Un supplemento a
Le bizzarrie delle citazioni
(Giancarlo Livraghi marzo 2013)
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(migliore come testo stampabile)
Sono grato a Flavia Tornari Zanette per questo interessante commento
su una citazione erroneamente attribuita a Niccolò Machiavelli
e sui diffusi errori di interpretazione del suo pensiero.
Niccolò Machiavelli
Il fine giustifica i mezzi
Se una citazione o unattribuzione imprecisa costituiscono di solito, per così dire, un peccato veniale privo di conseguenze, ciò non vale per la frase (ripetuta troppo, e spesso a sproposito) «il fine giustifica i mezzi».
Il concetto che essa esprime ha probabilmente origini antiche: lo si ritrova, ad esempio, nelle Heroides di Ovidio («exitus acta probat»).
Laffermazione suddetta, riferita nellopinione comune a Niccolò Machiavelli, non trova però riscontro né nel Principe né in altre opere dellautore. Inoltre non ne riflette il pensiero, anzi lo snatura e lo distorce, allo stesso modo dellaggettivo machiavellico usato sempre con chiara connotazione negativa.
Ancor oggi Machiavelli è dunque, per i più, un cinico maestro di malvagità, di ipocrisia e di inganni finalizzati al conseguimento, con qualsiasi mezzo, di leciti o illeciti interessi personali.
Ma non fu questo il suo intento, né mai egli applicò alla propria vita la massima opportunistica che gli viene attribuita. Lavesse fatto, sarebbe potuto diventare ricco. Rimase invece sempre povero, malgrado la sua lunga attività in ambito diplomatico e politico.
Il motivo del perpetuarsi dellerrore è riconducibile in sostanza allinterpretazione frettolosa, superficiale o anche malevola e volutamente mistificatoria di un passo del 18o capitolo del Principe: «...nelle azioni [...] massime de principi [...] si guarda al fine.»
Il fine cui guardare, nellottica machiavelliana, è di natura esclusivamente politica e consiste nel raggiungimento del potere, nel suo mantenimento e nella solidità dello stato. Unicamente a tale scopo il principe deve saper «entrare nel male, necessitato»: nessuna sua azione, neppure la più riprovevole, può essere condannata se volta a «vincere e mantenere lo stato»: «i mezzi saranno sempre ritenuti onorevoli e da ciascuno laudati».
La stabilità, la grandezza ed il prestigio dello stato assumono pertanto, nel pensiero del Nostro, il valore di un ideale supremo e assoluto, di un mito in nome del quale tutto si giustifica.
Il celebre ritratto del principe (modellato in parte su Cesare Borgia) è grandioso e insieme terribile: allapparenza fatta di lealtà, di benevolenza, di integrità, di umanità, di religiosità deve corrispondere, nella realtà, la forza spietata del lione unita allastuzia sottile della golpe.
Solo la fortuna (cap.25o) è in grado di ostacolare la virtù del principe. Ma la fortuna è donna e come tale ama i giovani impetuosi che sanno dominarla ricorrendo alla violenza («è necessario [...] batterla e urtarla»): unanalogia che, pur risultandoci sgradevole o quanto meno assai discutibile, esprime con immediatezza vigorosa lo sforzo rinascimentale di rappresentare luomo, sempre e comunque, faber fortunae suae.A fondamento della netta separazione tra la sfera morale e quella politica si colloca il profondo pessimismo nutrito da Machiavelli nei confronti della natura umana.
I miei precetti, egli insiste ripetutamente, non sarebbero buoni «se gli uomini fussino tutti buoni». Invece «nel mondo non è se non vulgo»: gli esseri umani sono (cap.17o) «ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de pericoli, cupidi di guadagno», pronti a sostenerti nella buona sorte, a rivoltartisi contro nella cattiva. E «sdimenticano più presto la morte del padre che la perdita del patrimonio».
Con sudditi siffatti, il principe che volesse «mantenere la fede e vivere con integrità e non con astuzia», come sarebbe laudabile (cap.18o), porterebbe ben presto alla rovina se stesso e il proprio stato.
Ma cè di più: nel capitolo finale (26o) emerge con una potenza tanto intensa quanto inaspettata il sentimento animatore del trattato, sul quale viene così gettata una luce del tutto nuova.
Lungi dallessere una fredda disamina della verità effettuale della cosa o tanto meno un immorale prontuario di malefatte ad uso e consumo dei potenti, esso si rivela il frutto del dolore per le tragiche condizioni dellItalia del tempo e della speranza (riposta nel casato dei Medici) che essa, «sanza capo, sanza ordine; battuta, spogliata, lacera, corsa», trovi la propria salvezza nellagire deciso e spregiudicato di un principe audace e forte, capace di liberarla dalle odiose dominazioni straniere: «A ognuno puzza questo barbaro dominio».
Machiavelli non rinnega nel Principe i propri ideali repubblicani, di cui i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio sono unevidente testimonianza: la repubblica tuttavia potrà rinascere, a suo giudizio, solo dopo che il principato avrà posto le basi per la sua rigenerazione.
Flavia Tornari Zanette
Una piccola nota: la repubblica italiana si è realizzata 430 anni dopo.
[g.l.]
Non resisto alla tentazione di aggiungere un commento
che riguarda un altro fra i più orribili modi di dire.
Titus Flavius Vespasianus
Pecunia non olet
Il problema, in questo caso, non è lattribuzione. Ma è il significato, metaforico e molto più esteso, che la frase ha assunto nei (quasi venti) secoli successivi allepisodio narrato da Svetonio e Dione Cassio.
È rimasto anche in epoca moderna luso di chiamare vespasiano un pubblico servizio igienico (di uso solo maschile). Letimologia è corretta. Fu davvero quellimperatore a deciderne linstallazione a Roma. Ma, per quanto bene intenzionata, la cosa suscitò alcuni problemi e polemiche.
Pare che il servizio fosse a pagamento in alcune situazioni obbligatorio (per esempio prima di accedere a cerimonie di stato). Gestito da privati, gravati di una tassa da cui provenivano cospicue entrate per lerario.
Cera anche un sistema di raccolta delle urine con procedimenti chimici per ricavarne lammoniaca, usata nella concia delle pelli.
Insomma un esteso e complesso giro di denaro, fra pubblico e privato, in cui si insinuavano problemi di corruzione e ogni sorta di altri abusi.
Fra i critici della contorta situazione cera Tito, figlio di Vespasiano (e più tardi suo successore sul trono). Gli storici raccontano che, in dileggio al padre, Tito buttò alcune monete in una delle latrine e Vespasiano con altrettanto scherno le raccolse dicendo il denaro non puzza.
Ne possiamo dedurre che allepoca dei Flavi i governanti avessero un senso dellumorismo di cui si trova scarsa traccia in altri periodi storici, compreso quello in cui viviamo. E oggi il fetore fisico è meno diffuso. Ma, per il resto, mi sembrano evidenti le sgradevoli somiglianze con il mondo attuale.
Giancarlo Livraghi
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