gassa

I nodi della rete
di Giancarlo Livraghi
22 – maggio 2004


Il problema dell’idolatria

Stiamo precipitando nell’idolatria? A porsi quella domanda è Umberto Eco, nella “Bustina di Minerva” sull’Espresso del 20 maggio 2004.

In un precedente numero della sua rubrica aveva pubblicato un’energica (e ben motivata) stroncatura del truculento film di Mel Gibson sulla crocifissione. La cosa aveva scatenato un prevedibile dibattito, in cui era emerso un fatto preoccupante.

Molti non sapevano distinguere fra il film, cioè il modo in cui la storia era raccontata, e il fatto in sé. Non capivano la differenza fra il Nazzareno e l’attore che ne recitava la parte, fra una crudele realtà e la sua rappresentazione scenica, fra una fede religiosa di redenzione e i trucchi cinematografici con cui si fingono sofferenza e tortura.

Se si trattasse solo di quel film... potrebbe essere un’insolita deformazione percettiva. Ma, come rileva Umberto Eco, il fenomeno è molto più esteso. Un suo studente, visto l’andamento di una discussione online, gli aveva detto: «Forse dobbiamo rivalutare gli iconoclasti».


Il dibattito è antico. Nell’ottavo secolo la rappresentazione di immagini sacre era stata vietata nell'impero bizantino, mentre poi la chiesa romana l’aveva consentita, a condizione che non si trasformasse in idolatria.

Il problema è reale. Ancora oggi assistiamo a ogni sorta di comportamenti in cui l’adorazione è rivolta a un oggetto (una statua, un’immagine, un simbolo, un amuleto) invece che a ciò che intende rappresentare. Ma il fenomeno va osservato anche da un altro punto di vista, indipendentemente dalla fede religiosa o da varie forme di superstizione o feticismo.

Umberto Eco osserva che è opportuna «una riflessione sull’atteggiamento dell’uomo moderno nei confronti del mondo mediatico, che non viene più avvertito come rappresentazione (fedele o distorta) delle cose, ma come la Cosa Stessa. Che è la forma laica che assume oggi l’idolatria».

Cioè la realtà non esiste, conta solo la sua rappresentazione. Il problema non è semplice – e merita qualche approfondimento.


Solo una piccola parte delle cose che esistono o che accadono può essere percepita direttamente. E anche quando “vediamo con i nostri occhi” non sempre siamo in grado di capire che cosa significhi ciò che ci sembra di vedere. Ci sono, comunque, ampi spazi di interpretazione – e per gran parte delle cose che pensiamo di sapere dobbiamo basarci su ciò che ci dice qualcun altro.

Questo pone, alla base di ogni filosofia, il Problema della Conoscenza. E nella quotidianità della vita e dell’informazione ci mette nella necessità di cercare di capire come stanno le cose al di là dei modi diversi, e spesso contrastanti, in cui ci arriva un’informazione o una notizia. Con il perenne rischio di non capire bene – o di confondere la narrazione o rappresentazione di un fatto con ciò che realmente è accaduto o sta accendendo.

È già un problema, e molto serio, che la nostra percezione sia pesantemente condizionata da abitudini, preconcetti, cliché e banalizzazioni. E che ci sia una preoccupante “omogeneizzazione” di tutti i cosiddetti sistemi informativi. Ma che l’immagine prenda il posto del fatto è un problema in più.


Un esempio drammatico sta nello sgomento generato dalla diffusione di fotografie e filmati di orripilanti uccisioni, maltrattamenti e torture. Fatti di quel genere sono sempre esistiti e continuano a esistere, in molte diverse circostanze. Ma “sembrava che non ci fossero” perché “non si vedevano”. Sono diventati “reali” solo quando se ne sono viste le immagini (di cui alcune false – e altre non facilmente interpretabili). Una parte eccessiva del dibattito, in pubblico e in privato, non si è svolta sull’orrore dei fatti in sé, ma sulla loro rappresentazione.

Ci sono, ovviamente, fatti costruiti apposta per farli vedere. La crocifissione non era solo un atroce supplizio cui era sottoposto il condannato, ma anche uno spettacolo pubblicamente visibile per terrorizzare gli altri. Così è stato in infinite situazioni nella storia, compresi i roghi, le esecuzioni in piazza, ogni sorta di pubbliche orribili crudeltà.

Ancora oggi è evidente che una vittima è stata sgozzata e decapitata per poterne fare un film, così come il massacro dell’11 settembre 2001 a New York è stato organizzato in modo da avere le telecamere puntate sulle torri.

È più difficile capire perché i torturatori di prigionieri, che hanno evidenti motivi per tenerle nascoste, abbiano deciso di fotografare e filmare le loro prodezze. Ma sappiamo che spesso quei comportamenti, oltre che disumani e criminali, sono anche stupidi.


Gli esempi, purtroppo, sono infiniti... ma non sono il terrore e la barbarie l’argomento di questo articolo, né il fatto che le guerre si combattono con l’informazione (o disinformazione) quanto e forse più che con le armi.

C’è sempre stata, anche prima dei dibattiti sulle immagini religiose, dell’iconografia e dell’iconoclastia, una certa confusione fra immagine e realtà. Ma ci sono fenomeni caratteristici del tempo in cui viviamo.

Un bufalo dipinto sulla parete di una caverna era un’opera d’arte, cioè una rappresentazione, ma anche un rito magico e un codice di appartenenza. Tuttavia nessun cavernicolo confondeva l’immagine o il totem con il bufalo in carne e ossa, che stava come preda e come minaccia poco lontano dalla sua caverna.

Oggi la situazione è molto diversa. Non solo perché “assistiamo” quotidianamente a eventi lontani che ci è difficile verificare direttamente.


Anche in un sistema strutturalmente ricco di informazioni non verificabili (vedi Il paradosso dell’abbondanza) ci sono percezioni tattili e ambientali che ci aiutano a distinguere.

Se leggiamo un libro o un giornale abbiamo la nozione fisica della differenza fra la carta che teniamo in mano e le cose che qualcuno ci racconta o ci spiega. Anche quando, oltre a leggere, vediamo immagini è difficile che un disegno o una fotografia siano percepiti come “la cosa” anziché una sua riproduzione.

Se andiamo a teatro o al cinema c’è un’altrettanto concreta separazione fra spettacolo e spettatori. Possiamo partecipare con intensa emozione a ciò che ascoltiamo e vediamo, ma rimane il fatto che il pubblico è seduto in sala, gli attori sono sul palcoscenico o su uno schermo.

Coi mezzi “audiovisivi”, quando ce li abbiamo in casa, la situazione cambia. Già con la radio c’erano distorsioni percettive. Le soap opera radiofoniche, progenitrici delle sitcom o teleromanzi di oggi, erano vissute un po’ meno come spettacolo rappresentato, un po’ più come ascoltare una conversazione in casa dei vicini.

C’è anche il famoso caso dell’invasione dei marziani sceneggiata per radio da Orson Welles nel 1938 in base a un noto romanzo di H. G. Wells – e da molti interpretata come un pericolo reale. (Una grande guerra stava per scoppiare davvero, ma gli aggressori non venivano da Marte).

Il fenomeno, ovviamente, si è molto accentuato con la televisione. E ha raggiunto livelli estremi (o riusciranno a inventare qualcosa di ancora peggiore?) con i cosiddetti reality show, che nulla hanno di reale.

Accade anche il contrario – cioè che il reale sembri falso. Già nel 1969 si era constatato che alcuni non credevano allo sbarco sulla luna. Le riprese dirette erano, necessariamente, mescolate con simulazioni. Questo aveva provocato una confusione percettiva. Specialmente fra le categorie socialmente deboli o emarginate negli Stati Uniti, o altrove ostili alla potenza americana, si era diffusa l’opinione che fosse un falso, un’invenzione propagandistica.

Anche se non cadiamo totalmente nel precipizio dell’idolatria, di un totale rovesciamento dell’essere e apparire, corriamo continuamente il rischio di percezioni distorte che ci fanno credere l’incredibile o negare l’evidenza.


Vorrei ribadire “a scanso di equivoci” che non ho alcuna antipatia preconcetta per la televisione. Usata bene, è un mezzo di straordinaria qualità. E potrebbe evolversi in modi da parecchi anni tecnicamente possibili, ma non accora realizzati, che ci offrirebbero risorse più flessibili e selettive.

Ma il fatto è che oggi la televisione è la causa principale di confusione fra apparenza e realtà. E il fenomeno è particolarmente grave in quelle (purtroppo estese) parti della popolazione che fanno un uso molto scarso di altre fonti di informazione o di svago.

(Il caso segnalato da Umberto Eco ci fa pensare che, almeno in alcune persone, la sindrome abbia radici così profonde da influenzare anche il modo in cui si percepisce un film al cinema).

Il nostro sistema percettivo è istintivamente capace di gestire situazioni metaforiche. Un’immagine piatta alta venti centimetri che compare su uno schermo viene percepita come una persona in carne e ossa a grandezza naturale (i “.primi piani”, tipici della sintassi televisiva, aiutano quell’effetto di illusionismo).

Il linguaggio della televisione è spesso costruito in modo da darci l’impressione che quei personaggi siano in casa nostra – o che noi siamo dove stanno loro. Finte interazioni, con un pubblico addomesticato o inesistente, ci danno l’illusione di essere “presenti”. Così , con l’abitudine, non riusciamo più a distinguere fra il mondo costruito in un teatro e quello in cui viviamo.

Una vignetta sul New Yorker, molti anni fa, mostrava un padre che stava cambiando una gomma sotto la pioggia mentre il suo bambino lo guardava, da dentro l'automobile, attraverso il finestrino. E gli diceva «no, non possiamo cambiare canale».

Anche nella cronaca la percezione è deformata. Ciò che accade ogni giorno, ma non vediamo, ci sembra inesistente. Ciò che ci viene trasmesso attraverso l’occhio di una telecamera (e vari montaggi di regia) ci sembra “vero” come se lo vedessimo direttamente.

Se leggiamo una cronaca su un giornale, sappiamo di non essere presenti ai fatti e di riceverne la narrazione così come la interpreta l’autore dell’articolo. In televisione tendiamo a perdere quella distinzione, a confondere immagine e realtà.

L’artificiale diventa reale, l’apparire diventa essere. La situazione si rovescia. È vero, reale, significativo ciò che compare in televisione. Tutto il resto non esiste.


Che le icone diventino realtà non è un’idea nuova. La trasformazione di statue o dipinti in presenze “incarnate” percorre la storia umana di tutti i tempi, dal mito di Pigmalione al Convitato di Don Giovanni, dal ritratto di Dorian Gray all’arcivernice del professor Lambicchi sul Corriere dei Piccoli di tanti anni fa.

Ma quelli sono giochi, miti, fiabe o invenzioni letterarie. Invece la quotidianità e la famigliarità della televisione sconvolgono il nostro sistema percettivo fino a rovesciare il rapporto fra immagine e realtà.

Gi idoli sono prigionieri dell’idolatria quanto i loro adoratori. Non solo chi lo fa di mestiere, ma anche chi per qualsiasi motivo diventa “noto” in televisione, perde il contatto con l’umanità. Quasi tutte le persone che incontra credono di avere a che fare con il personaggio televisivo, non con l’essere umano che non conoscono.

Chi vive in televisione diventa preda della sua immagine. Finisce col chiudersi in una lussuosa spelonca e autoconvincersi che quel minuscolo e “autoreferenziale” teatrino sia il mondo in cui vive anche il resto dell’umanità. È una psicopatia che tende ad aggravarsi continuamente – e non sembra che si pratichino terapie efficaci.


Il problema dell’idolatria non si risolve diventando iconoclasti – né iconofobi. Ma sarebbe importante educare le persone a “decodificare”. Matteo Marangoni ci insegnava a “saper vedere” un’opera d’arte. Oggi uno dei compiti principali del sistema educativo e informativo dovrebbe essere insegnare a saper vedere e saper leggere ciò che gli apparati “mediatici” ci somministrano.

Una società di idolatri imbambolati può sembrare conveniente a chi gestisce gli idoli, ma un sistema che si nutre di stupidità è condannato a diventare stupido – con conseguenze, come è facile constatare, pericolosamente complesse. (Vedi Il circolo vizioso della stupidità).

Devo confessare che talvolta sono preso da tentazioni iconoclastiche, specialmente quando vedo certi abusi di immaginerie in rete. Ma ovviamente non si tratta di abolire, reprimere o censurare alcuna forma di espressione.

L’importante è non lasciarsi imbambolare, imparare a distinguere e a capire. È improbabile che qualcuno abbia la bontà di insegnarcelo. Dobbiamo essere ostinatamente autodidatti.



indice
indice delle rubriche


Home Page Gandalf
home