Internet News
novembre 1996

Intervista a Giancarlo Livraghi


È passata la sbornia?

Dopo tanto “rumore” su “internet”,
come guardare più seriamente la realtà?



Dicono che il 1995 è stato “l’anno dell’internet”. È vero? Quali potranno essere le conseguenze?

Credo che il 1995 sia stato l’anno del “rumore”. Tante parole, molta retorica; poca sostanza.

In realtà, sono successe due cose: si è allargato enormemente il numero dei “provider”, e la tecnologia world wide web si è diffusa a tal punto che molti oggi la considerano come l’unico “volto” della rete.

C’è stato, anche, un fiume di parole. Estremamente confuso, poco illuminante.

Insomma una grande barriera di fumo, che rende difficile vedere dov’è l’arrosto.


Si parla di crescita “esponenziale” della rete. È vero?

Disse il direttore dell’Economist: «se vuoi azzardarti a fare profezie, puoi provare a dire che cosa, o quando: ma mai le due cose insieme».

È “probabilmente” vero che un giorno il modem (o lo strumento che lo sostituirà) sarà un elettrodomestico di uso comune. Come il telefono o il televisore. Ma quando? Fra cinque anni, fra dieci, fra venti? Nessuno lo sa.

L’unica previsione che possiamo fare con “ragionevole certezza” è che non sarà un percorso lineare. Ci saranno alti e bassi, accelerazioni e rallentamenti. Intanto cambierà la struttura della rete e si evolverà il comportamento di chi la usa.

L’altra certezza è che la maggior parte delle “proiezioni” che si sentono e si leggono non sono credibili. Un’importante impresa internazionale ha presentato un modello di crescita che parla di raddoppio, su scala mondiale, ogni due mesi: senza rendersi conto che quell’iperbole supererebbe in due anni la popolazione totale del pianeta. Insomma molti “danno i numeri”, ma non sanno quello che dicono.

Per il momento, i “numeri” sono ancora molto piccoli. Da un po’ di tempo sto cercando di capire quante sono davvero le persone che si collegano in Italia. Non sono ancora arrivato a una stima precisa, ma posso già dire che si tratta di poche decine di migliaia. Se si escludono i collegamenti universitari e quelli delle grandi strutture pubbliche e private (usati in prevalenza per attività specifiche e non per “aggirarsi” sulla rete) si tratta probabilmente di 40-50 mila persone. Un italiano su mille. Pressappoco la popolazione di Cologno Monzese.

L’anno scorso Bill Gates annunciò solennemente a Cernobbio «un milione di collegati in Italia entro un anno». Leggiamo in giro: decine di milioni (numeri riferiti al mondo, cioè soprattutto agli Stati Uniti: ma questo sfugge spesso a un lettore affrettato) o centinaia di migliaia (stime basate su non si sa quali mirabolanti calcoli in Italia). C’è una distanza abissale fra la “percezione diffusa” e la realtà dei fatti.

Passata la “sbornia”, occorre un momento di lucidità.


Perché parla di “sbornia”?

Non è una mia invenzione. Da qualche mese in America si parla di backlash, cioè di riflusso, e si parla di hangover, cioè del malessere che segue a un’ubriacatura.

Se questo è vero in una situazione relativamente più “matura”, figuriamoci da noi...

Il problema è che da quando (non sono molti anni) la rete si è “aperta” all’uso privato si sono moltiplicate oltre misura proposte e offerte; e questo fenomeno è stato accelerato dalla diffusione del sistema world wide web.

L’offerta di informazione sulla rete cresce, si moltiplica, si complica. Ma non si capisce quale sia la “domanda”; c’è una sproporzione crescente fra l’abbondanza delle cose disponibili e la possibilità di trovarle. È inevitabile che ne nasca una fase di delusione e di ripensamento.


Sembra che il www non la convinca del tutto...

Non è questo il problema. La tecnica web è seria e solida, apre molte possibilità (per esempio con il link, i collegamenti da un sito all’altro) e rende più facile l’esplorazione.

C’è già chi pensa che sarà sostituita da altre tecnologie: il che è possibile, ma non cambia la situazione.

I problemi non vengono dalla tecnologia, ma dal modo in cui è usata. Fare un “ipertesto” con html è relativamente facile; altrettanto facile procurarsi uno spazio per la propria “vetrina”.

Molto meno facile è sapere che cosa metterci, o usare la rete (come qualsiasi altro strumento) in modo veramente utile e interessante.

C’è una fase di perplessità. L’offerta è così vasta da essere ingestibile. I “navigatori” si perdono in un mare confuso. Chi offre un ormeggio spesso non lo sa gestire; dopo un entusiasmo iniziale non lo segue, non lo aggiorna né lo arricchisce. Succede di attraccare a banchine in disuso, dove non c’è più nessuno: impianti abbandonati, vecchi cartelli “lavori in corso”.

Quante persone entrate con entusiasmo a “esplorare” si trovano soffocate di materiale? O rinunciano, o devono imparare a ridurre il volume, che è diventato ingestibile, e scegliere.

La cosa è complicata anche dai continui sviluppi e cambiamenti della tecnologia, che sommergono di possibilità e di problemi una “cultura” umana che non ha ancora avuto modo di prendere forma.


Sembra che lei abbia qualche diffidenza verso le nuove tecnologie, e una certa antipatia per la Microsoft.

Nel caso della Microsoft, è vero – e non mi sembra di essere il solo.

Credo che si debba sempre diffidare di chi ha posizioni di monopolio (vedi il caso perverso, e molto nocivo, della Telecom Italia) e anche di chi, come la Microsoft, ha e cerca di accrescere posizioni di egemonia commerciale, cui non corrisponde un’adeguata qualità dei prodotti.

Il risultato è che siamo costretti a convivere con prodotti tecnicamente scadenti, eccessivamente complessi, e carichi di inutili “orpelli” a scapito delle reali prestazioni.

Per quanto riguarda le tecnologia in generale, non sono certo un “luddista” e credo che la tecnologia stia facendo cose straordinarie, di cui alcune molto utili. Ma la continua crescita di prestazioni delle macchine incoraggia le software house a fare prodotti sempre più “grassi” (si parla da anni di fatware) e inutilmente complicati, che tendono a trattare l’utente come un cretino analfabeta (vedi la divertente “bustina“ di Umberto Eco sull’Espresso del 16 febbraio 1996 a proposito di abuso delle “icone”).

Per non parlare dei “problemi profondi” della programmazione, che lascio descrivere a chi ha più competenza tecnica di me ma in pratica producono software troppo complessi e poco coerenti, gremiti di “routine” non ben collegate fra loro e che facilmente entrano in conflitto.


Questo riguarda il “software” in generale. Ma come si applica all’internet?

Nel caso specifico della rete, uno degli errori più diffusi è caricare un “sito web” con “grafiche” inutili, che non solo distolgono l’attenzione dai contenuti ma fanno perdere una quantità enorme di tempo.

Forse un giorno avremo davvero, al prezzo di una normale linea telefonica, collegamenti ISDN (o con qualche altra tecnologia) a oltre 64 kilobit al secondo. Ma oggi lavoriamo con velocità molto più basse, e con frequenti “intasamenti” e rallentamenti sulla rete. Il risultato è che se non sei un manipolatore esperto di multitasking stai lì come un cretino a aspettare che il browser trovi il “sito”, o che si carichino lentamente immagini e decorazioni di cui non hai alcun bisogno...

Insomma quando le cose non funzionano la “colpa” non è della tecnologia, ma di chi la usa male.


Sembra che abbia una posizione critica anche verso l’informazione, e specialmente i giornalisti.

Si e no. C’è in giro una massa impressionante di “cattiva informazione”, ma non mi sembra ragionevole darne tutta la “colpa” ai giornalisti. Come in tutte le categorie, ci sono le persone serie e ci sono i superficiali.

Ma prima di “prendercela” con i giornalisti dovremmo capire qual è la qualità delle “fonti” cui possono accedere; e quanti danni fanno i direttori dei giornali con la continua ricerca dello “scoop” o delle storielline a “effetto”, a scapito di ogni approfondimento.

L’altro giorno sono andato dal barbiere. Sa che uso un computer, e mi ha chiesto: «Lei usa Windows 95?» Quando gli ho detto «no» mi ha guardato sbigottito: «Ma allora come fa a collegarsi all’internet?»

Quel barbiere non è un pozzo di scienza. Ma conosco docenti universitari (per non parlare di sociologi, psicologi, tuttologi e varia gente che scrive articoli e libri) che pontificano sul “virtuale” o sul “ciberspazio” e non ne sanno molto più di lui. Spesso non capiscono la differenza fra un modem e un cd-rom, fra la posta elettronica e una passeggiata sulla world wide web, fra un tranquillo chat in rete e una delle tanto chiacchierate “linee erotiche” telefoniche.

La copertina di Panorama del 5 gennaio 1996 portava il titolo «1995 l’anno di Internet»; al posto della solita ragazza nuda c’era la fotografia dell’uomo dell’anno, l’onnipresente Bill Gates: che dell’internet non è mai stato il protagonista, anche se è diventato un “divo” come un calciatore o un’indossatrice; e anche se sta tentando (finora, senza grande successo) di ottenere nella rete la stessa egemonia commerciale che ha il suo discutibile software. In mano a questo arrogante personaggio che cosa compare? Un modem? No. Un cd-rom... Sullo sfondo, un paesaggio vagamente “fantascientifico”. Come se la realtà della rete fosse il “ciberspazio” descritto nei libri di William Gibson. Che sono pieni di straordinarie intuizioni: ma sono, appunto, fantascienza.

Un altro giorno, sono entrato nel bar-tabacchi sotto casa mia con in mano una copia di Wired. Ne è nato un dialogo da cui risulta che il proprietario della tabaccheria insegna programmazione, ha una buona competenza informatica, lavora con un Amiga ed è convinto che la tecnologia più solida basata su PowerPC sia quella che hanno in mano i nuovi proprietari della Commodore... L’ho rivisto ieri. Mi ha detto che ha deciso di comprare un modem. Penso che imparerà molto presto a muoversi bene nella rete.

Purtroppo è molto improbabile che un giornalista, cui qualcuno chiede di fare “per domani” un articolo su “internet”, vada a intervistare quel tabaccaio.


E la pubblicità?

Se parliamo della pubblicità “per” la rete, c’è da mettersi a piangere.

L’unica campagna che mi sembra ben fatta è quella dell’Ibm. A parte il buon livello di qualità realizzativa, appare logico che Big Blue investa in comunicazione per cercare di rendersi “umana”, dato che ha un’immagine tradizionale di gelido gigantismo. Ma la sfida vera non è nel messaggio: è nei prodotti e nel servizio. E lì la strada è ancora lunga.

Microsoft ha speso parecchi soldi per fare una campagna mondiale che mi sembra deludente. Di scarsa qualità, poco comprensibile, estremamente superficiale, piena di promesse vaghe e imprecise, di “trionfalismo” senza costrutto. Non è il barbiere che non ha capito: è la Microsoft che si spiega male, o vuol far credere ciò che non è.

Fra i “provider” italiani, chi ha speso più soldi (non solo in pubblicità) è Video Online. Non sembra che faccia un discorso chiaro. Promesse confuse, esagerate, proiezioni di “gigantismo” che non trovano riscontro nei fatti. Dice un loro annuncio: “500 mila collegamenti”. Intendono, credo, il numero di volte che qualcuno, nel mondo, ha schiacciato un tasto o toccato un mouse. Ma è facile per un lettore inesperto immaginare che abbiano mezzo milione di abbonati, quando (se non sbaglio) ne hanno circa diecimila, di cui chissà quanti usano anche un altro provider.

Anche in America e nel resto del mondo non vedo cose di grande qualità. O discorsi toppo tecnici, o promesse troppo vaghe. Questo è un mercato in cui si perpetua un problema, tradizionale nel marketing dell’informatica: chi vende non sa che cosa offre, chi compra non sa che cosa cerca.


E la pubblicità “nella” rete?

Se parliamo, invece, di comunicazione commerciale “nella” rete (che ha ben poco a che vedere con la “pubblicità” nel senso tradizionale della parola), c’è qualcuno che sta facendo cose intelligenti. Vedi per esempio il caso di Invicta presentato in un recente convegno. Dicono saggiamente di essere entrati nella rete per fare «un tentativo, un ’vediamo che succede’» e osservano: «i benefici sono ancora lontani in termini di risultati commerciali valutabili». Se parte da queste prudenti premesse, e continua a studiare con attenzione il suo pubblico, l’Invicta probabilmente ha imboccato la strada giusta.

C’è anche la bella storia di un artigiano, non ricordo in quale città d’Italia, che fa pipe molto speciali (ognuna è un “originale”, unico e inimitabile: una specie di Stradivari della radica). Grazie alla rete, sta trovando clienti in tutto il mondo. Credo che sia una storia vera, ma anche se fosse inventata sarebbe educativa.

Oppure il caso di Dressed to Kick, un gruppo di giovani veneziani che sta studiando il modo di vendere maglie e accessori “calcistici” nei mercati stranieri (Stati Uniti, Canada eccetera) dove il soccer non è tradizionale ma sta diventando di moda.

Ma “tre o quattro rondini non fanno primavera”. In generale, il quadro rimane confuso.

Non vorrei ripetere qui quello che ho già detto e scritto; ma la mia convinzione è che non esiste un “mercato di massa” nella rete e probabilmente non esisterà mai.

Oggi i mass media raggiungono grandi numeri di persone poco differenziate. Questa è la loro forza ma anche il loro limite.

Probabilmente anche i mezzi tradizionali subiranno una trasformazione profonda quando sapranno capire le possibilità offerte dalle nuove tecnologie (una televisione a 300 o 500 canali è completamente diversa dalla televisione che conosciamo; un giornale “confezionabile su misura”, prodotto in desktop publishing o leggibile in rete è un mezzo completamente diverso dalla stampa di oggi; la radio può arrivare facilmente a una altissima specializzazione, come sta succedendo in America ma non da noi; eccetera).

Credo che i cambiamenti tardino a succedere non perché manchino le risorse tecniche, ma soprattutto per la grossa difficoltà che incontrano strutture e persone quando devono cambiare abitudini, mentalità e modo di lavorare.

La rete è, per sua natura, selettiva. Nessuno può percorrere “tutta” la rete, perché dovrebbe stare attaccato al computer (o leggere cose che ha scaricato) per migliaia di ore al giorno.

Una cosa mi sembra prevedibile con un’alta probabilità: anche quando gli utenti saranno milioni in Italia (e centinaia di milioni nel mondo) non ci sarà un “mercato” ma una moltitudine di mercati, ognuno con un suo carattere e una sua personalità. Definiti per argomento, per interesse, per “attinenza”, e non per collocazione geografica.

Un problema tremendo per chi segue vecchi schemi. Un’occasione straordinaria per chi capisce le nuove possibilità.


Ma allora, chi sa usare bene la rete?

Se rispondessi che “nessuno al mondo” ha l’esperienza necessaria, forse sarebbe un’esagerazione. Ma non sarei lontano dalla realtà.

Anche perché in poco tempo (un anno o due) si è creata una gran folla di persone e organizzazioni che vogliono a tutti i costi “vendere” qualche servizio, e hanno una forte spinta a promettere ciò che non possono mantenere.

Molta improvvisazione, poco approfondimento. Una gran voglia di “saltare sul carro”, immaginando chissà quale Eldorado, chissà quali autostrade, là dove per ora ci sono solo sentieri male esplorati.

Credo che sia giusto essere onesti con se stessi, prima ancora che con gli altri: partire da una “presunzione di ignoranza” non solo per dovere filosofico, ma anche perché credo sia il modo migliore per poter fare davvero, in pratica, cose serie.

La prima cosa che dovremmo dirci, senza falsa umiltà ma con socratica misura, è “so di non sapere”.

Per esempio: ho quarant’anni di esperienza, in mezzo mondo, in tutte le forme di marketing e di comunicazione; e un discreto bagaglio pratico e teorico. Da alcuni anni vivo quotidianamente in rete. Insomma potrei dire: «eccomi qua, l’Esperto».

Sarei un bugiardo o uno sciocco.

Devo impormi di capire che solo con la sperimentazione, con continue prove e errori, con una costante sorveglianza e dialogo, potrò sapere se una certa comunicazione in rete funziona o no. E che quando, finalmente, funziona... sarà molto probabile che si esaurisca in tempi abbastanza brevi se non starò al passo con l’evoluzione, se non saprò proporre novità e tenermi vicini i miei interlocutori con qualcosa che interessi a loro.

Questa è una via faticosa, richiede enorme impegno, pazienza e disciplina; mentre quasi tutti cercano scorciatoie. Che non ci sono.


Insomma, che fare?

Da quello che si è detto fin qui, mi sembra che la “ricetta” risulti chiara.

Si può fare di tutto sulla rete: studio, ricerca, lavoro, commercio. Per chi lo saprà fare bene, ci potranno essere possibilità interessanti.

Ma mi sembra che occorrano alcune cose:

  • Molta pazienza.

  • Un’inguaribile voglia di imparare.

  • Continua sperimentazione.

  • Capacità di scegliere terreni di esplorazione ristretti e bene individuabili – e coltivarli con costanza.

  • Flessibilità. Quello che funziona oggi potrebbe non funzionare domani.

  • Imparare un po’ di netiquette, di buone maniere. È facile stancare, o farsi odiare.

  • Vivere, di persona, la rete. Chi non ne ha esperienza diretta non sarà mai in grado di capire quello che fa.

Se non si ha la pazienza e la voglia di imparare e sperimentare, lasciar perdere. Ci saranno sempre biblioteche e altri strumenti di studio. Continueranno a esserci lavori che si svolgono bene senza un modem, forse anche senza un computer. Per chi ha qualcosa da vendere, il marketing tradizionale continuerà a funzionare per molto tempo. Meglio usare gli strumenti noti che pasticciare con quelli che non si sanno usare.

Non lasciarsi trascinare dagli “effetti”. Ciò che conta è il contenuto: l’offerta, la promessa, il servizio. Un po’ di cosmetica può essere utile, ma anche la donna più affascinante diventa sgradevole se si impiastriccia troppo di rimmel o di rossetto.

Chi viene a vedere la nostra offerta somiglia molto a quelle buffe ed esigenti vecchiette di una famosa campagna pubblicitaria americana, che guardando con sospetto un hamburger chiedevano: “Where is the beef?” (“dov’è la carne?”). La frase è diventata proverbiale. Chi viene a guardare le nostre “vetrine“ nella rete potrà forse divertirsi con qualche schermata di immagini (se ha un modem veloce e un buon collegamento) ma presto si stancherà del fumo e chiederà: “dov’è l’arrosto?”

Infine, e soprattutto: badare all’umanità della rete e nella rete.

Il mondo che incontriamo attraverso la rete non è fatto di macchine, strumenti, protocolli o immagini. È fatto sempre esclusivamente di persone. In carne e ossa, non “virtuali”.




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