Il potere della stupidità
Kali
Capitolo 29


Errare humanum



Sarebbe sciocco illudersi che ci sia un modo per non sbagliare mai. Non esiste un patrimonio di intelligenza, esperienza, competenza, conoscenza e metodo così perfetto da eliminare ogni possibilità di errore.

Non sempre gli errori sono stupidi. Quando la lezione che si impara vale di più del danno provocato da un errore, il risultato si colloca nel quadrante dell’intelligenza (di questo si è parlato nel capitolo 4 a proposito della “legge di Murphy”).

Può accadere anche che un errore riveli un difetto nel modo in cui era stata presa una decisione o impostato un progetto. Se non ci limitiamo a correggere l’errore, ma riusciamo a capirne le cause, possiamo arrivare a una soluzione più intelligente.

Se mettessimo un neonato in un ambiente chiuso e sterile, e lo lasciassimo crescere in quella situazione, al primo contatto con il mondo esterno rischierebbe di morire, per un inadeguato sviluppo del suo sistema immunitario.

È altrettanto pericoloso non sbagliare mai – o illudersi di essere infallibili. Se cadiamo nell’abitudine (capitolo 15) di ripetere gli stessi comportamenti, anche se in passato avevano dato buoni risultati, il problema non è solo che smettiamo di imparare. Sta anche nel fatto che, in pratica, le situazioni e i comportamenti non sono mai esattamente uguali. L’abitudine e la routine si sclerotizzano, attenuano le capacità percettive e ci inducono a perdere progressivamente contatto con la realtà.

Una forma diffusa di stupidità è l’incapacità di ammettere i propri errori. Non solo di non confessarli agli altri, ma di nasconderli anche a se stessi. Il coraggio di dire, e di pensare, “ho sbagliato” non è solo onesto. È anche un modo intelligente di ridurre il potere della stupidità.

È importante anche saper gestire gli errori altrui. Quando qualcuno sbaglia non basta strillare “sei stupido”. Perdonare puòessere più civile, ma non è sufficiente. Dobbiamo chiederci se abbiamo fatto (o non fatto) qualcosa che ha messo quella persona in condizione di sbagliare.

Dobbiamo anche cercare di capire se quella persona sia irrimediabilmente stupida (o anche solo inadatta a un particolare compito) e, in quel caso, trovare un modo efficace per metterla in condizione di non nuocere. Ma più spesso la soluzione è un’altra: aiutare la persona a capire l’origine dell’errore – e così ridurre la possibilità che lo ripeta.

Questo è ovvio? Sì, in teoria. Ma in pratica è molto più frequente che si giochi allo scaricabarile – e che si vada alla ricerca di un “colpevole” o di un “capro espiatorio” invece di capire che cosa si può imparare da un errore.

Quando si ha la fortuna di trovarsi in un ambiente aperto, dinamico, collaborativo, in cui si è abituati a condividere gioie e dispiaceri, successi e insuccessi, problemi e soluzioni... può essere utile un esame collettivo degli errori, dalle origini fino alle conseguenze. Non per diluire le responsabilità, consolarsi a vicenda o piangere sul latte versato, ma per cercare di arricchire il patrimonio comune di esperienza.

“Sbagliando si impara”, dice il proverbio. Ma si può fare molto di più. C’è un’interessante metafora in Of Clouds and Clocks di Karl Popper (1966): “Einstein e l’ameba”.

«Nella scienza, come nella vita» – spiega Popper – «vige il metodo dell’apprendimento per prove ed errori, cioè l’apprendimento dagli errori. L’ameba ed Einstein procedono allo stesso modo, per tentativi ed errori; la sola differenza rilevabile nella logica che guida le loro azioni è che i loro atteggiamenti sono diversi. Einstein, diversamente dall’ameba, cerca consapevolmente di fare di tutto, ogni volta che gli capita di trovare una nuova soluzione, per coglierla in fallo. Assume un atteggiamento consapevolmente critico nei confronti delle proprie idee, cosicché – mentre l’ameba morirà a causa dei suoi errori – Einstein sopravvivrà proprio grazie ai suoi errori».

In altre parole, non basta imparare passivamente dagli errori, ma è utile “saper sbagliare”. La stupidità non sta nel commettere errori, ma nel non volersene accorgere, non volerli capire, non saperli usare come una fonte di apprendimento.

Un criterio di buon senso, che è anche un serio metodo di gestione, è il “rischio calcolato”. Si possono identificare (o costruire come campi di sperimentazione) situazioni in cui sia possibile commettere errori con effetti meno preoccupanti – e così imparare dall’esperienza concreta il modo più adatto a evitare, o correggere, problemi o “imprevisti” più gravi.

Se il più stupido degli stupidi è chi non sa di essere stupido, anche chi crede di non sbagliare mai. Ma c’è chi cade nell’errore opposto. È talmente ossessionato dalla paura di sbagliare da chiudersi in un esagerato e ripetitivo precisionismo, in una ritualità formale che spesso produce più errori di quanti ne possa prevenire o risolvere (di stupidità della burocrazia si è parlato nel capitolo 12).

Charles de Talleyrand era un birbante e un intrigante, ma non era stupido. Ai suoi discepoli insegnava: «Surtout pas trop de zêle». La precisione, l’attenzione, la disciplina, la cura dei dettagli sono intelligenti e possono togliere molto spazio alle insidie della stupidità. Ma l’eccesso di zelo non è solo noioso e irritante. Può essere anche la causa di molti errori.

Se sbagliare è umano, perseverare non è diabolico. È solo stupido. Non dobbiamo aver paura degli errori, né lasciarci innervosire, ma imparare a capirli. L’uso intelligente degli errori è uno degli antidoti alla stupidità.


*   *   *


E se errare non fosse solo humanum? Non mancano ipotesi in quel senso anche in tradizioni antiche. Non solo i turbolenti dei dell’Olimpo, con tutto il contorno di semidei e di altre creature mitologiche, riflettono le debolezze del comportamento umano, ma anche in altre tradizioni e culture ci sono varie divinità, oltre a “entità” angeliche o mostruose, comunque “sovrumane”, che agiscono in modo bizzarro e poco equilibrato.

Si trovano altri esempi in letteratura più recente. Ma mi sembra interessante constatare che in alcuni dei migliori libri di science fiction ci sono suggestive analisi su come la stupidità si possa manifestare in diversi ipotetici mondi possibili e in dimensioni “extraterrestri”. Per esempio (oltre a quelli già citati nel capitolo13 a pagina 71) c’è il brillante romanzo The Gods Themselves (1972) in cui Isaac Asimov descrive complesse e problematiche interazioni con entità aliene – e già nei titoli delle tre parti che compongono il libro (Against Stupidity... The Gods Themselves... Contend in Vain?) si chiede se e come il potere della stupidità possa trascendere la dimensione umana. Quel concetto è ispirato da una frase di Friedrich Schiller – Mit der Dummheit kämpfen Götter selbst vergebens (“Perfino gli dei non riescono a combattere la stupidità”).




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