Ripensare il concetto
di “mercato”

 
Estratto dal capitolo 24 di
La coltivazione dell’internet

Giancarlo Livraghi   gian@gandalf.it




Prima di pubblicare il libro La coltivazione dell’internet, oltre a leggere molti testi e consultare molte fonti, ne ho parlato con parecchie persone, con particolare competenza in diverse prospettive di analisi.

Fra questi c’è Guglielmo Barbiero, che ha una profonda esperienza in fatto di strategia e gestione d’impresa; è anche uno dei più attenti studiosi delle dottrine sull’argomento. Quando ha letto in bozza il capitolo 24, mi ha fatto notare che il concetto di “mercato” può essere messo in discussione.

Riporto qui un suo commento, che mi sembra interessante – con molte possibilità pratiche di applicazione al concetto generale di impresa (non solo nel caso dell’attività online).

Dai tempi degli scritti di Bruce Henderson le riflessioni in tema di “mercato” sono state numerose. Il termine “mercato” è infatti oggi utilizzato con molti significati: può essere riferito a una tecnologia produttiva, una categoria di utilizzatori, una famiglia merceologica, una funzione svolta dai prodotti, un particolare bisogno soddisfatto. È dunque un termine-contenitore, per nulla utile in mancanza di un riferimento. La consuetudine di attribuire al “mercato” il significato di settore - tecnologia - processo produttivo (eredità dell’economia di produzione) è fortemente limitativa.

Questo modo di pensare è sempre più in contrasto con la crescente pratica della differenziazione perseguita dalle imprese. La forza di una marca sta nella sua capacità di determinare un suo proprio mercato, di cui definisce i confini e l’identità che la rende riconoscibile, differenziata e inconfondibile. Chi acquista i suoi prodotti o servizi non li vede come una delle alternative disponibili, ma come qualcosa di unico e diverso.

Il concetto di “quota di mercato” è poco utile a suggerire efficaci alternative di azione. Gli studi sulla concorrenza si sono preoccupati di misurare la spartizione di un’entità ambigua e convenzionale (“mercato”) più che di chiarire i motivi per cui due imprese si possono considerare “concorrenti” o due prodotti reciprocamente sostituibili.

In altre parole: non è detto che il successo di un’impresa, di una marca, di un prodotto o di un servizio stia nella conquista di una “quota” in un “mercato” occupato e definito da qualcun altro. Anzi, la posizione è molto più forte quando ciò che l’impresa offre ridefinisce la struttura del mercato, determina nuovi parametri, o addirittura costruisce un quadro di riferimento di cui è proprietaria e leader naturale.

Risultati di questo genere sono quasi sempre basati su qualità intrinseche del prodotto o del servizio, con “barriere tecnologiche” che rendono difficile l’entrata di concorrenti; ma anche su un posizionamento che risponde alle esigenze di chi acquista in modo diverso dagli standard convenzionali del “mercato”.

Anche nella definizione del cosiddetto “ombrello” di marca (cioè quanti e quali prodotti o servizi possono portare lo stesso nome) non è importante solo valutare le competenze e coerenze tecniche (cioè che cosa l’impresa sa produrre, acquistare o distribuire) ma anche quali precise (e per quanto possibile “inimitabili”) caratteristiche ha la marca come punto di riferimento per il “consumatore”. Estensioni coerenti all’identità della marca (come garanzia-utilità per chi acquista) la rafforzano; deviazioni su terreni “non attinenti” la possono indebolire.

Se questo è vero in generale, lo è ancora di più nell’internet. Nella molteplicità delle reti anche imprese relativamente piccole possono definire un territorio e presidiarlo. L’interattività globale modifica il concetto di dimensione e di “economie di scala”. Un’altissima specializzazione, che potrebbe non arrivare alla soglia minima di “ritorno sull’investimento” in una prospettiva locale o anche nazionale, può essere premiante su scala mondiale. Ciò che a Milano o a Roma interessa a dieci persone, nel mondo può trovare mille clienti.

Mi sembra importante capire che la logica di questi sviluppi è molto diversa dal concetto tradizionale di “segmentazione”.  (Vedi Mettiamo in soffitta la “segmentazione“).

Operare efficacemente in rete significa costruire, nutrire e gestire un sistema di relazioni che non è un recinto in uno spazio più ampio e indifferenziato, ma è un organismo autonomo, con una propria identità, con un patrimonio di esperienze condivise.

Identificare nella “globalità” della rete quelle persone o imprese che sono interessate a un servizio diverso dallo standard generale significa vivere in una comunità che costruisce e definisce il proprio ambiente; che si evolve, cresce, si nutre e si moltiplica determinando le proprie regole e una sempre più distinta e riconoscibile identità. Come un essere vivente.  (Vedi L’economia connessa: biologia, agricoltura, coltivazione).

Ciò che nel marketing tradizionale si chiama “nicchia”, in una nuova definizione di mercato può essere un ambiente a sé stante. Nutrito dal “circolo virtuoso” della reciproca utilità fra l’impresa e i suoi clienti, i suoi fornitori, le imprese che svolgono attività complementari, eccetera.

Le possibilità si moltiplicano – non solo per l’avanzamento tecnologico che permette innovazioni e specializzazioni sempre più precise e “su misura” ma anche per la crescente diversità delle persone, delle culture, delle esigenze e delle scelte.

Giulio Cesare diceva «preferirei essere il primo in un villaggio che il secondo a Roma». Ma qui non si tratta di potere politico o militare. Si tratta degli enormi vantaggi che ottiene un’impresa quando ha le leve di controllo su un “suo” mercato che, nella molteplice diversità di un’economia “globale”, può avere dimensioni molto più grandi di un villaggio o di una piccola agorà condizionata dalla vicinanza fisica.




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