere il tema principale.

Insomma ogni strumento espressivo, di comunicazione o di informazione, deve essere usato secondo il suo ruolo e la sua funzionalità. Non solo per (spesso discutibili) valori “estetici” o (troppo diffusi) compiacimenti manieristici. E quando si combinano parola e immagine (e anche altre forme espressive) se le loro interazioni sono ben congegnate, con una efficace “regia”, l’insieme può essere molto efficace. Ma se ci sono distonie il risultato è confusivo, fastidioso, incomprensibile – anche quando non è intenzionalmente ingannevole.

E, naturalmente, oltre alla parola e all’immagine ci sono altri valori espressivi. La musica è la più antica, ha origini antecedenti allo sviluppo del genere umano. Non solo gli usignoli e i canarini, ma anche molti altri animali usano suoni modulati per ogni sorta di segnali, dalla seduzione all’allarme, dalla simpatia all’aggressività.

Se non è pensabile umanità senza parola e senza arti figurative, non è neppure concepibile senza musica – e senza poesia. Anche quando la poesia non è legata a precise metriche, è comunque una forma espressiva in cui il suono e il ritmo, l’armonia e l’emozione, contano quanto il significato delle parole. E non si può tracciare un confine netto e assoluto fra poesia e prosa. Si possono trattare in poesia argomenti “prosaici”, come ci possono essere in prosa valori “poetici”.

In un’opera di fantasia, come una poesia o un romanzo, l’invenzione è libera da ogni vincolo di “realtà”. Ma molte cose concrete possono essere, dichiaratamente o “per implicazione”, anche nella narrativa o nella poesia.

Un epigramma può essere un’arma acuminata. Ma quella stoccata ha senso e valore, merita di essere condivisa, o è solo lo sfogo di una privata antipatia?

Una musica può essere emozione, sentimento, piacere o sgomento, insomma “arte pura”. Ma può essere anche un inno – o una marcia militare.

Tutte le forme di espressione, la musica e la poesia, la parola e l’immagine, possono essere usate come valori soprattutto estetici. Ma anche per informare, per esprimere opinioni – e per influenzare le opinioni e i comportamenti. Le due cose spesso si mescolano e non è facile distinguerle.

Una “regola” del giornalismo (in generale dell’informazione) dice che i fatti devono essere separati dalle opinioni. Il concetto è chiaro, ma in pratica la confusione è costante.

È molto difficile definire un “fatto” senza essere influenzati dai propri orientamenti culturali – e spesso ciò che ci arriva come “fatto” è già deformato prima ancora che la “notizia” arrivi a chi ha il compito di riferirla e commentarla. È molto frequente che, per un motivo o per un altro, le informazioni siano intenzionalmente deformate. Ma anche il più onesto e “disinteressato” dei cronisti può sbagliare, per un malinteso di cui non si è accorto o per un pregiudizio che non sa di avere.

Insomma la “perfezione” è un ideale a cui tendere, ma non è mai del tutto realizzabile. Perciò chi scrive, se vuole farlo bene, deve essere sempre severamente autocritico. E chi legge, se vuole capire bene, deve essere capace non solo di “distinguere il grano dal loglio”, ma anche di cogliere i significati rilevanti che spesso non sono quelli in maggiore evidenza.

È difficile? Meno di quanto può sembrare. Con un po’ di esercizio, diventa quasi istintivo. Dobbiamo po’ diffidare di noi stessi. Chi crede di non sbagliare mai è un arrogante imbecille. Chi si accorge di sbagliare impara dai suoi errori e così può continuamente migliorare (e non deve dimenticare che è un processo senza fine, perché “non si finisce mai di imparare”). Dobbiamo anche percepire in modo critico tutto ciò che ci viene detto – o in qualsiasi modo comunicato. Vuol dire ciò che sembra, o qualcos’altro? Ci sembra credibile o ci lascia qualche dubbio?

Può sembrare faticoso, ma se lo impariamo bene diventa divertente. Un’esegesi approfondita, una verifica documentata, può richiedere parecchio lavoro. Ma la pratica del dubbio (necessità filosofica del conoscere e strumento indispensabile dello sviluppo scientifico) nella vita quotidiana di tutti noi può avere un ruolo molto più semplice e meno impegnativo. Basta non accettare mai “passivamente” alcuna informazione o affermazione. Possiamo sempre chiederci some si colloca rispetto a ciò che sapevamo (o che ci “sembra” di sapere). E tenere gli occhi aperti per cogliere il prossimo segnale che ci potrà dare una conferma oppure aumentare la nostra diffidenza.

Per ritornare al punto di partenza... che cosa accade quando si mescolano parola e immagine, poesia e musica, cronaca e recitazione? Quando sono in armonia possono migliorare la qualità della comunicazione. Ma spesso sono discordi e confusive. Perciò maggiore responsabilità deve avere chi le mette insieme, per evitare di truccare o di sbagliare. E maggiore attenzione deve avere chi vede, legge o ascolta, per evitare di confondere il condimento con la sostanza.

E c’è anche un altro problema: il principio di “autorità”. È sempre stato vero che l’informazione è uno strumento di potere. E che i potenti modificano la conoscenza, o inventano “verità” insensate, per assoggettare gli altri al loro potere. Ma i “potenti;” non sono solo quelli che più palesemente “comandano”. (Vedi La stupidità del potere).

Oggi quasi nessuno, nelle culture in cui viviamo, crede che chi comanda sia una divinità o un “illuminato” infallibile. Ma la “democratizzazione” dell’informazione ha creato una proliferazione di “testimonianze” prive di qualsiasi valore. Non solo il professor Taldeitali, docente di qualcosa in questa o quella università, non è necessariamente la fonte di ogni sapere (con una quantità spropositata e crescente di facoltà e cattedre è preoccupante il numero di persone che non sanno ciò che insegnano). Ma abbiamo anche una sconcertante proliferazione di “tuttologi” e “opinionisti” che pontificano su qualsiasi argomento. E non solo.

Il concetto di “immagine” ha assunto anche un altro, e perverso, significato. Una persona, se per qualsiasi motivo è “famosa”, è percepita come “immagine”. Un’identità immaginaria che può avere uno scarso rapporto con chi è realmente quella persona. Nulla vieta, naturalmente, che chi è noto per avvenenza fisica, o per prestazioni sportive, o per appartenenza al mondo dello spettacolo, abbia un’opinione su qualsiasi argomento – come ogni altro cittadino. Ma è assurdo che per “visibilità” la sua opinione debba avere maggior valore. Il “divismo” è una cosa, la cultura è un’altra.

C’è anche un problema di “protagonismo”. I personaggi della cultura-spettacolo vivono in un mondo a parte, faticano a capire com’è e come pensa il resto dell’umanità (vedi Il circolo vizioso della stupidità). E l’egocentrismo è contagioso. È diffusa anche fra le “persone normali” la tendenza a parlare di sé anche quando sembra che pensino agli altri, a considerarsi il centro dell’universo, in un infantile stato “egocosmico”. E accade un po’ troppo spesso di leggere libri o articoli, vedere spettacoli o programmi di cosiddetta “informazione”, viziati dallo stesso narcisismo.

Oggi abbiamo una quantità di informazione più grande di qualsiasi cosa che fosse immaginabile in tutta la precedente storia dell’umanità. Questa è, ovviamente, una risorsa. Ma non è e non può essere una garanzia di qualità. Non è un problema “nuovo”. L’informazione e la comunicazione erano in gran parte false (o almeno confuse, imprecise e “parziali”) anche quando erano “poche”. La differenza, oggi, sta nel fatto che abbiamo molte più possibilità di dubitare e controllare. Ma non abbiamo ancora imparato bene a usare questa risorsa.

Saper leggere, saper vedere, saper capire, è più importante che mai. Più sarà diffusa la capacità critica di chi legge, guarda o ascolta, meno spazio ci sarà per i giochini di chi, per malafede, ignoranza o superficialità, ci somministra cattiva informazione, arte scadente o una velenosa mescolanza delle due cose.

Dimentichiamo le chiacchiere, confuse e devianti, su un’ipotetica “era della comunicazione”. Non è del tutto vero. Non può esserci cultura o civiltà umana senza agricoltura (moriremmo di fame) e senza industria (arretreremmo a condizioni di vita che nessuno oggi saprebbe sopportare). E inoltre... se vogliamo autentico progresso dobbiamo riscoprire e sviluppare i valori dell’artigianato, perché è sempre più evidente che non tutto può essere “produzione di serie” (e le nuove tecnologie, inseme al patrimonio di antiche esperienze artigiane, ci offrono possibiltà molto interessanti).

L’informazione e l’informatica (che non sono la stessa cosa) hanno un ruolo importante, ma non è vero che “ciò che si dice” conti più di “ciò che è”. Se viviamo nel mondo delle apparenze lo scontro con la realtà diventa pericolosamente aspro.

Ricordiamo tutto ciò che abbiamo imparato (e che rischiamo di “disimparare”) nei millenni della nostra evoluzione, in cui comunicazione e informazione hanno sempre avuto un ruolo fondamentale. Cerchiamo di imparare meglio ciò in cui siamo ancora inesperti – comunicare bene nella crescente complessità.

Alla base di tutto questo rimangono indispensabili due “arti e mestieri” (secondo una saggia definizione antica, più che mai di attualità). Saper leggere e saper scrivere. Sono indissolubilmente “complementari”. Scrivere senza badare a chi legge è uno sterile soliloquio. Leggere senza capire è un infruttuoso “passatempo”.





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