Il potere della stupidità
Kali
 
Un argomento imbarazzante

Questo è il capitolo 28, che fa parte
delle osservazioni conclusive nel libro.
Ma è anche un testo che può servire
a inquadrare l’argomento – e a spiegare
perché siano così pochi gli studi
e i ragionamenti sulla stupidità.


Tutta la storia della cultura umana sulla stupidità (con rare eccezioni, come alcuni testi citati in questo libro) si può ridurre a una continua ripetizione di due atteggiamenti banali – che non tentano di capire il problema, ma sono molto efficaci nell’evitare di affrontarlo.

Uno è la condanna sprezzante degli stolti, visti sempre come “altri“. Il che vuol dire che spesso è considerato stupido chi ha idee diverse da quelle di un certo autore che si considera “saggio“. È un modo comodo e sbrigativo per liberarsi dal fastidio di dover affrontare un dialogo o un dibattito. Infatti era in voga migliaia di anni fa e non è meno di moda ai nostri giorni.

L’altro è la derisione. Lo stupido è quello di cui si ride, la vittima designata di burle, beffe, lazzi e sberleffi. Anche questo è un modo per evitare il problema – e per scaricare addosso a qualcun altro non solo la stupidità, ma anche ogni genere di diversità e di incomprensioni. Chi non pensa e non fa come noi è stupido. Perché perder tempo a cercare di capirlo, quando basta considerarlo goffo e ridicolo?

Insomma siamo andati avanti per migliaia di anni a rimuovere il problema della stupidità, a tentare di esorcizzarlo, a cercare tutti i modi possibili per evitare di guardarlo in faccia. Non è solo un comportamento stupido, è anche un segnale del fatto che la stupidità è imbarazzante – e ne abbiamo paura.


Ci sono, in questo desolante contesto, due eccezioni curiose e interessanti. Uno è il comportamento di alcune culture tribali (ma ripetuto anche in situazioni storicamente più evolute) che invece di rifiutare una persona con un atteggiamento insolito, o di emarginarla come “lo stolto“ o “il pazzo“, la considerano provvista di qualità speciali, di capacità superiori.

È interessante scoprire che, in molti casi, questo non è solo un modo per rendere socialmente accettabile una persona “diversa“, ma anche per dare spazio a chi ha davvero qualche tratto di genialità o insolite capacità percettive.

L’altro fenomeno, nel suo genere esemplare, è l’istituzione del giullare, o “buffone di corte“. Un personaggio che non ha rango, né credenziali di “saggezza“, ma ha spirito e ingegno beffardo. Si accetta e si incoraggia il suo travestirsi da “stupido“, perché così le sue irriverenti bizzarrie possono essere accolte senza imbarazzo e senza quella severa punizione che sarebbe d’obbligo se le stesse cose fossero dette da una persona “saggia“.

Queste sono soluzioni intelligenti quando servono a ridurre i conflitti della diversità – o a offrire qualche spazio di irriverenza in una cultura troppo rigida, gerarchica e convenzionale. Ma sono anche maniere convenzionali per mettere da parte, senza affrontarlo, il problema della stupidità.

Insomma la stupidità è imbarazzante. Fin che si ride, si ride. Ma quando si tratta di capire... si cercano tutti i modi possibili per evitare l’argomento.


Siamo disposti ad ammettere di essere un po’ matti. Perché pensiamo che qualche elemento di pazzia sia frequente nei geni (il che è vero, specialmente quando si considera follia qualcosa che gli altri non capiscono bene – o un modo di pensare che è in disaccordo con la cultura convenzionale). Ma anche chi non ha alcuna genialità può essere simpatico, spiritoso, divertente se si concede qualche tratto di innocua pazzia.

Ma stupidi? Che orrore. Possiamo anche fingerci stupidi, quando ci fa comodo per schivare una domanda imbarazzante o una responsabilità indesiderata. Ma ammettere di esserlo... è terrorizzante.


A questo proposito ci sono alcune interessanti osservazioni di un autore che ho già citato nei capitoli 1 e 2. James Welles spiega come, lavorando sul problema della stupidità, si sia trovato a cambiare atteggiamento. «All’inizio l’intenzione non era seria. Mi aspettavo di scrivere un libro leggero e giocoso. Ha assunto un tono più serio man mano che mi rendevo conto di quanto incredibilmente importante sia la stupidità. Può essere comica; è certamente interessante; ma è molto discutibile che si possa continuare nei nostri tradizionali errori. La stupidità è troppo importante per poter essere messa da parte coma una tragicomica fonte di umorismo».

A James Welles va riconosciuto anche il merito di essere uno dei pochissimi autori che, invece di scaricare la stupidità solo sugli altri, riconosce anche la propria. «Sono stato perseguitato – dice – durante la scrittura del mio libro dalle vivide memorie dei miei più stupidi fallimenti. Ho continuamente ripensato ai miei più sciocchi errori». Credo che una tale autocoscienza, prima ancora che autocritica, sia necessaria per poter ragionare in modo un po’ meno banale del solito sul problema della stupidità.


Il primo passo di ogni efficace stupidologia sta nell’affrontare a occhi aperti non solo il fatto che la stupidità esiste, e ce n’è assai più di quanto siamo abituati a pensare, ma anche l’imbarazzante constatazione che la stupidità è una caratteristica fondamentale della natura umana. E che tutti siamo, in qualche misura, stupidi – di solito più di quanto crediamo se non abbiamo dedicato sufficiente attenzione a valutare e conoscere la nostra stupidità.

La stupidità non è bella da vedere, ma non è la gorgone Medusa. Non ci annichilisce se la guardiamo. Al contrario, ha paura di essere vista. Preferisce annidarsi alle nostre spalle che rischiare la chiarezza, per lei innaturale, di starci davanti. Ama l’oscurità e gli angoli bui, teme la luce e teme il nostro sguardo. Affrontarla, conoscerla, capirla è il primo e fondamentale passo per ridurre il suo insidioso potere.





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