labirinto
Il filo di Arianna


maggio 2002


Giancarlo Livraghi     gian@gandalf.it


Perché è sbagliato
parlare di “utenti”

Le parole sono spesso un sintomo (e una causa) di un modo di pensare. Non è pedanteria lessicale, ma strumento per capire meglio, badare al senso delle parole che usiamo. Anche senza invocare Socrate... che senso ha parlare di “utenti” quando si tratta dell’internet o di tecnologie dell’informazione? Il termine non è solo ambiguo – è deviante.

Qualcuno mi ha chiesto perché, da molti anni, nelle analisi sui dati di diffusione della rete scrivo sempre “utenti” fra virgolette. C’è un motivo tecnico. La definizione di “utente” è imprecisa (si tratta della persona che può disporre di un collegamento? o di chi lo usa con una certa frequenza? o di chi “dice” di farlo, il che non necessariamente equivale a ciò che davvero fa?) e perciò i dati non possono essere “presi alla lettera”. Ma c’è anche un motivo concettuale – ed è più importante.

Parlavano di “utenti” (e continuano a farlo) le organizzazioni che distribuivano servizi in condizioni di monopolio (ora, in alcuni casi, di oligopolio, ma la situazione non è molto cambiata). Chi usa la corrente elettrica, o l’acqua potabile, o il telefono, non può farne a meno. Se chi usa il servizio non paga “si tagliano i fili”. La mentalità delle imprese erogatrici è quella di un esattore. Oggi la forma è cambiata, si indossano maschere “seducenti”, si chiacchiera un po’ a vanvera di customer care, ma la sostanza è in gran parte la stessa. Le ragioni degli “utenti” contano poco, come conferma l’esperienza quotidiana.

Tutto ciò non è solo sbagliato da un punto di vista morale, sociale e culturale. È anche rischioso, perché quando il mercato diventa davvero competitivo (o quando il misero “utente” diventa un “cliente” più esigente e meno facilmente abbacinato da complicazioni tecniche non sempre desiderabili) gli imperi costruiti sulla prepotenza possono franare. Già se n’è visto qualche esempio, ma è poca cosa rispetto a ciò che potrebbe accadere.

Qualcosa di simile succede con l’elettronica (hardware e software). Macchine e sistemi progettati del punto di vista di chi li fa, non di chi li deve usare. Sdegnosa, prepotente e ostica didattica di “alfabetizzazione” che vuol condizionare gli “utenti” alle esigenze della macchina, mentre si dovrebbe fare il contrario. Un falso mercato basato sulla forzata e finta “innovazione” che conviene a chi vende e non a chi acquista. Sovrastrutture che si autodefiniscono friendly ma dell’amicizia hanno solo un’ambigua apparenza (meglio sarebbe poter gestire più direttamente funzioni meno imbellettate e più efficienti). Tutto il quadro potrebbe migliorare se si pensasse a persone di cui la macchina è un accessorio, non a “utenti” ridotti ad accessori della macchina.

E inoltre... cito volentieri uno dei miei autori preferiti. Gerry McGovern mette in discussione il concetto di user nei sui interessanti libri sull’importanza del contenuto online (come il recente Content Critical) e anche in un articolo pubblicato il 1° aprile 2002 (ma non è un pesce) Don’t call people users in cui spiega:

“Utente” è un modo di dire e, in ultima analisi, una parola senza senso. Riflette un modo tecno-centrico di pensare alla rete, invece di una prospettiva centrata sulle esigenze umane. Se li chiamiamo lettori, clienti, investitori o collaboratori, mettiamo a fuoco il motivo per cui abbiamo un sito web e gli obiettivi che vogliamo raggiungere.

I nomi che usiamo sono incredibilmente importanti. Quando chiamiamo le persone “utenti” dell’internet, che cosa vogliamo dire? Assolutamente nulla. Definire l’uso di uno strumento dà allo strumento un significato. Senza significato non c’è definizione di funzioni e intenzioni. È troppo facile, se parliamo di “utenti”, dimenticare perché siamo in rete.

E conclude:

Insomma, buttiamo via la parola “utente”. E se non abbiamo un modo migliore di definire le persone, chiamiamole semplicemente persone.

Questo è solo un problema di terminologia? Credo proprio di no. È prima di tutto un modo di pensare – e di conseguenza un modo di agire e di comunicare.



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