Offendere per confondere
“provocazioni” effimere e disoneste


Risposte di Giancarlo Livraghi alle domande
di Roberta Sardo (per tesi di laurea – la Sapienza, Università di Roma)

giugno 2013

 
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(migliore come testo stampabile)


Non avrei mai scritto su questo argomento se non mi fosse stata chiesta un’intervista.
Ma ora, “visto che c’è”, la pubblico per il caso che a qualcuno interessi la mia opinione.
L’uso di “provocazioni” per attirare attenzione, senza alcun nesso rilevante
con l’argomento di cui si scrive, si parla o si discute, è una stupida perversione.
Ancora più dispersiva e scorretta quando di tratta di pubblicità commerciale.


L’intervista che segue si prefigge di analizzare le strategie comunicative di Benetton, con un focus particolare sullo “shockvertising”, allo scopo di capire quanto questo tipo di comunicazione abbia contribuito alla creazione di una brand awareness di successo e se abbia portato con se eventuali effetti collaterali.

Per secoli e millenni, molto prima che qualcuno inventasse il neologismo “shockvertising”, è stato praticato (non solo, né principalmente, in pubblicità) il metodo di dire o fare cose “provocatorie” per suscitare attenzione. Cent’anni fa (e anche prima) si chiamava épater les bourgeois.

Lo vediamo largamente applicato in ogni sorta di situazioni politiche, economiche, sociali e culturali – con particolare rilevanza quando e dove è repressa la libertà di opinione. Con metodi largamente variabili da pittoresche “scostumatezze” (compresi abbigliamenti e nudità) fino a terribili sacrifici estremi, come pubblici suicidi.

Può essere ragionevole, efficace e coraggioso quando si tratta di rompere barriere di pregiudizio o disattenzione. Ma diventa spregevole e confusivo quando è solo un pretesto per ottenere “visibilità”.

Purtroppo non sono rari percorsi incrociati, in cui le “buone cause” si mescolano con protagonismi egotistici e grotteschi sensazionalismi. O con squallide esibizioni di irritante volgarità.

Da queste premesse si possono facilmente dedurre i motivi del mio scetticismo in fatto di “shockvertising”. Ma sarò un po’ più preciso, nelle risposte, su ciò che riguarda la comunicazione d’impresa e in particolare la pubblicità Benetton.


1) Cosa ne pensa della strategia comunicativa di Benetton nel tempo?

Sono perplesso. Ci sono state fasi di comunicazione chiara ed efficace, altre di disorientante confusione in cui è molto difficile individuare una strategia.

Un perno positivo in questa evoluzione è stata l’originaria campagna United colors of Benetton, cominciata nel 1985 e continuata per cinque anni. Era chiara e coerente – con una radice nei fatti. Uno dei motivi del successo di Benetton è una tecnologia: la capacità, che nessuno aveva prima, di tingere non solo il filo prima di tessere, ma anche il capo già tessuto e confezionato “in bianco”. E così potersi adattare più velocemente alle richieste del mercato, con un magazzino facilmente gestibile.

Abbinare una risorsa tecnica, insieme alla diffusione internazionale, con la simpatica varietà di persone diversamente “colorate” non era pretestuoso. Era intrinseco alle qualità del prodotto e dell’impresa. E comunque non si trattava di “creare notorietà”, ma di consolidare, rafforzare ed evolvere l’identità di una marca già largamente conosciuta.


2) Quali sono stati, secondo lei, i suoi punti di forza e quali i punti di debolezza?

Fra i “punti di forza” un intelligente rapporto qualità-prezzo, energici investimenti nella distribuzione, un posizionamento equilibrato e un’identità distinguibile rispetto alla “alta moda” e al mercato di “basso livello”. Anche alcune fasi di comunicazione coerente ed efficace (come il periodo iniziale di United colors of Benetton).

Fra le “debolezze” le incoerenze strategiche (come il confusivo “shockvertising”) e qualche complicazione nella gestione centrale del gruppo in seguito agli investimenti in settori molto diversi (come autostrade, aeroporti, autogrill) che oggi hanno dimensioni superiori al tessile-abbigliamento.


3) Con la campagna UnHate del 2011 (detta anche dei baci anti-odio) Benetton entra nella fase di comunicazione integrata unendo alle tecniche iconografiche impattanti l’uso sapiente della rete. Quali sono, secondo lei, i punti di forza e di debolezza di questa nuova fase di comunicazione Benetton? Cosa ne pensa di questa specifica campagna?

Non ho idea di quali possano essere i valori di “comunicazione integrata” o “uso sapiente della rete”. In questo campo ci sono molti più esempi di autocompiacimento, presunzione e vanagloria che di dimostrabile efficacia.

Se le “tecniche iconografiche impattanti” incarnano un estemporaneo ritorno a opportunismi del genere “shockvertising”, sono autolesioniste. Un vero progetto di comunicazione integrata deve avere al suo centro l’identità profonda e duratura della marca e del prodotto – nei concetti e anche nelle immagini. Non un pretestuoso “buonismo” di cui chiunque si potrebbe appropriare – anche un biscotto o un’aranciata, un telefono o un cosmetico, un albergo o un giocattolo.

È comprensibile (anche se sostanzialmente sbagliato) che una marca neonata o poco conosciuta ricorra a tatticismi di questo genere nel tentativo di ottenere visibilità. È assurdo che cada in questa trappola un’impresa già abbondantemente nota, con una forte e consolidata identità.

Per quanto riguarda la “campagna UnHate”, ho più dubbi che idee chiare. Ma cercherò di fare qualche ragionamento nella risposta 5.


4) Quali sono, a suo avviso, le ragioni che hanno spinto Benetton, ieri e oggi, a fare uso dello shockvertising?

“Oggi”, non è facile capire. Ritornerò su questo argomento nella prossima risposta. “Ieri”, cioè più di dieci anni fa, si trattava dell’individuale e privato divertimento di due persone: Oliviero Toscani e Luciano Benetton.

Toscani (che non era l’autore dell’originaria campagna United Colors) non è un professionista della pubblicità e della comunicazione. È un fotografo di moda che, colta l’occasione di ottenere notorietà, dedica tutte le sue energie a “far parlare di sé”. E ci riesce, usando soprattutto le “provocazioni” per suscitare imbarazzo, fastidio, antagonismo, polemiche e dibattiti.

Luciano Benetton è un imprenditore “insolito” e si diverte a esserlo.

Gli piace sconcertare e sorprendere, deridere e imbarazzare. Ha trovato nelle aggressività scandalistiche di Toscani uno strumento per espandere il gioco e gli ha fornito le risorse per farlo (soprattutto molti soldi da spendere in pubblicità). La bizzarra simbiosi fra due egocentrici e onanistici protagonismi è durata undici anni e si è bruscamente interrotta nel 2000.


5) Quali gli effetti sulla notorietà e l’immagine di marca?

Sulla notorietà, nessuno. La marca Benetton aveva una grande notorietà anche prima, non ci sono motivi per supporre che sia aumentata o diminuita per effetto di “shockvertising” o altre pretestuose polemiche.

Sull’immagine, è probabile che ci siano stati effetti negativi. Quando la comunicazione divaga allontanandosi dall’identità del prodotto e della marca la sua credibilità si diluisce e tende a spegnersi nella percezione che non abbia alcuna qualità concreta per meritare di essere scelta.

Un problema squallidamente diffuso nella sovrabbondante confusione di molta pubblicità pretestuosa e incoerente, dedicata a “fare spettacolo” invece di offrire informazioni utili e rilevanti.

(Vedi a questo proposito La sindrome di Carosello alla fine del capitolo 6 di Il nuovo libro della pubblicitàanche online.

Ci sono due “fatti nuovi” che non è facile interpretare. La campagna UnHate del 2011 seguita da Unemployee of the year nel 2012. Non sembra essere un ritorno alle “provocazioni” del passato (e questa volta Toscani non c’entra). Tutte e due non si limitano a denunciare il problema, ma promettono iniziative concrete per aiutare a risolverlo. Lodevole intento – si tratterà di vedere se e come si tradurrà in fatti rilevanti.

Più che “shockvertising”, sembra essere “corporate communication”. Cioè quell’insieme di pubblicità e relazioni pubbliche che non riguarda il marketing di prodotti o servizi, ma l’identità dell’impresa.

Generoso impegno sociale? Strumento di dialogo con la politica, le istituzioni, la società civile? Può essere un insieme di queste cose. Promesse rivolte al mondo esterno, l’opinione pubblica in generale, ma anche a quello interno, le persone che lavorano nell’impresa e nei suoi fornitori e distributori e sono meglio motivate quando hanno un gradevole senso di appartenenza. Ma possiamo solo tentare di indovinare, non sappiamo quale sia l’intenzione strategica.

Il problema, comunque, è che le dichiarazioni e le intenzioni non bastano. Ci vuole coerenza e continuità. Concretezza nei comportamenti reali. Più ci si dichiara virtuosi, maggiore è il danno se si è scoperti a commettere qualche marachella. Fino agli enormi disastri prodotti, per esempio, da produzioni o servizi “delocalizzati” in paesi vicini o lontani dove si lavora in condizioni disumane.


6) Cosa ne pensa della pubblicità a forte impatto emotivo e dell’uso che ne fanno, al giorno d’oggi, le aziende? Quali sono i pro e i contro?

Ne penso male – e con crescente disgusto. Non perché ci sia qualcosa di sbagliato nei valori emotivi. Quando sono reali, attinenti e credibili, sarebbe sciocco ignorarli. Ma perché “l’uso che ne fanno, al giorno d’oggi, le aziende” è troppo spesso insensato e incoerente.

Assurdi, forzati e finti entusiasmi, come infondate o esagerate paure, indeboliscono la comunicazione e ne intaccano la credibilità. Suscitare ed esprimere emozioni sincere, verosimili, coerenti, richiede qualità, attenzione, sensibilità che spesso mancano nella banale e grossolana ricerca di esagerato e goffo “impatto emotivo”.


7) La frequenza con cui lo shockvertising cade in volgarità e offese alla morale divide l’opinione pubblica, tanto che lo stesso Giurì fatica ad esporsi con istanze. Lei si è mai sentito ferito/disgustato da una campagna Benetton? Se sì, quale? Se no, perché?

Non mi “scandalizzo” facilmente. Non mi sento personalmente “ferito” da immagini o parole esplicite che altri possono considerare “offese alla morale”. Ma mi disgusta la strumentalizzazione, la banalizzazione di problemi seri con l’esasperata ed esasperante ricerca di effetti irritanti per generare volgari polemiche e insensato “rumore”.

Queste schifezze sono difficilmente valutabili e condannabili con le procedure, necessariamente formali, del Giurì. Ma le distorcenti buffonate delle montature “shock” si possono combattere efficacemente con il disprezzo che meritano e con una sana dose di tagliente ironia.


8) Oliviero Toscani ha definito la campagna dei baci anti-odio «una minestra riscaldata», cioè una patetica copia del famoso bacio tra un prete e una suora. Mettendo le due pubblicità a confronto le sembra di riscontrare un’evoluzione o un’involuzione nella pubblicità Benetton?

Sono miserevoli e irrilevanti le polemicucce del genere “la mia fotografia è meglio della tua”. Semmai potremmo chiederci perché immagini simili siano usate in contesti diversi. Che a Oliviero Toscani dispiaccia essere escluso è comprensibile. Ma è puerile e desolante che ricorra a questi mezzucci per cercare di ritagliarsi una fettina di notorietà.

Come ho già osservato, non è chiaro se le attuali campagne Benetton abbiano nuovi e più sensati obiettivi o siano un ritorno al passato (nel qual caso sarebbero l’involuzione di un’involuzione). Comunque, poiché non si tratta più di una vaga collezione di svariate “provocazioni”, ma di due campagne su temi distinti, coerenza e specificità sono molto più importanti di confusive divagazioni “scandalose”.


9) La campagna del 2012 “Unemployee Of The Year”, pur essendo irriverente, non fa gridare allo scandalo. Perché, secondo lei, Benetton alterna pubblicità shock a pubblicità dai toni decisamente più pacati?

Spero che non si tratti di “alternanza”. Sarebbe un comportamento sciocco, irresponsabile e bizzarro, rivelatore di una mancanza di metodo e coerenza strategica. Ma potrebbe non essere così.

Nella campagna 2011 una galleria di “baci improbabili” fra personaggi notoriamente in disaccordo può essere più bonariamente ironica che irritante e offensiva. Infatti non mi sembra che abbia “fatto gridare allo scandalo”.

Quella del 2012 è molto diversa. Affronta il problema disoccupazione (in particolare giovanile) che, con largo cosenso, è considerato grave. Lo fa con un misto ambiguo di sincerità e scherno. Ma, anche così, riconoscerne l’importanza (e proporre risorse per risolverlo) non può avere il tono stridente di una “voce fuori dal coro”. Mettere le vittime nel ruolo di protagonisti è un atteggiamento di rispetto, empatia e buon senso – non una “provocazione”.

Per tutte e due si tratterà di capire se propongono un impegno continuativo o sono chiacchiere estemporanee buttate nel vento per poi dimenticarle e pensare ad altro. Se fossero solo vaneggiamenti effimeri, in uno come me susciterebbero più disprezzo che simpatia.


10) Gli Adbuster ritengono che il vero colore di Benetton sia quello dei soldi e che l’uso di temi sociali per la pubblicità aziendale abbia come unico scopo il profitto. Qual è il suo punto di vista a proposito di questa opinione?

Il marketing (quello vero) e la comunicazione d’impresa (quella che funziona) sono basate sull’ascolto, sulla capacità di capire le esigenze e i desideri di persone, famiglie e imprese. Di conseguenza la pubblicità (quella efficace) ha il compito di presentare in modo interessante (non divagante) i valori autentici di prodotti e servizi.

Tutto questo è in declino, da trent’anni. Per motivi complessi generati soprattutto dal demenziale predominio della finanza speculativa. Imperversa un falso concetto di “creatività” che si traduce in balordaggini, pretestuosità e confusione. Compreso l’uso improprio e manipolato di “temi sociali”.

Una bizzarra variante in questo marasma è la “provocazione” nella ricerca di polemica “visibilità”. Che non solo è inutile per il successo di un'impresa, ma spesso ha l’effetto contrario: confondere, svilire e indebolire la sua identità.


11) Pensa che sia utile la presenza di un codice di autodisciplina o di norme statuali che limitino gli eccessi della pubblicità, come è accaduto per alcune campagne Benetton?

In generale, sono convinto della serietà e funzionalità dell’autodisciplina pubblicitaria. Nata nel 1966, è stata progressivamente evoluta e migliorata. È ovvio che su alcune sentenze ci possano essere opinioni diverse, ma nessun sistema di giurisprudenza può essere infallibile.

Nel caso delle “provocazioni”, è difficile che procedure necessariamente formali possano distinguere fra ciò che è “ingannevole” e la libera espressione di opinioni con cui alcuni concordano e altri no.

Comunque il problema non è solo, né principalmente, nella pubblicità. È diffusa in tutto il sistema di cosiddetta informazione l’esasperata e frettolosa ricerca dello scoop, dello “scandalo” e del pettegolezzo.

Un malanno non curabile con imposizioni disciplinari, ma con un comportamento più serio e responsabile di giornalisti, direttori, editori, “opinionisti”, presunti “esperti” e presuntuosi “tuttologi”.

Ho scritto parecchie cose su questo argomento. Mi limito a citarne due. Ingormazione (la g non è un refuso) e La travolgente cavalcata delle bufale.


12) L’attuale normativa statutaria e di autodisciplina le sembra efficace?

Come ho già detto, in generale si. Ma in questo caso il problema non si risolve con regole e discipline – né con alcun genere di repressione o censura.

Oltretutto, nel gioco ingannevole delle provocazioni una condanna (dell’autodisciplina o di qualsiasi altra autorità) può essere considerata un vantaggio, perché offre l’occasione di ulteriori polemiche. Quando si tratta di diatribe, liti, insulti, dileggio e volgarità, è facile per l’aggressore mettersi nel ruolo della vittima.

Conta molto di più un’energica dose di buon senso. La noia e l’oblio in cui noi, lettori e spettatori, possiamo seppellire le stucchevoli “provocazioni”. Come diceva Virgilio a Dante nel terzo canto dell’Inferno, «non ragioniam di lor, ma guarda e passa».
 

*     *     *

È incerta l’autenticità di una frase variamente citata. «Il pover’uom, che non se n’era accorto, andava combattendo ed era morto». Non si trova, come diffusamente si crede, nell’Orlando Innamorato Matteo Maria Boiardo, ma nel poco noto, ironico “rifacimento” di Francesco Berni (la precisione di quel testo è esegeticamente discutibile). Il fatto interessante è che, nella confusione di oggi, vediamo parecchie situazioni di questo genere.

Liti, polemiche, villanie, “provocazioni” di ogni specie, possono suscitare qualche breve curiosità, ma interessano sempre meno all’opinione pubblica. Anche di “shockvertising” si dibatte quasi esclusivamente fra gli “addetti ai lavori” – con crescenti sbadigli e calante rilevanza.

È ora che i defunti guerrieri riposino in pace e lascino spazio ad altri, meno grotteschi e più rilevanti, temi di discussione e approfondimento.

 


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