Giancarlo Livraghi

Il potere della stupidità
Kali


Capitolo 5

La Legge di Parkinson


Mentre sono sempre stati scarsi gli approfondimenti sul problema della stupidità, ci sono alcuni testi rilevanti su “perché le cose vanno male”. Fra questi c’è Parkinson’s Law di Cyril Northcote Parkinson. Un “classico” che è stato pubblicato nel 1957 – e cinquant’anni più tardi è ancora, più che mai, di attualità.

Oltre a essere profondamente serio nei contenuti è anche una lettura piacevole e divertente. È uno di quei rari libri che hanno l’insolita capacità di approfondire argomenti complessi trattandoli con lucida semplicità e con una notevole dose di umorismo. Il testo è accompagnato da una serie di disegni gustosamente satirici che non si limitano a divertire il lettore, ma aiutano anche a capire.

Ne sono uscite, nel corso degli anni, molte edizioni, in cui Parkinson ha approfondito progressivamente l’argomento, con l’aggiunta di altre interessanti osservazioni.

Nonostante il suo successo era e rimane un libro “ostico”, trascurato dai teorici della gestione, ignorato o dimenticato da chi è attivamente impegnato nelle organizzazioni.

Il motivo è evidente: dice troppe verità scomode e, cosa ancora più sgradevole, lo fa senza dissertazioni astruse o paludate, con un linguaggio semplice e diretto. Con puntuta e puntuale ironia (accentuata dalle vignette di Robert Osborn, che ne arricchiscono il significato – ma disturbano i pedanti).

Era un libro fastidioso, irritante, sconcertante all’epoca della sua prima pubblicazione. E lo è ancora di più nella situazione di oggi.

La Legge di Parkinson spiega come un’organizzazione cresca, indipendentemente dall’aumento o diminuzione della quantità di lavoro che deve svolgere, per effetto di meccanismi gerarchici e di anomalie organizzative.

Cinquant’anni fa si trattava soprattutto di allargamento delle strutture, con una crescente complicazione dei rapporti interni. Parkinson spiegava che un’organizzazione di mille persone può essere impegnata a tempo pieno a comunicare solo con se stessa, senza produrre alcuna attività significativa per il mondo esterno.

Oggi quei problemi rimangono, ma il quadro è ancora più complesso. In un’epoca in cui le riduzioni di personale sono un frequente strumento per far crescere i profitti (e le fusioni, acquisizioni o concentrazioni si traducono quasi sempre in “tagli” di struttura) accade anche il contrario: cioè che le dimensioni delle organizzazioni diminuiscano per motivi non funzionali – e spesso senza correggere il sovraccarico di funzioni inutili e ingombranti.

Questa bizzarra mescolanza di bulimia e anoressia è uno dei malanni più gravi che affliggono le organizzazioni (pubbliche o private) e specialmente le più grandi.

Il fatto fondamentale è che un’organizzazione, come se fosse un organismo vivente, tende a crescere e a riprodurre se stessa. Ma, se la vita ha un valore in quanto tale, non è così per le imprese (o altre organizzazioni pubbliche o private) che meritano di esistere solo se hanno un ruolo utile ad altri – e alla società in generale. Questa è una costante in tutte le aggregazioni umane, indipendentemente dal fatto che siano motivate al profitto o basate su altre premesse, come ruoli istituzionali, sociali, politici o di pubblico servizio.

Fra le osservazioni di Parkinson c’è The Law of Triviality: il grado di attenzione dedicato a un problema dai vertici di un’impresa è inversamente proporzionale alla sua reale importanza. Può non essere una regola fissa, ma chi sa come funzionano davvero le organizzazioni può facilmente constatare che è un fenomeno molto frequente.

Un altro malanno è definito The Law of Delay (“legge del rinvio”). Se un problema è serio, urgente, impegnativo e complesso si evita di affrontarlo, delegandolo a qualcun altro oppure chiedendo ulteriori approfondimenti, fino a quando diventa irrimediabile. Nel clima di fretta esasperata in cui ci troviamo oggi sembra che questo problema non esista, ma la verità è che continua – e si sta aggravando.

L’urgenza immaginaria e immotivata porta spesso a trascurare tutto ciò che non sembra avere una soluzione immediatamente disponibile. L’inevitabile conseguenza è che si commettono contemporaneamente due errori: si decide affrettatamente su cose che meriterebbero un maggiore approfondimento, mentre si rimandano decisioni che sarebbe stato meglio prendere al momento giusto.

Il marasma risultante produce maggiore fretta, insieme a una congerie di problemi che sarebbero stati evitabili se affrontati in tempo. Così si perpetua e si moltiplica di continuo un circolo vizioso praticamente ingestibile.

Non è difficile constatare fenomeni come questi in situazioni che hanno prodotto risultati fallimentari. Ma il fatto è che una profonda degenerazione dei sistemi decisionali affligge anche molte organizzazioni che sembrano ancora sopravvivere – fino a quando chi non ha notato quanto le termiti della malagestione ne abbiano logorato le strutture si meraviglierà, troppo tardi, del loro improvviso collasso.

La stupidità non è esplicitamente indicata da Parkinson, né da altri studiosi di “perché le cose vanno male”, come causa dei molti malanni che affliggono le organizzazioni. Ma è evidente che quei fenomeni sono stupidi. Come è stupido il fatto che gli sbagli diagnosticati chiaramente cinquant’anni fa continuano a ripetersi – con l’aggiunta di altre complicazioni che ne peggiorano le conseguenze.




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